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L’industria del sesso in Kosovo
Non c’era quasi prostituzione in Kosovo prima della guerra – ora sta prosperando
Apriamo il dossier sul trafficking con questo reportage da Pristina dell’Institute for War and Peace Reporting (IWPR)
Di Jeta Xharra, Pristina
Tradotto da: Carlo Dall’Asta
Il neon rosso sul bar Nairobi e un arco di luce che scivola attraverso una fessura nella sua finestra dai pesanti tendaggi è tutto ciò che illumina l’entrata al club di striptease, dove Naim, un magro uomo albanese sui vent’anni, sta in piedi con l’aria annoiata. Quando mi vede scatta in azione, protendendo l’esile petto attraverso la porta: "Spiacenti, le donne non sono ammesse qui" – dice.
Il portinaio, Naim, viene presto raggiunto da un collega che dice di avere visitato simili night club in Svezia, e considera l’offerta di questi "divertimenti" una misura del recente progresso del Kosovo. "La vera eccitazione qui è che ragazzi il cui primo viaggio al di fuori del villaggio era a Stancovac (un campo di rifugiati in Macedonia) ora possono vedere delle donne che fanno lo spogliarello, qui" – dice.
Chiedo di essere lasciata entrare, dicendo che voglio solo ordinare un drink al bar. Quando questo non riesce, minaccio di denunciare alla polizia delle NU la politica discriminatoria di ammissione al club. Naim non si sposta: "Tutte le ragazze dentro il club sono sotto contratto, se la polizia fa un’irruzione e trova ragazze locali senza contratto andremmo nei guai" ci dice.
"Comunque qui non è posto per te, ‘sorella’, hai idea del perché la gente viene qui?" Probabilmente non si aspettava una risposta, ma io risposi a voce bassa: "Per kurv’ni?" – che si può tradurre dallo slang locale come "per andare a puttane". Naim non risponde, ma arrossisce. Un simile imbarazzo potrebbe sembrare assurdo venendo da un uomo che lavora in un club dove gli spettatori possono comprare sesso con le danzatrici. Ma questa è una società tradizionale strettamente intrecciata. Parlare del suo lavoro con una donna albanese era per lui probabilmente imbarazzante come parlarne con sua madre, o con sua sorella. Naim probabilmente giustificava il suo lavoro sulla base del fatto che il club – che in seguito è stato chiuso – aveva il personale interamente composto da donne straniere. "Importando" donne rumene, moldave o ucraine, i proprietari dei club e i loro staff possono sostenere di proteggere le "nostre donne" dallo spiacevole ma lucroso business.
Sconosciuta tre anni fa, l’industria del sesso è ora il business che cresce più rapidamente nel Kosovo del dopoguerra, che ha subito un mutamento sociale e politico senza precedenti a partire dal conflitto del 1999. Mobilitata per più di un decennio contro il regime di Milosevic, la popolazione ora ospita la forza di pace della KFOR, che fornisce un forte afflusso di clienti per i 120 o giù di lì strip-clubs del protettorato.
Circa il 60 per cento delle donne che lavorano nel commercio del sesso vengono dalla Moldavia, le altre dalla Romania e dall’Ucraina. Stime dell’unità contro il trafficking dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, OIM, suggeriscono che il 70 per cento delle donne straniere sono state convinte a lasciare i loro paesi d’origine con promesse di lavori come donne di pulizia, cameriere, baby-sitter o badanti.
Anche se l’arrivo di 45 mila soldati internazionali in missione di pace è stato sicuramente un fattore chiave nell’improvvisa crescita dell’industria del sesso, in ricerche condotte dal team dell’OIM Kosovo l’anno scorso, le vittime del trafficking hanno riferito che il grosso della clientela sono gli abitanti della zona.
