Bosnia, una vittima racconta il suo calvario
Migliaia di giovani donne sono ancora tenute come schiave sessuali in tutto il Paese, nonostante gli sforzi delle autorità per debellare il traffico
Continuiamo il nostro dossier sul trafficking con la pubblicazione di questo reportage da Sarajevo dell’Institute for War and Peace Reporting (IWPR)
Di Nidzara Ahmetasevic, Sarajevo (18 marzo ’03)
Tradotto da: Carlo Dall’Asta
La donna Moldava ha solo vent’anni, ma sembra molto più vecchia. "Il mio boss ha pagato mille euro per me" – ha detto all’ Institute for War and Peace Reporting in un eccellente bosniaco. "È stato proprio come comprare una maglietta – la giri, la esamini, e se ti piace la compri. Così è stato con me."
Elena, non è il suo vero nome, non mostra emozione mentre parla – come se avesse già accettato la sua sorte.
Le ragazze venivano vendute per prezzi che andavano da circa 500 a 1.500 euro – un ammontare considerato dai loro nuovi sfruttatori come un debito che esse avrebbero dovuto ripagare attraverso la prostituzione, forzata o volontaria.
Le ore erano lunghe. "Dovevo lavorare ogni notte" – dice. "I clienti pagavano il mio capo 30 euro per un’ora con me, o 128 euro per una notte intera. Il venerdì e il sabato avevo almeno 15 clienti."
Elena è una delle migliaia di donne che hanno sperimentato un destino simile. Un po’ più di un anno fa, è venuta all’Ovest con la speranza di guadagnare soldi tramite la prostituzione, ma invece è stata "venduta" e poi contrabbandata in Bosnia-Erzegovina, dove è stata costretta a lavorare in uno dei numerosi night club del paese.
Fuggita, ha poi passato 20 giorni in prigione per possesso di documenti falsi. Al suo rilascio, è stata consegnata all’Organizzazione Internazionale per la Migrazione, OIM. In attesa di tornare a casa in Moldavia, Elena vive in uno dei sei rifugi dell’organizzazione sparsi per il Paese.
Secondo le regole dell’OIM, dice, lei non può rivelare il suo nome, o i nomi delle persone per cui ha lavorato. Né può lasciare il suo rifugio senza accompagnatore.
Secondo organizzazioni non governative ed esperti delle Nazioni Unite, il trafficking è apparso in Bosnia-Erzegovina nel 1995, alla fine della guerra. Donne e ragazze, per lo più dall’Europa dell’Est, ma anche dalla Bosnia, sono state rapite dalle loro case o adescate con la promessa di un lavoro ben pagato.
Ma poi sono state trattate come poco più che schiave sessuali finchè i loro presunti debiti non fossero stati ripagati. Quelle che disobbedivano ai proprietari dei bordelli venivano picchiate o anche torturate.
Con la sua frontiera permeabile e la pubblica amministrazione, polizia e magistratura scarsamente regolamentate, la Bosnia Erzegovina è diventata un porto sicuro per i trafficanti di esseri umani e i protettori. I clienti di questo mercato includono la polizia locale, le truppe straniere della missione di pace e membri di organizzazioni internazionali.
Una sorveglianza più stretta, incursioni sempre più frequenti in bar e night club, controlli di frontiera rafforzati, e una vigorosa campagna contro il trafficking hanno concorso a ridurre il numero dei bordelli negli ultimi sei mesi. Anche così tuttavia, pochi trafficanti sono stati imprigionati.
"La corruzione locale e la complicità di ufficiali internazionali in Bosnia hanno permesso all’ organizzazione del trafficking di fiorire" – ha denunciato l’organizzazione Human Rights Watch, HRW, in un recente rapporto sul problema.
La storia di Elena conferma le conclusioni del rapporto. Lei arrivò in Bosnia il 4 Aprile 2002, per sfuggire a una vita di povertà nel suo paese natale. "Un’amica era stata in Bosnia e quando tornò in Moldavia mi disse che aveva lavorato come cameriera e che laggiù si potevano guadagnare parecchi soldi" – ha detto all’IWPR.
Lei e le sue due sorelle più giovani avevano sofferto la miseria più nera nel loro Paese d’origine, dato che la madre era disoccupata e il padre alcolista.
