Caschi bianchi, sentiero di nonviolenza che attraversa i Balcani
Servizio civile all’estero per obiettori e volontari: il progetto di Caritas Italiana, le esperienze di tre giovani obiettori.
Caschi Bianchi. Un nome evocativo per un’esperienza che ha l’ambizione di essere – se non profetica – scomoda nel senso giusto, perché impegnativa e coinvolgente, proposta a giovani capaci di entusiasmo, passione e responsabilità. In queste parole c’è lo spirito di un progetto che è ormai operativo da quasi un anno e si propone di tracciare sentieri di incontro, dialogo e collaborazione, nel vivo di situazioni di conflitto solitamente affrontate con gli strumenti della forza, della repressione, del controllo militare.
I Caschi Bianchi sono giovani obiettori di coscienza (ma anche volontari, uomini e donne) che scelgono di svolgere il loro servizio civile all’estero, in paesi segnati da tensioni e conflitti, praticando e testimoniando la scelta della nonviolenza. Esprimono un impegno e una speranza: contribuire a una nuova coscienza di pace, alimentata da presenze attive tra le persone e le comunità, nel tentativo di cambiare la mentalità che individua nell’altro un nemico. Tutto ciò, attraverso azioni di servizio ai poveri di ogni "parte" (etnia, appartenenza, fazione…) e attraverso la faticosa, ma inevitabile via del dialogo. L’operato dei Caschi Bianchi assume particolare rilievo nelle attività di peace building (costruzione della pace) e confidence building (costruzione della fiducia), per facilitare il dialogo tra realtà contrapposte e agevolare relazioni costruttive.
Questa esperienza innovativa ha molteplici radici.
1. Sul versante legislativo, la nuova legge sull’obiezione di coscienza (230/98) e ora anche la legge che istituisce il servizio civile nazionale (64/2001) consentono a obiettori di coscienza e a volontari di prestare servizio civile all’estero, o di recarvisi in missione umanitaria, "per interventi di pacificazione e cooperazione fra i popoli" (art. 9 della legge 64). L’Ufficio nazionale del servizio civile (Unsc) ha riconosciuto ufficialmente questa innovativa forma di servizio alla costruzione della pace, che ha anche ottenuto l’alto riconoscimento dell’Agenda per la Pace delle Nazioni Unite, che attribuisce alla componente civile – denominata appunto Caschi Bianchi – azioni di mantenimento della pace e ricostruzione della fiducia prima, durante o dopo un conflitto.
2. Storicamente, l’idea dei Caschi Bianchi fa riferimento all’esperienza di un gruppo di obiettori dell’associazione Papa Giovanni XXIII, che ancor prima del varo della nuova disciplina sull’obiezione si recarono in Bosnia Erzegovina, secondo una logica di disobbedienza civile rispetto a norme che impedivano di prestare servizio all’estero, nell’ambito di interventi umanitari e di interposizione pacifica tra le parti in conflitto.
3. Dal punto di vista ideale e organizzativo, l’esperienza dell’area internazionale di Caritas Italiana, nonché la presenza di suoi operatori in territori segnati da conflitti in corso o conclusi da poco, offrono la possibilità di inserire obiettori e volontari in progetti avviati, solidi, in grado di incidere sulla realtà circostante.
Sulla base di questi presupposti, il progetto Caschi Bianchi è stato varato da Caritas Italiana nel ’99, ed è confluito nella "Rete Caschi Bianchi", costituita con altre realtà dell’associazionismo e della cooperazione internazionale (dapprima Papa Giovanni e Gavci, poi anche Focsiv) e del movimento nonviolento. Il lungo e complesso itinerario di progettazione ha comportato un intenso sforzo teorico, organizzativo, di promozione dell’iniziativa, selezione e formazione dei candidati. Questo processo è sfociato, tra dicembre 2000 e gennaio 2001, nella partenza del primo scaglione di Caschi Bianchi: undici giovani (tra cui una ragazza), obiettori e volontari, inviati in varie parti del mondo per affrontare un servizio di dieci mesi, dopo aver seguito un impegnativo cammino di preparazione. Il secondo gruppo (otto Caschi Bianchi) ha cominciato il suo servizio a giugno; il terzo, dopo la fase di selezione e formazione, in corso da inizio novembre, diventerà operativo a fine 2001. Per tutti i giovani ammessi a far parte del progetto sono previsti rientri, durante il servizio, allo scopo di completare la formazione, verificare la bontà del percorso effettuato, compiere azioni informative e di sensibilizzazione nelle realtà (diocesi, parrocchie, enti locali, gruppi) da cui provengono.
