Forum cooperazione: la retorica dei diritti umani

Continua la riflessione sull’essere e fare cooperazione. Uno scritto profondo e provocante di Claudio Bazzocchi su come la retorica dei diritti ha oscurato – anche nella solidarietà – l’analisi sociale ed economica dei conflitti.

20/12/2001, Redazione -

Presentiamo la sintesi di un articolo di Claudio Bazzocchi, nel quale si riflette sulla retorica dei diritti umani e sull’influenza che essa ha avuto negli interventi di cooperazione nei Balcani. Questo intervento, piuttosto denso e strutturato, prosegue il dibattito che abbiamo voluto avviare dopo il Convegno sui Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa.
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Per Bazzocchi* negli ultimi dieci anni, a partire dalla guerra del Golfo, la cultura dei diritti umani, totalmente slegata da qualsiasi problematica di carattere economico e sociale, ha preso il sopravvento nelle questioni di solidarietà e cooperazione, oltre che nelle relazioni tra stati. A partire dall’intervento nella guerra del Golfo gli interventi bellici sostenuti dalle potenze occidentali sono stati giustificati come guerre umanitarie, cioè per la difesa dei diritti umani, in Somalia, come in Bosnia, in Kosovo come in Afghanistan. A livello filosofico si è andato affermando il cosmopolitismo giuridico, che ha nei giusglobalisti à la Habermas uno dei suoi più tenaci propugnatori, che afferma che il nuovo diritto umanitario ha sostituito il vecchio diritto fondato sugli stati nazionali, per cui ora sarebbe lecito intervenire con le armi laddove lo stato viola i diritti umani dei propri cittadini.
Bazzocchi sostiene che questo tipo di cultura ha inevitabilmente formato, più o meno direttamente, anche tutti coloro che in questo decennio hanno fatto cooperazione nei Balcani, anche di coloro che comunque si sono opposti alle guerre della NATO nei Balcani per motivi politici o ideologici. Purtroppo la retorica dei diritti umani è entrata più in profondità di quanto si pensi. Tale cultura ha neutralizzato la politica e qualsiasi possibilità di indagine sociale nei paesi nei quali la cooperazione ed i suoi operatori intervengono. Ovunque, in Bosnia come in Kosovo, secondo quella cultura abbiamo solo problemi di rispetto dei diritti umani, le società scompaiono, così i cittadini e le cittadine, non esistono interessi economici e di potere, non si riscontrano diverse opzioni politiche, orientamenti sociali o modelli di società. Tutto nei Balcani è stato riportato al conflitto etnico e al rispetto dei diritti umani. Così la depredazione degli appartamenti è stata chiamata "pulizia etnica"; l’intreccio fra mafia e politica viene definito corruzione e mancanza del senso dello stato da parte di quei popoli; il conflitto fra classi dirigenti per la spartizione di uno stato in dissoluzione – la Jugoslavia – viene chiamato guerra etnica. La filosofia dei diritti dell’uomo, nata peraltro all’interno di una cultura minoritaria nel pianeta – quella occidentale -, elimina dalla pratica dell’intervento di solidarietà e cooperazione internazionale la questione del modo in cui una società è organizzata. Si possono vantare dei diritti se la società in cui si vive è democratica, e questa dovrebbe essere la questione centrale. Come ha scritto Pietro Barcellona, "la vera garanzia dei diritti è il modo concreto di essere della società, non la pura e semplice enunciazione di "principi astratti".

Rimane comunque un’ansia di radicalità e partecipazione politica che i cooperanti e gli operatori dell’umanitario esprimono in due direzioni, che però poco hanno a che fare con l’idea classica di cooperazione allo sviluppo, come creazione di legame sociale e trasformazione di una società. La prima direzione è quella che potremmo definire della condivisione. Essa si esprime nei progetti che hanno come fine la condivisione delle sofferenze di tutte le popolazioni civili e la preparazione di azioni di interposizione nonviolenta fra le parti in conflitto o di mediazione tramite le tecniche della nonviolenza.
La seconda direzione scelta da molti operatori per esprimere la propria radicalità è quella che potremmo definire della presenza emotiva e trasgressiva. Molti operatori che lavorano in progetti di cooperazione finanziati da grandi donatori soddisfano il proprio bisogno di senso politico tramite lo stile di vita (più sregolato e trasgressivo da quello usato nel proprio paese, dal momento che si vive e lavora in una zona disagiata e di conflitto), un forte senso di solidarietà e cameratismo fra operatori, la forte emozione di essere in un luogo sotto gli occhi dell’opinione pubblica internazionale, e con la partecipazione a grandi eventi di protesta collettiva come possono essere i cortei antiguerra di forte segno politico o le nuove grandi manifestazioni contro la globalizzazione.In questo caso gli operatori che non intravedono la possibilità di dispiegare una soggettività politica tramite i progetti di cooperazione riversano il proprio bisogno di radicalità nell’etica dello stare assieme, condividendo uno stile di vita sregolato e trasgressivo, e nella partecipazione a grandi eventi collettivi di protesta, in cui, oltretutto, la provenienza dai luoghi del conflitto è un forte elemento di riconoscimento.

