Di-Segnare l’Europa. Per un’integrazione certa, rapida, sostenibile e dal basso

Documento redatto durante il World Social Forum di Padova

02/11/2001, Redazione -

Premessa
L’incontro di oggi è organizzato assieme dall’ICS – il Consorzio Italiano di Solidarietà che raggruppa oltre cento associazioni e gruppi locali italiani impegnati da anni nel sostegno e nella ricostruzione dell’Europa sud orientale – e dall’Osservatorio sui Balcani, progetto che concretizza l’idea nata nei Cantieri di Pace del giugno 1999 di costituire un luogo di ricerca e di supporto conoscitivo agli interventi di cooperazione nel sud est europeo. Si svolge nell’ambito del World Social Forum, l’evento che dentro Civitas segue la riflessione svoltasi a Porto Alegre sui movimenti territoriali di risposta intelligente alle dinamiche della globalizzazione. E’ concentrato sul rapporto tra Europa e Balcani, o si potrebbe dire tra le due Europe, quella ricca e già integrata dell’Unione e quella "marginale" e disintegrata dell’area sud orientale.
E’ anche un incontro con intellettuali, uomini di governo e rappresentanti di istituzioni internazionali molto diversi tra loro per ruoli e responsabilità. Si tratta di una scelta voluta per confrontarci assieme, a partire da punti di vista e sguardi differenti, su una traccia di riflessione comune. Questa traccia può essere divisa in tre grandi punti, che hanno tutti a che fare con le possibili forme future del rapporto tra Europa e Balcani, un rapporto che tutti auspicano ma di cui è importante delineare più precisamente i contenuti. I tre punti sono:
– la disintegrazione, ossia una rilettura dei processi disgregativi vissuti nei Balcani durante il decennio trascorso con una sottolineatura sugli effetti dannosi che hanno ancora oggi e sui rischi delle nuove possibili crisi;
– l’integrazione, ossia gli spazi possibili di cooperazione sovra-nazionale, in ambito regionale e con l’intera Europa, tenendo conto non soltanto degli obiettivi ma anche dei tempi del processo (cinque anni o venti?);
– le proposte concrete, per una reale emancipazione politica ed economica dei Balcani tanto dalla cappa dei sistemi nazionalisti chiusi, quanto dal rischio della mercantilizzazione selvaggia e senza regole.

1. La disintegrazione

1991 – 2001: siamo ormai ad un decennio di instabilità continua nell’insieme dell’area balcanica: Slovenia, Krajine croate, l’intera Bosnia Erzegovina, Albania, Kossovo e poi l’insieme della piccola Jugoslavia, oggi la Macedonia… tutte aree progressivamente colpite da fenomeni di violenza acuta e tragica.
E tuttora il contesto dell’area continua a mutare in modo repentino ed inaspettato, come dimostrano i nuovi recenti segnali di crisi: Macedonia, sud Serbia, Erzegovina, senza dimenticare i nodi irrisolti delle Krajine, del Montenegro, del Kossovo, del rientro in Bosnia… e quelli potenziali come il Sangiaccato o l’Albania post-elettorale.
Alzando lo sguardo oltre la dimensione politica, ci preoccupano le emergenze ambientali – dal Danubio, agli effetti dei bombardamenti Nato, alle conseguenze decennali ereditate da un modello di sviluppo insostenibile – ma anche le caratteristiche della ricostruzione economica e sociale dell’area, fortemente condizionata da aiuti che rischiano di creare situazioni di dipendenza strutturale, nonché dalla paralisi fiscale delle istituzioni nazionali e locali, con ciò che questo significa sul piano dell’incapacità di affrontare le situazioni più acute di povertà e di marginalità sociale. La disintegrazione politico-istituzionale ha lasciato d’altro canto mano libera alle forme più perverse della criminalità economico-finanziaria, che ha potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, così come nel traffico d’armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga o dei rifiuti.
Il problema è che da quest’altra parte dell’Europa, quella ricca che ha dato vita all’Unione Europea, si continua a non riflettere sulle dinamiche retrostanti alle tragedie degli anni ’90. Si pensa invece ancora ai paesi balcanici solo come ad un terreno di incursione, rischiando di perseverare nella mera ricerca di proprie aree di influenza nazionale senza sviluppare un approccio d’area complessivo. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell’economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione.
Si dimentica così, tra l’altro, che le tragedie di questi anni non sono per nulla estranee alle stesse forme attraverso cui il libero mercato, nelle sue moderne versioni mondializzate, si è organizzato e ha influito dopo l’89. In ciò si è trovato certamente un fertile retroterra nello sfascio dei regimi comunisti e nella natura centralistica e piramidale dell’economia di stato, basata sull’intreccio tra potere politico e apparato burocratico. E hanno influito anche la deresponsabilizzazione collettiva e l’assenza di difese culturali diffuse, eredità perversa di regimi che hanno segnato e impoverito in profondità i loro corpi sociali.