La destinazione dei giovani tiene conto, come detto, della presenza in un certo territorio di uomini e progetti di Caritas Italiana. Così sette Caschi Bianchi sono stati indirizzati in Ruanda (nell’ambito di progetti di riconciliazione), due in Kenya (dove lavorano con movimenti civili nonviolenti e a favore di rifugiati provenienti dall’area dei Grandi laghi e dal Sudan), uno in Honduras (lavoro culturale e formativo, nell’ambito di una scuola popolare di pastorale sociale).
Otto Caschi Bianchi sono invece stati inseriti in tre paesi della ex Jugoslavia, nell’ambito del Progetto Balcani di Caritas Italiana. Tre di loro hanno prestato servizio in Bosnia Erzegovina, a Banja Luka e Jaice, nell’ambito di progetti che mirano a favorire il rientro di profughi e a sostenere il dialogo interetnico; per altri quattro la destinazione è stata il Kosovo, con l’incarico di collaborare a progetti di educazione alla pace, sostegno alle vittime della guerra e promozione dei diritti delle minoranze; uno, infine, è stato inserito nei progetti che Caritas Italiana conduce in Macedonia a favore della minoranza rom e per la promozione del dialogo tra i gruppi etnici.
I Balcani, teatro di conflitti, passati e presenti, a poche centinaia di chilometri dal territorio italiano, rappresenteranno sicuramente anche in futuro una destinazione privilegiata per i Caschi Bianchi di Caritas Italiana. L’intervento nei paesi della ex Jugoslavia non è infatti soltanto un’occasione per esprimere vicinanza a popolazioni che hanno sofferto o soffrono stenti e violenze, o un’opportunità di operare nel vivo di progetti ben avviati. È anche un modo per rinsaldare il legame con una storia di obiezione e servizio che, nel corso degli anni ’90, ha aperto percorsi inediti per i giovani e i volontari del nostro paese. I Balcani rappresentano, in un certo senso, la culla e la casa dei Caschi Bianchi: un passato che vuole aprire in futuro altre strade di pace, di nonviolenza, di incontro e dialogo.
Antonio: "Lavorare per la pace? E’ limare le barriere"
Sono a Skopje da tre mesi, e tre mesi sono pochi: sono pochi per capire questo mondo così complicato, sono pochi per comprendere questo crogiolo di culture, sono pochi per immedesimarsi nelle persone e vivere dal loro punto di vista l’evolversi di una situazione sempre meno stabile.
Mi sono chiesto molte volte cosa vuol dire pace, cosa vuol dire guerra: a parte le risposte semplicistiche che mi posso dare, la domanda rimane sostanzialmente senza risposta. Forse è proprio per questo che sono venuto qua, per capire e vivere il senso e la difficoltà della pace, e capirne il significato.
A differenza di tutti gli altri operatori internazionali che sono presenti nelle sedi all’estero delle varie organizzazioni, noi Caschi Bianchi non percepiamo alcuno stipendio, siamo volontari. E in Macedonia il concetto dell’agire senza retribuzione, in modo volontario, è molto distante dalla gente. La mia presenza a Skopje incuriosisce dunque molte delle persone che incontro, che stentano a capire e continuamente chiedono il vero motivo della mia presenza tra loro.
Lavorare per la pace, essere portatori di una cultura di pace: quanto è difficile incarnare questi nobilissimi obiettivi, quanto è difficile confrontarsi con una realtà in cui ogni giorno si combatte, in cui le armi sono ancora un’efficace risorsa per risolvere le questioni.
Qua a Skopje collaboro con una associazione Rom che Caritas Italiana supporta, e sto cercando di concentrarmi, in collaborazione con i Caschi Bianchi attivi in Kosovo, su una promettente ricerca che ha per oggetto i movimenti nonviolenti presenti nel territorio nel quale operiamo: incoraggiare la cultura del dialogo come efficace alternativa a quella delle armi è un obiettivo altissimo. Bisogna accettare l’idea di essere goccia nell’oceano, e comportarsi come tale: nella mia giornata punto molto sulle relazioni che cerco di costruire con le persone, mostrando quando possibile la gratuità del mio operato e il desiderio di star loro vicini, di limare la barriera mentale che contrappone gli uni agli altri, chi sta bene a chi sta male: questo è lavorare per la pace? Penso di sì. (Antonio Panebianco, casco bianco a Skopje)
Carlo: "In salotti fatiscenti, ad ascoltare lamentele e seminare coscienze"
Un casco bianco è prima di tutto un viaggiatore, che non si accontenta, e decide di partire. Va a trovare un’altra provincia, e mette da parte abitudini che allontanano da una ricerca di senso.
