Un libro mi ha portata a Sarajevo

La lettura di “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini spinge una ragazza verso Sarajevo. "Mentre noi andavamo a scuola e poi al mare per le vacanze, in tre lunghissimi anni a Sarajevo è sparita una generazione, la nostra”. Foto e testi di Elena Pinna 

Oltre la frontiera con la Croazia km e km di distese verdi, piccole strade che si arrampicano con fatica sulle colline e poi sulle montagne… Qualche villaggio, qualche pastore che cammina con le sue pecore…

Poi piccole e grandi città, bambini che giocano a calcio, anziani che passeggiano, donne che fanno la spesa, e capisci che i Balcani non sono poi così lontani da noi…

Ed eccoti alle porte di Sarajevo, dopo un’attesa lunghissima, accompagnata da case rattoppate con il cemento e palazzi di vetro, l’Holiday Inn, Radon Plaza, Oslobođenje, il palazzo del Parlamento; il viale dei cecchini non c’è più, al suo posto una strada trafficata, dove le macchine corrono veloci a fianco di minareti che svettano altissimi nella loro eleganza, gente semplice che attraversa la strada, corre a casa, al lavoro, passeggia. Ti chiedi come hanno fatto a sopravvivere, come stanno, cosa ricordano, ma soprattutto ti chiedi perché… Perché una guerra tanto stupida, che nessuno è riuscito ad impedire… Io non ricordo nulla di quella guerra, è solo un nome lontano della mia memoria di bambina, ero troppo piccola forse, eppure è bastato un libro perché questa città mi entrasse nel cuore… Questa città…

“Sarajevo è la città dei cimiteri” avevo letto… E’ vero, li vedi dappertutto, sulle colline, a cielo aperto, musulmani, cattolici, ebrei, ortodossi, separati o uniti nella morte… Ci passi per caso, non per scelta, perché sono ovunque in ogni parte della città. ‘92 è l’anno più ricorrente, è l’anno della guerra. Una guerra durata più di 1.000 giorni, 11.541morti, 1.560 bambini, solo a Sarajevo.

Mentre noi andavamo a scuola e poi al mare per le vacanze, in 3 lunghissimi anni a Sarajevo è sparita una generazione, la nostra. E allora penso che niente può tornare come prima. Che gli uomini e le donne di questa città non hanno più lacrime. E che il loro dolore si è solo assopito. Poi ti ricordi quella parola, “speranza”, e allora forse si, si può ricominciare a vivere. Ma non ne sono più sicura. 

Sarajevo ricorda i suoi morti di sempre, il ponte Latino e l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, la Fiamma Eterna e i morti della Jugoslavia nella seconda guerra mondiale, e poi ovunque i morti del ‘92, ‘93, ‘94, ‘95, con le targhe nei muri, nei ponti, nei monumenti, nelle strade; Sarajevo piange i suoi bambini, con quei piccoli piedini impressi nel Monumento ai bambini uccisi, con quei sonagli che portano i loro nomi in cielo.

Sarajevo non dimentica, eppure vive. Vivono le persone, con i loro problemi e le loro difficoltà, le guardi cercando quasi di entrare nei loro pensieri ma sai che non puoi riuscirci. Sai però che ognuno di loro ha perso qualche familiare, padri, madri, fratelli, figli che non ci sono più… Guardi gli anziani che giocano a scacchi nella piazza e ti chiedi quanti morti hanno raccolto quelle mani, o se hanno ucciso… E ora si tengono strette le loro sigarette, immancabili Drina, come fossero un tesoro, una conquista. 

Gente normale che cammina di fretta, con gli occhi bassi, sembrano freddi come il ghiaccio ma se chiedi un’informazione sono disposti a prenderti a braccetto e ad accompagnarti. Alcuni telefonano, per avere la sicurezza di non dare informazioni sbagliate. Profondo rispetto, e silenzio. Chissà cosa pensano del nostro turismo post-guerra. “Sarajevo ok?” chiedono!! Sarajevo nel cuore…

Rinasce Sarajevo, sembra un cantiere a cielo aperto, sorgono palazzoni, eleganti ponti per il fiume Miljacka, i turisti passeggiano, tra un bosanka kafa e un ćevapi tutto scorre tranquillo mentre le campane della cattedrale suonano e il muezzin canta. Eppure la biblioteca nazionale è ancora lì, a ricordare un triste destino di fiamme e di bombe, una lunga ricostruzione che sembra non avere mai fine. E anche quando finirà, essa sarà comunque privata dei suoi immensi tesori… 2 milioni di libri, manoscritti antichissimi che nessuno rivedrà più. Pensi, e speri, che non sia una metafora…

Si riposa nel pomeriggio Sarajevo, all’ombra dei suoi mille bar, con la musica che gira in continuazione e che ti porta in luoghi e tempi lontani, accanto alle rose rosse che, ancora una volta, ricordano le persone uccise dai cecchini, quelle che non si sono arrese alla guerra, quelle che non si sono piegate; quelle rose che tu, oggi, non hai il coraggio di calpestare.

E poi canta il muezzin, perché è tempo di preghiera per i musulmani, mille voci che risuonano ovunque e che si alzano in cielo. Si, quelli che in Italia fanno così paura, quelli vittime di razzismo, quelli così diversi da te… Eppure cos’hanno di diverso? Una parola, ecco cosa ci differenzia…

Ritrovi la sera a Sarajevo, infuocata da un tramonto bellissimo, e quelle piccolissime luci che ogni notte si accendono sembrano voler mantenere viva la speranza, la speranza che ciò che è successo qui non succeda mai più, “in nessun tempo e in nessun luogo”, lo hai appena letto… La lasci con un sorriso Sarajevo, un sorriso malinconico che già trabocca di nostalgia, e con tanta gratitudine per ciò che ti ha insegnato, che ti ha trasmesso, sperando che il futuro porti a questi abitanti una meritata serenità.

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