Economia e microfinanza
Quale spazio per la microfinanza nei Balcani di oggi? Affronta l’argomento Aldo Moauro di Microfinanza srl.
di Aldo Moauro, Microfinanza srl
La situazione attuale
Effettuando una generale panoramica sulla attuale situazione economica dei paesi dell’ex Jugoslavia, a sei anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina e a due da quella in Kosovo, gli aspetti più evidenti sono senza dubbio le condizioni di stallo della produzione locale, con conseguenti elevati livelli di disoccupazione, e la massiccia presenza della comunità internazionale in ambito politico ed economico.
La drastica riduzione dei livelli di produzione locale è strettamente legata ai danni causati dalla guerra sui fattori produttivi e all’impossibilità del loro recupero dovuta alla mancanza di pezzi di ricambio e di capitale di investimento, alla riduzione della domanda, al disinvestimento delle compagnie pubbliche ed alla loro scelta, nel nuovo contesto post-bellico, di limitare la capacità produttiva (20-25% del potenziale) per "riguadagnare" un livello accettabile di redditività.
L’eredità del sistema socialista
Ma le ragioni sono da ricercare più in profondità, nell’evoluzione storica, politica ed economica dell’area di riferimento, ed in particolare nella pesante eredità del sistema economico socialista, basato sul controllo centrale e pubblico dell’economia e sulla "divisione del lavoro" tra gli stati della federazione jugoslava, che ha nettamente scoraggiato l’iniziativa privata e condotto ad una concentrazione produttiva in pochi settori. L’economia pre-bellica nei paesi dell’ex Repubblica Federale Socialista di Yugoslavia si basava quasi esclusivamente sull’industria. Lo stato comunista aveva costruito ampi conglomerati industriali, secondo lo slogan "una industria per ogni città". Si trattava di attività non orientate al mercato e perlopiù inefficienti. Molte di esse erano anche dannose per l’ambiente. D’altra parte esse rappresentavano fonte stabile di occupazione e reddito.
Il lascito della guerra
La maggior parte dei conglomerati industriali sono stati distrutti durante la guerra e la disoccupazione ha toccato, negli anni seguenti, livelli spaventosi nei paesi più colpiti (ad esempio nella Bosnia Erzegovina, con l’85% della popolazione attiva).
Le inefficienti e comunque fatiscenti industrie statali danneggiate durante la guerra hanno una probabilità minima di essere riavviate. Il processo di privatizzazione dell’economia è appena partito (fine del 1999) ed è molto lento, sicché i conglomerati industriali rimarranno operativamente fermi o ai minimi regimi per i prossimi anni, il che significa che permarranno livelli di disoccupazione critici.
L’assenza di infrastrutture sociali e la scarsità di capitali rappresentano un ostacolo alla crescita economica nei Balcani e, pertanto, causa di disoccupazione. Gli investimenti stranieri potrebbero rappresentare un importante elemento per la ricostruzione dell’economia; tuttavia esistono spesso notevoli ostacoli per i potenziali investitori stranieri, che variano dai vuoti legislativi in materia o dalla poca chiarezza delle leggi in vigore, alla forte pressione fiscale ed alla pesantezza burocratica legata al sistema centralizzato delle transazioni monetarie, il tutto nell’ambito di una generale instabilità politica. Riguardo agli investimenti privati locali, occorre ricordare che le persone che hanno beneficiato economicamente dalla guerra sono spesso riconducibili ad elite mafiose non interessate ad investimenti di lungo termine e legate ad alti dirigenti politici corrotti; la maggior parte della popolazione ha perduto i risparmi accumulati ed ogni proprietà.
Ciò spiega la cronica dipendenza di ciascun paese balcanico dalle importazioni e la strutturale necessità di integrare beni fondamentali prodotti non localmente. Tali vincoli, molto evidenti già nel periodo post-titoista con il recupero dei principi comunisti di stampo sovietico, si sono manifestati, nella loro più dannosa espressione, con gli effetti della guerra.