Con il solo diploma delle scuole primarie, Elena aveva lottato per trovare un lavoro per mantenere almeno le sue sorelle. Alla fine, era stata presentata a delle persone che le avevano promesso di portarla in Bosnia.
Con falsi documenti rumeni, una carta d’identità e un passaporto, Elena andò dapprima in Romania, dove fu tenuta in una casa con altre tre ragazze. Pochi giorni dopo fu trasferita in nave a Belgrado, dove fu comprata da un criminale locale chiamato Dragan.
"Ero con parecchie altre ragazze in una casa a Belgrado. Varie persone vennero a esaminarci. Certi giorni, venivano anche sei o sette persone" – ricorda.
"Ci presentavamo davanti a loro con pochi vestiti indosso. Loro sedevano e cinque di noi gli stavano di fronte, in piedi. Quando andavi là, dovevi mostrargli com’erano il petto, la vita e i fianchi.
Dovevi convincerli che avresti attirato clienti per loro. Non ti prendevano se avevi i capelli corti. Stavano attenti a cicatrici, denti guasti o prove di polsi tagliati, perché alcune ragazze lo fanno. Il nuovo boss e il venditore poi si accordavano su un prezzo."
Elena dice che lei accettò fin dall’inizio il suo destino. "In tutto quel tempo pensavo che questo sarebbe dovuto accadere" – dice. "Avevo lasciato casa per la prima volta e avevo tentato di raggiungere un posto che non conoscevo. Avevo un estremo bisogno di denaro."
Elena fu poi spedita in Bosnia, contrabbandata attraverso il fiume con una nave. Il padrone del bordello che l’aveva comprata da Dragan prese i suoi documenti e le diede una carta d’identità bosniaca.
"Dividevo allora una casa con 15 ragazze di diversi Paesi, incluse Romania, Bulgaria e Moldavia. Una veniva dall’Ungheria" – dice. "Alcune erano più giovani e altre più vecchie di me, e alcune non avevano nessun documento. La casa aveva quattro stanze, e il bar dove lavoravamo era poco più lontano. Il boss ci teneva sempre gli occhi addosso".
Elena dice che ogni sorta di clienti frequentavano il suo bar, gente del posto, soldati della Forza di Stabilizzazione guidata dalla Nato, la SFOR, e anche poliziotti locali.
"La polizia veniva nel bar, pagava e ci portava in una stanza. Con gli stranieri, era lo stesso. Il nostro boss scopriva sempre se qualcuna delle ragazze aveva domandato loro qualcosa. Era un circolo vizioso, perchè come avrei potuto chiedere aiuto a delle persone che avevano pagato il mio boss per fare sesso con me?"
Dopo quasi un anno Elena fuggì, e fu portata alla fine a un rifugio dell’OIM. "Il bar dove lavoravamo fu chiuso" – dice. "Non so cos’è successo al capo e alle ragazze. Ora voglio andare a casa."
Ma andare a casa non sarà facile. Dopo aver sentito della sua sorte, la sua famiglia non la vuole riprendere. "Quando ho chiamato mia madre, non ho potuto mentire e ho ammesso di essere una prostituta. Lei mi ha detto che non avrei potuto tornare a casa." Quando parla di sua madre, la corazza di Elena comincia infine a incrinarsi.
Elena ora progetta di stare a casa di un amico quando ritornerà a casa, ma è ancora preoccupata per il futuro. "Ho paura di cosa mi accadrà quando ritorno" – dice.
"Prima di tutto devo ottenere documenti in regola in modo da non avere problemi con la polizia. Voglio un marito e dei figli. Ma non potrò mai dire ai miei bambini quello che mi è successo, perchè non voglio che sappiano com’era la loro madre."
Pensa di essere in parte responsabile per la sua esperienza. "Ho tentato di andarmene e di fare le cose diversamente ed è per questo che è successo tutto quanto" – dice. "La gente in Moldavia è molto povera, ed è difficile là trovare un lavoro e sbarcare il lunario.
Volevo raccontare questo all’IWPR perchè mi sento meglio se ne parlo. Alcune ragazze non ne discuterebbero mai, ma io penso che finisci solo col piangere di più se cerchi di chiudere il tutto in un cassetto e non parlarne con nessuno."
Nidzara Ahmetasevic è una giornalista bosniaca freelance
Vai al rapporto di Human Rights Watch sul trafficking in Bosnia Erzegovina