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Balcani e interventi umanitari: l’utile contraddizione
Su Altreconomia del mese di marzo si riflette di cooperazione allo sviluppo nei Balcani. Un articolo di Davide Sighele.
Lidja è professoressa in un liceo, insegna scienze naturali. Vive a Berane, città nel nord del Montenegro e sta cercando casa. "No, non possiamo affittarti l’appartamento. No nessun altro vuole viverci ma preferiamo aspettare". Ma chi? L’operatore umanitario, lo straniero. Con gli affitti che sono disposti a pagare loro si guadagna il triplo rispetto ai prezzi locali e quindi vale la pena rischiare lasciando la casa sfitta. Intanto Lidja continua a cercare.
Berane è una realtà marginale per quanto riguarda l’impatto della presenza internazionale sulle economie dei territori nei quali si interviene per "portare aiuto". Le ONG che vi operano, e che progressivamente se ne stanno andando, sono state sempre poche. Nonostante questo la loro presenza influenza notevolmente le dinamiche locali.
Che ruolo hanno avuto in altre realtà dei Balcani, quali i risultati raggiunti, quale l’impatto degli aiuti? E’ trascorso oramai un decennio dall’inizio dell’implosione dell’ex-Jugoslavia ed ONG, associazioni, enti locali, in particolare italiani, hanno profuso notevoli ed ingenti sforzi al di là dell’Adriatico. Non si è però ancora avviata, o solo in minima parte, una necessaria rielaborazione di ciò che questi dieci anni abbiano significato.
Per trovare alcuni spunti di riflessione basta, rispetto a Berane, proseguire il nostro viaggio di meno di 70 chilometri. Passate le divise blu della polizia montenegrina ed attesa qualche decina di minuti per il più informale controllo dei militari italiani della KFOR, si raggiunge Pec/Peja. Quando si entra in città si è già ai limiti di quell’ampia spianata che è il Kossovo. Corrugata solo da qualche collina.All’indomani della fine dei bombardamenti della NATO e del caotico e rapido ritorno dei profughi albanesi nelle loro case nell’area di Pec/Peja, dove risiedono circa 150.000 persone, operavano più di 60 ONG. Vi erano poi le agenzie internazionali, l’amministrazione UNMIK alla quale l’ONU ha affidato il governo della regione e naturalmente il contingente militare internazionale della KFOR.
Una ricerca condotta da Silvia Pandini, del Consorzio AASTER di Milano, per conto dell’Università di Trento e l’Osservatorio sui Balcani, ha cercato di "misurare" questa presenza. Senza entrare nel merito delle caratteristiche e dei risultati raggiunti dei singoli progetti implementati, si sono raccolti alcuni dati, tramite questionari e colloqui diretti con i responsabili internazionali sul campo, che potessero aiutare a capire che impatto sul territorio avesse l’intervento internazionale.
Una delle prime considerazioni alle quali la lettura dei dati raccolti ci porta è quella della "volatilità" della presenza delle ONG. Sempre più esse si occupano di intervento umanitario e di emergenza, sempre meno di sviluppo. Delle 24 organizzazioni che hanno risposto in merito a questa questione (ci riferiamo all’inverno scorso) 5 avrebbero concluso l’attività nella primavera 2001 e le altre, ad esclusione di un solo caso, non erano in grado di dare indicazioni su quanto sarebbero rimaste ad operare in Kossovo. La loro presenza dipendeva infatti dalla "ghigliottina" dell’approvazione o meno di nuovi progetti da parte dei donatori. Un legame tra progettualità di breve e di lungo periodo quindi tutto da costruire.
Altri dati emblematici quelli riguardanti l’assunzione di personale locale. Tra il 1999 ed i primi mesi del 2001 circa 3.400 persone, nella sola Pec/Peja, hanno lavorato con la Comunità Internazionale. Una cifra rilevante se si considerano anche le distorsioni legate ad una politica salariale indiscriminata. Un medico locale assunto all’ospedale di Pec/Peja raggiunge i 300 – 350 marchi mensili, mentre un locale assunto da una ONG come autista, e quindi con qualifiche professionali nettamente più scarse, percepisce un salario che si attesta tra i 400 e gli 800 DM, a seconda dell’organizzazione per cui lavora. Altri risultati interessanti sono emersi dalla mappatura delle spese relative agli uffici ed alle case di residenza degli internazionali. Il 48% delle organizzazioni che hanno fornito una risposta paga un affitto compreso tra i 300 e i 2.000 DM mensili, il 29% sborsa tra i 2.000 e i 2.500 DM, il 14% paga tra i 3.000 e i 4.000 DM mentre il 9% va dai 4.500 ai 6.000 DM. Cifre esorbitanti rispetto all’andamento del mercato immobiliare locale. Tutti questi dati riguardano solo la "struttura" e non si è ancora entrati nella quantificazione delle risorse impiegate nei progetti. "Raccogliere informazioni su quest’ultimo aspetto è stata la cosa più difficile ed ho incontrato molta reticenza" ha affermato Silvia Pandini "strano anche perché molte ONG operano grazie a fondi stanziati da enti pubblici e pochi di loro si basano su di una raccolta fondi tra privati". Le 13 organizzazioni non governative che hanno permesso il trattamento dei propri dati hanno investito, nel periodo compreso tra l’estate-autunno 1999 e dicembre 2000, circa 33 miliardi di lire. Interessante sarebbe capire, grazie ad un’eventuale ulteriore ricerca, come questi fondi siano stati spesi.