Sevdije Ahmeti, una attivista per i diritti umani e direttore del Centro per la Protezione delle Donne e dei Bambini, CPWC, contesta l’immagine del Kosovo come immacolata società tradizionale dove un commercio del sesso importato serve i bisogni di stranieri promiscui. La struttura della famiglia Albanese tradizionale, in cui l’uomo portava a casa lo stipendio e manteneva donne e bambini, ha iniziato a erodersi ancora prima della guerra, dice:
"Molti uomini kosovari emigrarono in Europa occidentale durante gli anni ’90, sia per sfuggire al reclutamento militare che per guadagnare la valuta forte che fondava l’"economia parallela" del Kosovo in un periodo in cui gli Albanesi boicottavano i posti di lavoro statali o ne venivano licenziati. La loro assenza alterò la tradizionale divisione dei ruoli tra i sessi.
La società kosovara fu poi traumatizzata dai fatti della primavera 1999, quando la maggior parte degli uomini fu impotente nel difendere le proprie famiglie di fronte alle tattiche dell’esercito Serbo, che includevano lo stupro e lo stupro di massa. Quest’"arma" non era usata solo contro le donne, ma anche per umiliare e sminuire la virilità degli uomini che si supponeva fossero i loro protettori."
Le asserzioni degli uomini locali, sul fatto che nessuna donna kosovara lavora nell’industria del sesso, sono discutibili. Un rifugio fondato dal CPWC nel 1996, per offrire rifugio alle donne bosniache che erano state stuprate durante la guerra del 1991-95, ha aiutato centinaia di donne provenienti da tutta l’ex Yugoslavia, incluso un numero significativo dal Kosovo.
Tina, una ragazza kosovara che ha cercato asilo nel rifugio, è stata tenuta virtualmente schiava in un night club di Mitrovica per due anni. La sua clientela era divisa tra locali che visitavano il club e il personale militare a cui lei era "consegnata" ai checkpoint e nelle caserme sparse per il nord del Kossovo.
Gli atteggiamenti tradizionali che si ritiene "proteggano" le donne kosovare dal commercio sessuale lasciano in realtà le vittime del trafficking e di crimini sessuali largamente non protette dalla legge.
Una adolescente, vittima di un rapimento e stupro di gruppo, ha ricevuto scarso sostegno da parte del sistema giudiziario.
Violeta, 16 anni, fu rapita da due giovani uomini albanesi mentre tornava a casa da scuola tre anni fa. Fu portata in un bar, che prontamente chiuse per la giornata. Dopo aver serrato le tende, gli uomini e i loro amici la violentarono ripetutamente. Le fu permesso di tornare a casa la sera, ma i rapitori la minacciarono di rovinarle la reputazione se avesse detto una parola a qualcuno. T[]izzata, Violeta non osò dire ai suoi genitori cosa era successo e il tormento fu ripetuto diverse volte. Restò incinta ed ebbe un aborto dopo che i suoi rapitori furono finalmente catturati. Testimoniò contro di loro, ma questi furono rilasciati per "mancanza di prove".
Tre anni dopo, la sua vita è ancora gravemente limitata: "I miei rapitori possono andare dove vogliono, io mi azzardo a uscire solo in compagnia di mia madre o di mio padre" – ci ha detto. "Ho dovuto lasciare la scuola, perché loro mi seguivano e chiedevano ai miei insegnanti dov’ero".
Il primo giudice che Violeta incontrò le disse di essere meno emotiva e di smettere di piangere per quello che le era successo che, affermò, era chiaramente colpa sua. Con il sostegno dei genitori e del CPWC, lei ora sta premendo per una nuova udienza del suo caso alla Corte Distrettuale di Pristina, ma la sua esperienza mostra l’atteggiamento prevalente tra gli uomini locali, e perfino tra i giudici, che ritengono che le donne si dedichino volontariamente ad attività sessuali nei vari locali e bar di striptease. È una visione che convenientemente sorvola sul fatto che le ragazze potrebbero essere state fatte oggetto di trafficking o rapite.