2. L’integrazione
Ci sono però anche segnali positivi che giungono in questi mesi, dai mutamenti democratici in Serbia all’avanzamento dei partiti non nazionalisti in Bosnia e Croazia. Anche il recente arresto di Milosevic, al di là delle pressioni internazionali, è indice di un processo che non potrà non fare i conti con la storia più recente di questi paesi. I primi timidi segnali di un rinato dialogo inter-balcanico si possono forse scorgere.
Ma soprattutto la parola "integrazione" ha a che fare con il resto dell’Europa, nell’ambito della quale si possono forse fluidificare gli incerti contesti nazionali usciti dalle guerre dell’ultimo decennio. La speranza è che il virus nazionalistico che ha fatto da sfondo e da maschera ideologica al disintegrarsi della nazione degli slavi del sud (e alla crisi delle ideologie novecentesche), possa e debba essere affrontato superando gli angusti richiami all’appartenenza nazionale, per definire uno spazio più ampio di riferimento nel quale disegnare il proprio futuro.
Nel marzo scorso, parlando a Salonicco, il presidente della Commissione Europea Romano Prodi ha affermato con determinazione: "Bisogna muoversi nell’ottica dei paesi balcanici come "membri virtuali" dell’Unione Europea. Per tutti questi paesi, dalla Croazia ai confini greci, il futuro è nell’UE (…), si tratta di ragionare su questo obiettivo fin da adesso". Anche a nostro giudizio l’entrata di tutti popoli balcanici nell’Unione Europea è un obiettivo irrinunciabile per arrestare la disgregazione di cui si è già detto, e questo per almeno tre motivi:
a) non c’è futuro per questi piccoli paesi al di fuori dell’Unione, sia in termini di libertà di movimento che di diritti civili e sociali;
b) un potere sovra-nazionale è l’unico che, per i vantaggi che presenta, può stemperare i nazionalismi, rendere più importante e prioritario conquistare una cittadinanza europea al posto di una micro-cittadinanza nazionale in piccoli stati dalle dimensioni spaziali insostenibili;
c) l’impegno per entrare in Europa – raggiungendo alcuni parametri specifici – permetterà di selezionare una "nuova classe dirigente" sganciata dagli obiettivi populistici di breve periodo, che sia in grado di raggiungere gli obiettivi negoziati con l’Unione.
In breve, pensiamo che l’entrata nella Unione Europea non sia la panacea per tutti i mali (è ad esempio chiaramente insufficiente per contrastare il peso eccessivo dell’economia criminale nel Balcani), ma possa costituire una fondamentale piattaforma su cui rilanciare la pace, la convivenza civile e lo sviluppo locale nei Balcani. Crediamo che i tempi siano ormai maturi per fissare delle date, delle scadenze e dei parametri che guidino questo percorso. E queste date non possono essere di dieci o vent’anni, pena il rendere poco credibile e allettante la stessa offerta. Pensiamo invece a tappe più vicine e credibili: possono il 2004, il 2006 essere immaginate come date credibili per questo processo?