Il caso della Bosnia Erzegovina
La Bosnia Erzegovina oggi presenta un enorme ritardo nel processo di transizione verso una moderna economia di mercato, dovuto, oltre che alle tensioni e divisioni sociali ancora forti, principalmente alla mancanza di un tessuto produttivo locale di base, alla debolezza dell’iniziativa privata e del processo di privatizzazione delle attività pubbliche. La conseguenza, dopo sei anni dalla fine del conflitto, è una totale dipendenza dalla presenza della comunità internazionale in termini di disponibilità di beni di consumo importati, supporto di una minima domanda di servizi locali e creazione di reddito e posti di lavoro, e l’estrema difficoltà nell’avviare concretamente una politica economica di import-substitution. Il "ricco" piano di ricostruzione attivato dal 1995 da World Bank e Unione Europea (del valore di oltre 5 miliardi di dollari per il periodo 1996-2000) ha permesso, insieme alla ricostruzione di case e infrastrutture e all’aiuto umanitario, il raggiungimento di condizioni macro-economiche favorevoli come l’introduzione della valuta unica agganciata al marco tedesco e bassi livelli di inflazione, le quali non sono evidentemente sufficienti ad innescare la miccia del processo di liberalizzazione e privatizzazione economica, processo che in primo luogo non parte con convinzione e decisione a livello istituzionale e di dirigenza politica, dove esiste ancora una forte tendenza a mantenere centralmente controllata l’economia.
Secondo le statistiche del 1999 fornite dal governo della Bosnia Erzegovina, il tasso di disoccupazione ufficiale nel paese si attesta attorno al 33%. Con la continuazione del processo di rientro dei profughi (e quindi di continua smobilitazione) e con la privatizzazione, che auspicabilmente prenderà piede, la disoccupazione aumenterà in maniera rilevante.Vi sono minime opportunità di impiego diverse dalla piccola impresa privata; infatti, con meno di 1,5 aziende registrate per ogni 100 abitanti (comparati alle 5-6 delle economie di mercato sviluppate), è ragionevole aspettarsi una forte tendenza allo start-up d’impresa.
Il futuro nelle microimprese?
Con un processo di privatizzazione lento, se non addirittura bloccato, l’unica alternativa, per la comunità internazionale e per i governi locali, per favorire un’economia di mercato è lo sviluppo e il consolidamento di piccole e medie imprese private esistenti e l’avvio di nuove micro-imprese, investendo su servizi di assistenza tecnica e finanziaria ad esse dedicati.
La nascita e la crescita dell’imprenditorialità privata è oggi impedita principalmente dall’indisponibilità di capitali d’investimento e dall’inadeguatezza e inaffidabilità del sistema bancario locale. Quest’ultimo, inefficiente e politicizzato già in passato, durante la guerra ha definitivamente collassato e con esso i risparmi depositati dalla gente. Le banche locali "aperte" sono di derivazione statale (si pensi alla ex Yugo Bank, oggi Cristal Bank in Bosnia Erzegovina) o municipale e presentano un portafoglio crediti incagliato, data la situazione di stallo in cui versano le imprese finanziate. La maggior parte della popolazione non ha dunque né capitale proprio né accesso al credito bancario.
Le proprietà immobiliari sono state, poi, fisicamente distrutte ed è molto difficile per la gente comune ottenere un credito perfino dagli organismi internazionali, come la Banca Mondiale e le agenzie di cooperazione allo sviluppo americana e tedesca (USAID e KfW.In tali condizioni, l’unica possibile alternativa è l’auto-impiego in attività micro-imprenditoriali private, anche perché, in generale, il livello medio delle capacità imprenditoriali non è basso, data l’esperienza da molti maturata sia nel settore pubblico che in quello privato. E’ chiara, a questo punto, l’importanza assunta ed il successo ottenuto, sin dall’immediato dopo-guerra, dai servizi di microcredito, unica fonte finanziaria disponibile per l’avviamento ed il consolidamento di un tessuto imprenditoriale di base, fatto di micro-attività private produttive, agricole, commerciali o di servizio. La dimensione di partenza di tali attività è quella di bottega familiare, per evolvere gradualmente fino a piccole imprese (10-15 impiegati), con un importante impatto sull’occupazione. In sostanza, il futuro dell’economia di buona parte dei paesi balcanici dipende strettamente dallo sviluppo del settore privato, fatto di una miriade di società molto piccole in cui la maggior parte della popolazione sia impiegata e dove i micro-imprenditori in fase di avviamento abbiano la possibilità di accedere a servizi adeguati tanto quanto le aziende più grosse.
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