Urosevac (Ferizaj in albanese) è una tetra cittadina con una popolazione di 130 mila abitanti nel sud-est del Kosovo, al confine con la Macedonia. Ancora prima della guerra la città aveva una cattiva reputazione, con un livello di spaccio di droga e un’attività sotterranea che le hanno fatto meritare il titolo di capitale dei gangster del Kosovo. I night club di qui sono più rilassati che a Pristina.
Chiunque – inclusa una donna – può entrare nei club e i proprietari non sembrano avere preoccupazioni di regole o polizia. La loro fiducia è ben riposta: "Non puoi prendere e fare irruzione nei club off-limits a Ferizaj" – ha esclamato Jamie Higgins, capo dell’Unità contro il Trafficking e la Prostituzione, TPIU, dell’UNMIK, quando gli ho chiesto se potevo seguire un’operazione di polizia in città. Essendo un centro della criminalità organizzata, un giro di vite sulla città richiederebbe una pianificazione dettagliata e un grande numero di agenti in campo, più di quanti il TPIU abbia a sua disposizione – mi ha detto."
Alla periferia di Ferizaj c’è il night club Madonna, una casa familiare trasformata in locale di striptease. Nell’angolo, le ragazze indossano i bikini, pronte ad andare in scena. Seguendo un segnale di un protettore albanese, una ragazza bionda che danza sul podio lascia il posto a una ragazza bruna, che incomincia un’elaborata rotazione sulla ballata di Michael Jackson "Liberian Girl". Una clientela di uomini albanesi, vecchi e giovani, si rilassa, circondata da gruppi di donne straniere.
Questo è dove Gezim, abitante del posto e mia conoscenza della scuola superiore, mi ha portato quando gli ho chiesto di mostrarmi il posto dove aveva tentato di "ordinare" una ragazza per un amico che lui pensava avere un "problema" in quel campo:
"Restammo quasi tutta la notte fuori dal club dopo che le danze erano finite, ma non riuscimmo ad ottenere nulla" – mi ha detto. "Altra gente faceva offerte e alla fine non erano rimaste più donne. La domanda era alta, così non penso che comunque avremmo potuto permettercelo."
Visitammo anche l’Apachi Club, così chiamato dai famosi elicotteri statunitensi Apache, uno dei primi club ad aprire dopo l’azione della NATO. Armato con missili Hellfire perfora-corazze, il velivolo era molto vantato durante la guerra come l’unico mezzo militare capace di fermare i tank Yugoslavi e le truppe che facevano pulizia etnica nella provincia. La riluttanza degli Americani ad impiegare gli elicotteri, e le loro frequenti cadute durante i voli di addestramento nel nord dell’Albania, non hanno scoraggiato i proprietari del club. Speravano probabilmente di attirare clientela dalla base militare statunitense Camp Bondsteel, a 14 km.
Sembra aver funzionato: "Porto sia civili che uomini in uniforme a questi club" – dice un tassista che aspetta fuori dall’Apachi Club, talvolta noto anche – con una certa confusione – come Arizona Club. "Qualcuno si è anche cambiato in abiti civili nel mio taxi. Certo, i locali pensano che questo sia un male per l’area. È un cattivo esempio per i giovani vedere queste cose, ma i soldati sono soldati e non restano alla base se c’è un night club appena fuori."
Fuori dall’Apache, un festone di luci rosse di Natale pende accuratamente intorno all’entrata. Dentro, il corridoio che porta alla stanza dello striptease è decorato con foto di elicotteri.
Verso le 2 di notte, le danze finiscono. Ragazze seminude, truccate pesantemente, accompagnano gli uomini ai diversi tavoli, per negoziare "affari" per la notte. Con la pesante protezione locale e la scarsa voglia internazionale di intraprendere azioni punitive, scene come questa sembrano destinate a continuare in Kossovo ancora per molte notti.
Jeta Xharra è una ricercatrice e giornalista freelance