La seconda modalità di espressione della radicalità politica nei luoghi del conflitto e della cooperazione è molto vicina a quelle culture che assumono appieno la globalizzazione come una sfida per fare politica oltre ogni delimitazione dello spazio, statale, locale o tematico. Per queste culture la globalizzazione rappresenta una possibilità di liberazione che fa leva sul rifiuto di qualsiasi costrizione territoriale, in senso politico e filosofico. Da qui alle moltitudini che si contrappongono all’impero il passo è sicuramente breve. La moltitudine degli individui sarebbe costituita dai singoli, non più identificati da un’appartenenza di classe o di tradizione culturale, che nel nuovo spazio della Rete fanno della deterritorializzazione un’occasione di incontro e di comunicazione senza confini e senza barriere. Sarebbe la moltitudine che può sconfiggere l’impero il quale, non reggendosi più su un dominio fondato sul territorio, si apre per forza al bisogno di mettere i produttori di senso al lavoro nella Rete. L’immensa forza globale dell’Impero sarebbe così anche la sua grande debolezza.In questa idea della moltitudine come soggetto delocalizzato, in grado di mettere in crisi l’Impero, c’è il rifiuto della politica come spazio e territorio del confronto e della mediazione all’interno delle istituzioni e dei luoghi sociali. Questo rifiuto ha radici lontane nell’antistatalismo di sinistra. Anche in questo caso lo sbocco è il rifiuto della politica tradizionale legata ad un territorio, una nazione e, perché no, una classe, per approdare all’universalismo dei diritti umani ed esprimere sostanzialmente orientamenti affini all’individualismo libertario di ispirazione antistatalistica e tendenzialmente anarchica.

Nelle conclusioni si afferma che i programmi di cooperazione devono tornare ad avere una forte valenza politica.La politica è un progetto di società, cioè la creazione di istituzioni e regole sociali, in uno spazio non liscio fatto di corpi sociali, individui, istituzioni. La politica è quella che fonda la comunità come luogo in cui la comunicazione sociale è resa possibile dalla socializzazione dei bisogni e dei desideri e dalla riflessione su di essi; è quello spazio in cui individui diversi possono allora comunicare mediante un linguaggio comune e valutare il contributo che ognuno dà alla propria società tramite una divisione dei compiti, secondo criteri condivisi e accettati da tutti. Se le ONG ed i loro operatori riusciranno ad abbandonare la retorica dei diritti umani e la velleitaria fiducia nelle moltitudini, allora potranno riappropriarsi della politica come "decisione su regole istituite dell’ordine comune e quindi definizione del bene comune e degli obiettivi condivisi dalla società".
Ecco che allora la ricostruzione di case diventerà una straordinaria occasione di urbanistica partecipata. I programmi cosiddetti psicosociali non saranno un lavoro sul singolo traumatizzato, ma richiederanno il coinvolgimento di un’intera comunità per analizzare le cause del conflitto e della crisi di un’intera società. L’assistenza alle fasce deboli diventerà così un progetto di ripensamento collettivo dei servizi sociali e quindi dei bisogni e dei desideri. I progetti economici – dal microcredito, allo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria – rappresenteranno lo sforzo di una comunità che cerca la strada per il proprio sviluppo, in cui le colture siano commisurate alle culture. Nei centri comunitari o giovanili si riuniranno allora le comunità non tanto e non solo per ricevere servizi, ma per riflettere sulle potenzialità del proprio territorio e creare assieme regole sociali condivise.
La battaglia contro la globalizzazione dovrà passare ancora per il territorio e attraverso gli spazi della politica, laddove unicamente si può costruire l’autonomia sociale.

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* Claudio Bazzocchi è responsabile ricerca e formazione del Consorzio Italiano di Solidarietà e coordina il gruppo di ricercatori dell’Osservatorio Balcani.

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