Cannes, il sistema non si raddrizza
Nell’edizione di quest’anno del Festival di Cannes (13-24 maggio), il forte “Dva prokurora – Two Prosecutors” dell’ucraino Sergei Loznitsa non ha vinto premi importanti, ma ha colpito il pubblico con una storia che narra l’impossibilità di raddrizzare il sistema staliniano

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Scena tratta da "Dva prokurora" - Wikipedia
L’ucraino Sergei Loznitsa è un regista che non ha fortuna con le giurie dei grandi festival. Solo “Donbass” ha ricevuto il premio a Cannes per la miglior regia nella sezione parallela "Un certain regard" nel 2018.
Incluso quest’anno nel concorso principale per la Palma d’oro (andata a “Un simple accident” dell’iraniano Jafar Panahi) con il suo quinto film di finzione, “Dva prokurora – Two Prosecutors”, Loznitsa è rimasto di nuovo a mani vuote. Per lui solo il premio collaterale François Chalais Prize, un’iniziativa che ha nell’albo d’oro tanti grandi nomi e iniziata nel 1997 premiando il bosniaco Ademir Kenović.
Una pellicola ambientata nel 1937, “nel pieno del terrore staliniano” come recita la didascalia iniziale, ispirato dal testo omonimo dello scrittore sovietico e prigioniero politico Georgy Demidov. Nel prologo un anziano detenuto nel carcere di Briansk (posto nella Russia occidentale, non distante dal confine ucraino) vaglia i sacchi di messaggi che i prigionieri hanno inviato a Stalin chiedendo clemenza e dichiarandosi innocenti.
L’uomo ridacchia disilluso leggendo l’espressione “giustizia comunista” cui qualcuno si affida, poi li butta tutti nel fuoco per distruggerli, salvando solo un bigliettino. Tempo dopo il giovane procuratore Kornyev si presenta alla prigione per incontrare il carcerato Stepniak, rinchiuso nel braccio speciale, dal quale ha ricevuto un messaggio scritto con il sangue in mancanza di matite o penne.
Il direttore della struttura si meraviglia di come la missiva sia potuta arriva a destinazione e del perché il funzionario si presenti per rispondere alla chiamata: il funzionario cerca di dilazionare accampando varie scuse, con l’intenzione di spazientire il magistrato e farlo desistere.
Ma Kornyev, che crede nella giustizia, nel partito e nel comunismo, è convinto di poter raddrizzare le storture e non si arrende facilmente. Riuscirà a incontrare Stepniak in cella, a vedere i segni delle torture che ha subito, ascoltarne i racconti scioccanti e rendersi conto di ciò che sta accadendo.
Come tutti i lavori di Loznitsa, “Two Prosecutors” è un film curatissimo (il direttore della fotografia è il fido Oleg Mutu), con inquadrature fisse che rendono come meglio non si potrebbe il non poter sfuggire a un destino segnato.
Kornyev sarà tradito, sconfitto e beffato: il sistema non si può raddrizzare dice Loznitsa, che posiziona piccoli busti di Stalin e Lenin ovunque. E tra le righe si può leggere il parallelo tra Stalin e Putin, con i quali il regista è sempre stato durissimo. Una pellicola potente e precisa, tra le più belle dell’edizione del Festival
Nella sezione parallela Quinzaine des cineastes è stato presentato il documentario “Militantropos” di Yelizaveta Smith, Alina Gorlova e Simon Mozgovnyi sul conflitto in Ucraina. È una sorta di film a tesi: la guerra come condizione permanente cui bisogna rassegnarsi e l’essere soldato e il partire per la guerra, che è uguale in tutte le guerre, di oggi e di ieri.
Non sono indicate date o luoghi, ma le didascalie recano il significato di alcuni termini che suggeriscono la lettura del film. Ci sono un percorso e un discorso, più o meno esplicitato, sul trasformarsi da esseri umani in militari, come la crasi del titolo suggerisce.
È un film mosaico, come tanti altri nell’Ucraina di questi anni, con la differenza che non si tratta di un catalogo che procede per accostamento o accumulo o una collezione di situazioni tipo. Certo, ci sono le esplosioni e le fughe in treno dei primi giorni dell’invasione, poi le vittime, la distruzione, i mezzi militari, gli addestramenti, i paesaggi spogli o gli echi degli spari come in quasi tutti i documentari girati nel Paese.
L’inizio è molto cupo, a lungo si vede il cielo plumbeo, si avverte una sensazione di angoscia, claustrofobia e, naturalmente, paura. Solo un’immagine dei papaveri circa a metà film porta colore, ma presto una sequenza allucinata in bianco e nero con i suoni distorti riporta alla realtà del conflitto.
Ci sono le evacuazioni e i funerali, il Natale e i bagni al fiume e le licenze a casa, dopo le quali i soldati tornano sempre al loro compito, al fronte o nelle retrovie. “Militantropos” è un lavoro più teorico che cronachistico e si avvale di belle immagini, molto ricercate e curate sebbene girate sul campo, abbastanza inusuali per operazioni di questo genere. E rispetto ai tanti film in circolazione sul conflitto, ci sono meno retorica e pathos, ma non meno dolore e realtà.
Nella 64° Sémaine de la critique il Prix Canal+ du court métrage è andato al corto “Erogenesis” della romena Xandra Popescu. E doppio premio per il documentario franco-belga “Imago” del ceceno Déni Oumar Pitsaev, French Touch Prize of the Jury e Golden Eye – The Documentary Prize.
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