Così si cambiano gli aperitivi, i ruoli e gli incontri.
Ci si siede nei salotti a volte fatiscenti delle famiglie di Banja Luka e Jaice, e ci si accorge che ogni parola acquista un peso diverso, la gente aspetta risposte. Noi si prova a darle sottoforma di dubbi, ma anche in tal modo non si deve esagerare. Equilibrismi, ma sinceri. Non false promesse, né sconforti immotivati. Si sfida se stessi e le situazioni in cui ci si trova.
Ascoltare le lamentele della gente, anche abituando l’orecchio a certe banalità.
La nonviolenza è un esercizio costante che non smette mai di provocare.
All’interno dei singoli progetti in cui si opera e nei movimenti di tutti i giorni, ognuno ha la propria maniera e occasione di comunicare e intromettersi nelle situazioni; di trovare la propria forma per contribuire al dialogo. La maniera migliore non è quella di credersi arbitro (un mediatore non ha per forza la divisa nera e il fischietto), ma è quella di parteggiare, sinceramente, per ciò che si crede. Ogni giorno rimettendosi in gioco.
La nonviolenza non è caratteristica innata dell’uomo, è frutto della cultura, della pazienza, della capacità di credere in valori che vanno aldilà di ciò che si vede con gli occhi.
Così credo che i problemi cui mi rivolgo siano più nella mente che nella materia. Ossia questi ultimi non vanno negati, ma il lavoro più importante è quello di destabilizzare le categorie che si fanno fisse, di sminare le coscienze da falsi o facili pregiudizi. Lavoro informale e continuo.
Sul campo, sulle macchine da scrivere o nei diversi salotti.
Si è giovani perciò ci si può sporcare le mani, ascoltare le lamentele, senza fine, spesso senza meta della gente di Bosnia.
Ogni sera la testa è pesante.
Prima di dormire si pensa a concetti liberi, al mare, al rispetto e a forme più leggere e lontane.
Ma la libertà è cosa gentile, e ha molti altri modi per manifestarsi. (Carlo Pettenello, casco bianco a Banja Luka e Jaice)
Luca: "Una certezza: la guerra non è la via"
Sono tre mesi che vivo in Kosovo. Ma ancora non me ne sono accorto, a dire la verità. Ed è bene.
Adesso sono in Italia per un po’ di vacanza. Guardo i militari che tornano in caserma. Mi fermo a parlare con loro. Rassegnazione nelle loro parole. Per i ragazzi di leva fare il militare è spesso perdere un anno. Attraversare un buco spazio-temporale di responsabilità e indipendenza.
Per me è diverso. Io sono un obiettore di coscienza in Kosovo. Un cosiddetto Casco Bianco. Certamente anche io sono un ingranaggio di una macchina enorme. E questo a volte è frustrante. Demotivante. Ma c’è di che essere felici. Di che essere orgogliosi.
Pensavo alla necessità di essere utile. Pensavo a un modo per non gettare via del tempo. E la possibilità di fare l’obiettore all’estero è stata per me qualcosa di improvviso ed esaltante.
Riguardando indietro farei esattamente tutte le scelte che ho fatto finora. Nonostante la difficoltà di interagire con chi ti riconosce spesso come un veicolo di denaro. Nonostante gli occhi di certe donne sole, con i mariti e i figli portati via da una recente bufera. Nonostante la lontananza.
Farei tutto quanto solo per i chicchi di consapevolezza che stringo nel mio pugno serrato. Solo per i calli che porto sugli occhi.
È importante essere là. Adesso. Importante per me. Forse non troppo utile alla grandiosa macchina che mi circonda. Ma utile per me. Ed era proprio questo che cercavo.
Non posso dire di essere felice. Non vorrei esserlo, sinceramente. Mi basta la serenità che vivo in questo tempo. Mi basta sapere con certezza che non è la guerra la via.
E, soprattutto, averne la prove. (Luca Bartolomei, casco bianco a Prizren)
Per informazioni sul progetto Caschi Bianchi
Caritas Italiana, viale Baldelli 41, 00146 Roma, tel. 06.54.19.21, e-mailserviziocivile@caritasitaliana.it