Emergono quindi chiaramente alcune problematiche. Tra le più rilevanti, una presenza internazionale che rischia di falsare i punti di riferimento dell’economia locale con le risorse locali investite ad esempio per aprire ristoranti per "internazionali", che se possono garantire, nel breve periodo, una certa redditività certo non creano le basi per uno sviluppo sostenibile. Inoltre a volte si assiste al paradosso di dinamiche di competizione tra gli stessi operatori internazionali. I partecipanti ai corsi di formazione vengono addirittura pagati per farlo. "Altrimenti andrebbero da qualche altra parte, dove per la loro partecipazione ricevono in cambio qualcosa" ha dichiarato un operatore italiano durante un’intervista. Un altro problema rilevante è quello della continuità data ai progetti. Una presenza "schiava" e poco indipendente dai grandi enti donatori certo non favorisce la presenza di progetti che si sviluppino su più anni. Dopo il Kossovo l’Afghanistan e dopo l’Afghanistan ci sarà sempre una nuova emergenza.
Questo non significa che il lavoro svolto è stato inutile. E’ vero ad esempio che a Pec/Peja quasi tutti gli albanesi che hanno fatto rientro dopo il tragico esodo hanno passato il primo inverno nelle proprie case, grazie ad un’enorme sforzo di ricostruzione da parte della Comunità Internazionale. Pochi hanno dovuto cercar riparo in campi collettivi, di cui purtroppo la ex-Jugoslavia è ancora disseminata.
E in questi anni, non solo in Kossovo, sono stati decine di migliaia i volontari che hanno approcciato i conflitti balcanici direttamente dal campo, percorrendo le molte vie dell’aiuto e della solidarietà materiali. Ugualmente a centinaia si devono contare le iniziative, i gemellaggi, i progetti avviati da comitati, associazioni, ONG, sindacati, parrocchie e istituzioni diverse con il sud est Europa. I flussi in denaro di questo ampio insieme di interventi possono essere stimati sull’ordine delle centinaia di miliardi di lire, ma se si valorizzassero tutte le prestazioni volontarie raggiungerebbero probabilmente anche le migliaia.
Questo però non deve far chiudere gli occhi sulle molte contraddizioni dell’intervento umanitario. Contraddizioni emerse palesemente forse più in Kossovo che in altre regioni dell’area balcanica, dove però troppo spesso l’intervento umanitario è sembrato un vero e proprio "circo umanitario", con una grande forza mediatica piuttosto che una effettiva capacità di influenzare la realtà in modo positivo.
La ricerca sulla città di Pec/Peja, come alcune altre ad esempio sulla presenza italiana in Macedonia o su Mostar dove, nonostante la ricostruzione del famoso ponte sul fiume Neretva che collega la parte croata e la parte musulmana della città, la convivenza rimane un miraggio, rappresentano un primo tentativo dell’Osservatorio sui Balcani di stimolare un dibattito sui risultati raggiunti in questi dieci anni di cooperazione con l’area del sud-est Europa.
Spinti dall’agire è infatti difficile fermarsi a riflettere, guardare indietro. Non avviene spesso nella nostra vita personale, non è avvenuto nemmeno in questi dieci anni di presenza nel sud-est Europa. Italia e Balcani, un legame stretto, a volte rimosso ma viscerale, emerso palesemente quando la guerra ha iniziato a dilaniare e disgregare i territori al di là dell’Adriatico.
E’ necessario che chi è stato intensamente impegnato ad organizzare camion di aiuti umanitari, a creare legami tra enti locali italiani ed enti locali in Bosnia, Serbia, Albania, a promuovere ed implementare progetti, a gestire campi d’accoglienza, a sviluppare azioni di diplomazia popolare, a sostenere profughi e rifugiati, si prenda il tempo per affrontare con sguardo critico questi dieci anni di presenza nei Balcani per poi proseguire con più forza, con un agire più consapevole.
Davide Sighele
Osservatorio sui Balcani