In Albania tante TV ma pochi contenuti: un’intervista

Un’intervista a Tomas Miglierina, inviato in passato della TV Svizzera nei Balcani e collaboratore dell’Albanian Media Institute.

29/07/2002, Redazione -

Tomas Miglierina, già inviato della TV svizzera nei Balcani, guida la redazione magazine e inchieste alla radio svizzera (RSI) di Lugano. Dal 1999 è docente e consulente in alcuni programmi di formazione per giornalisti radiofonici e per addetti stampa albanesi, realizzati dall’ Albanian Media Institute, dal Corso di Giornalismo della Svizzera Italiana e dalla Cooperazione svizzera. Lo ha intervistato per l’Osservatorio Luisa Chiodi.

Data la sua approfondita conoscenza dei mass media in Albania cosa ne pensa delle conclusioni del rapporto Human Rights Watch sulla violenza e le intimidazioni ai danni dei giornalisti?

E’ inquietante vedere come sia diffusa la prassi di intimidire e punire, anche fisicamente, i giornalisti che fanno il loro mestiere. Balza all’occhio come a farne le spese siano soprattutto i giornalisti che lavorano per radio e TV dell’ opposizione. Non voglio assolvere automaticamente le vittime di questi attacchi, perché ho constatato sulla stampa vicina al PD ed a Sali Berisha delle violazioni palesi di ogni norma di correttezza. Però le stesse cose le ho viste anche sugli organi di stampa vicini al governo, e in ogni caso la risposta ad una scorrettezza giornalistica non può mai essere la violenza o l’intimidazione. Infine, è incoraggiante vedere che queste violenze non fanno parte di una campagna sistematica di intimidazione da parte di chi detiene il potere, come è accaduto ed accade altrove. Non di meno è chiaro che i perpetratori di questi abusi, quando sono al servizio o vicini a chi governa, confidano in una sostanziale impunità per i loro abusi. Il governo albanese ha la responsabilità di far attuare i diritti sanciti dalla Costituzione, tra cui la libertà di stampa; la comunità internazionale farebbe bene a ricordarglielo.
Quali sono, secondo lei, le ‘anomalie’ dei mass media albanesi?
Basta guardare le cifre che avete pubblicato. In Albania il numero delle televisioni è enorme e supera di gran lunga quello delle radio. Di solito è il contrario, perché creare e gestire una TV è molto più costoso ed impegnativo. Un programma televisivo può arrivare a costare migliaia di euro al minuto, un programma radiofonico di ottima qualità in media costa poche decine.
Nella carta stampata, il numero di quotidiani è altrettanto sproporzionato. In Slovenia, dove il salario medio è quasi cinque volte quello albanese e dove la propensione alla lettura dei giornali è tra le più alte d’Europa, non arrivano alla metà. Si tenga poi conto del fatto che i quotidiani dell’Albania non arrivano regolarmente nemmeno in Kossovo, in Macedonia o in Montenegro. La maggior parte, anzi, ha grossi problemi ad uscire da Tirana.

A cosa si deve questo pullulare di emittenti televisive?
Significa che le televisioni non badano ai contenuti, ai programmi. Significa che i programmi vengono rubati dal satellite, oppure confezionati alla buona, da tre pseudo-giornalisti sottopagati che trascrivono le notizie dai giornali. Significa che i giornali non si basano sulle vendite, sugli abbonamenti e sulla pubblicità, ma che qualcuno ci mette i soldi per ripianare le perdite. E se è disposto a farlo vuol dire che ha un tornaconto altrove: magari nell’avere a disposizione uno strumento con cui denigrare gli avversari, se si tratta di un politico. Oppure – se è un ‘editore puro’ – nel mettere a disposizione il proprio organo di stampa al miglior offerente. Quando un giornale in perdita non chiude, vuol sempre dire che è il megafono di qualcuno che paga perché gli conviene. Vale anche per noi.

Quali sono i principali problemi che affrontano i mass media in Albania, secondo lei?
I problemi dei media albanesi non sono diversi da quelli di altri settori della società albanese. Segnalerei come prioritario la difficoltà, l’incapacità di organizzarsi e ‘mettersi in rete’. Gli editori non riescono a creare una loro federazione che faccia pressione sulle autorità, una rete di distribuzione efficiente (e per esserlo non può che essere comune), centri stampa moderni e di qualità, non solo a Tirana. I giornalisti non hanno un sindacato degno di questo nome. Non vi è controllo sull’accesso alla professione, e questo rovina sia i salari sia la deontologia: ci sarà sempre qualcuno disposto a scrivere per meno soldi o per meno etica. C’è un codice di condotta ma nessuno ne sorveglia l’applicazione ed ha il potere di intervenire a sanzionare le violazioni.

Cosa possiamo dire sui contenuti?
In Albania sono in pochi a preoccuparsi dei contenuti. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, e mi sembra che siano state coronate dal successo. Purtroppo, però, per la maggior parte degli editori la preoccupazione principale è comprare la rotativa o il trasmettitore. Quasi tutte le televisioni albanesi rubano film, telefilm e programmi sportivi dal satellite, spesso senza nemmeno sottotitolarli. Durante gli europei di calcio, a Tirana ho visto la stessa partita trasmessa da sette televisioni diverse, che rubavano lo stesso segnale della TV tedesca. Assurdo. Non si arriva nemmeno a pensare: "se i miei concorrenti trasmettono la partita, io ruberò qualcosa d’altro, per la gioia di quelli che non seguono il calcio". Prima o poi le grandi case che vendono i diritti degli eventi TV metteranno la parola fine a questa pacchia. Quel giorno i tre quarti delle TV albanesi sarà costretto a chiudere i battenti. E finalmente in Albania potranno nascere i cinematografi, che oggi hanno l’erba tagliata sotto i piedi da chi trasmette in TV film di prima visione.

Che cosa si dovrebbe fare secondo lei?
Bisogna favorire l’associazionismo tra le varie categorie interessate: giornalisti, tecnici, cameraman, imprenditori, etc. Bisogna aprire le frontiere per favorire la circolazione di mass-media (ovvero, in ultima analisi, di idee) in uno spazio geografico più vasto possibile.

Bisogna ridurre il numero di quotidiani e di stazioni TV per dare alle (poche) che rimarranno un mercato dal quale attingere risorse sufficienti a produrre programmi di qualità, senza rubare e senza barare. A questo scopo bisogna dissuadere chi vuole creare nuove TV o nuove radio e piuttosto convincerlo ad agire sull’indotto: compagnie di produzione, studi di montaggio, agenzie giornalistiche, concessionarie di pubblicità.
Infine bisogna creare un servizio pubblico degno di questo nome: autonomo dal potere e non marginale sul mercato. La radiotelevisione è un servizio troppo importante per lasciarlo nelle sole mani dei privati.

Certo il suo approccio esigente mi fa pensare che lei si confronti anche con il caso svizzero piuttosto che con quello italiano…. Mille grazie.
a cura di Luisa Chiodi

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