3. Le proposte per un percorso concreto
L’indicazione di parametri di riferimento è un fatto politico di prima grandezza per il percorso di entrata nell’Unione Europea dell’area balcanica. Bisogna evitare però di ridurre la questione ai soli parametri economici, perché i dati di partenza in tutta la regione – complessivamente 18 milioni di persone con un reddito pro-capite "ufficiale" che varia dai 3.500 $ annui della Croazia ai 1.200 $ dell’Albania, ma che è spesso sottostimato per effetto dell’economia sommersa – sono troppo distanti dagli indici europei per poter pensare di raggiungere, nel medio periodo, anche solo le aree meno ricche d’Europa come Grecia o mezzogiorno italiano. Ma il vantaggio anche economico per la stessa UE di una stabilità nell’area è un dato di fatto inconfutabile, che dovrebbe far superare qualsiasi resistenza di tipo contabile.
Crediamo perciò che a fianco e prima dei parametri economici ne vadano individuati altri in campo sociale (servizi per i disabili, pensioni, servizi socio-sanitari, tassi di istruzione ecc.), ambientale (aree protette, difesa e gestione delle foreste e dei corsi d’acqua, gestione rifiuti, servizi idrici, interventi per il disinquinamento ecc.), di democrazia reale, di presenza e partecipazione della società civile organizzata, ecc…
Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione incardinato a nostro giudizio su tre concetti di fondo: l’opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, l’autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale, la cooperazione dal basso come strategia per rafforzare un tessuto civile e istituzionale indispensabile per superare l’attuale de-regolazione selvaggia.

3.1. Lo sviluppo economico autocentrato

Il futuro economico del sud est Europa non può essere garantito né dalle chimere degli investimenti occidentali di rapina, né tantomeno dal perdurare dell’assistenzialismo umanitario. Occorre immaginare invece un percorso economico inedito, fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze – che non mancano, data l’alta scolarità diffusa e per molti l’esperienza formativa all’estero – unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa, e dall’altro sul settore primario, dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell’artigianato e dell’industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo. Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.

3.2. L’autogoverno delle comunità
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani è l’autogoverno delle comunità: la crisi fiscale di cui abbiamo parlato impone di ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio. C’è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un’ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. A tal fine è necessario avviare percorsi di riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalità una comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente pure".
Quest’appartenenza europea già si è manifestata negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demoliti dalla guerra. Si tratta senza dubbio di un’esperienza che prefigura un itinerario possibile di integrazione europea, alternativo rispetto a quello lento e burocratico condotto fin qui forse troppo cautamente dei governi. L’integrazione a partire dai cittadini, dai territori e dalle singole municipalità, immesse però in una rete virtuosa di partecipazione democratica, sviluppo locale e autogoverno.

3.3. Cooperare fra comunità, promuovere società civile

Molte organizzazioni nongovernative e associazioni italiane in questi anni hanno lavorato nei Balcani, con l’idea di scardinare la cittadinanza fondata sull’appartenenza etnica e di promuovere i principi dello stato sociale e dei diritti per tutti. I gemellaggi e la cooperazione decentrata che sono stati sperimentati hanno privilegiato il rapporto con le comunitàlocali, promuovendo la partecipazione dei cittadini per rimettere in campo i diritti e i bisogni, che evidentemente non hanno etnia. In ciò si è capito che a nulla serve impegnare risorse ed energie, se prima non cambia il quadro sociale e politico dell’area.
E questa riflessione tocca anche noi, le nostre comunità: come si può vivere assieme e comunicare nelle società ipermoderne e neoliberiste, in cui gli individui sono lacerati fra partecipazione all’economia mondializzata e ritorno all’integrazione comunitaria? Una risposta può venire dalla difesa e proposizione del Soggetto, che si manifesta con la resistenza alla lacerazione fra mercato e comunità e con il desiderio di individualità, di potere: dispiegare autonomamente un proprio e autonomo progetto di vita, cercando una sintesi, mai dialettica e sempre un po’ precaria, fra strumenti tecnologici e risorse culturali (si pensi ai contributi di Alain Touraine).
La sfida della convivenza è comune a tutte le società ipermoderne o demodernizzate – non importa come le vogliamo chiamare – dell’est e dell’ovest, e con questa consapevolezza ci si dovrebbe muovere nei Balcani, come nel resto d’Europa, per promuovere società civile e riflessione comune, per non rassegnarsi né al neoliberismo, né all’integralismo comunitario e nazionalista.

Conclusione
Sullo sfondo di questi tre concetti forti si può dunque immaginare la costituzione di alcuni indicatori oggettivi su cui basare un percorso rapido di integrazione dei Balcani nell’Europa.
E’ l’indicazione su cui ci piacerebbe confrontarci oggi con le persone coinvolte in questo dibattito, e che vorremmo lanciare come proposta forte di questo World Social Forum dedicato ai problemi, alle prospettive ma anche alle ricchezze di quest’area.
Per una sua integrazione certa, rapida, sostenibile e dal basso.
Per Di-Segnare assieme, a partire anche dall’incontro di oggi qui a Padova, una nuova Europa.

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