Italia | | Cooperazione, Politica
Movimenti e distanze: da Porto Alegre a Genova e, si spera, ritorno
Luca Rastello scrive del movimento no global. Forza e contraddizioni. Alla luce delle esperienze fatte nei Balcani, alla luce delle tragedie di Genova.
Luca Rastello, giornalista ed autore del libro "La guerra in casa" sulle guerre balcaniche, analizza in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Limes, da poco in edicola, il movimento no-global. Le origini, le contraddizioni fra la crisi dello stato sociale e volontariato, i fatti di Genova. Anche alla luce delle sue esperienze nei Balcani. "Il nodo è la polticizzazione del volontariato, blandito, corteggiato e sedotto quando sta nei Balcani e non disturba e massacrato quando in piazza ragiona sui diritti" afferma Rastello.
Assieme al prossimo convegno Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive organizzato dall’Osservatorio per 24 novembre quest’articolo è un’ulteriore occasione di riflessione sul senso e sulle modalità d’operare del volontariato e del terzo settore.
(…)
Il mondo delle Ong e dell’economia sociale attraversa da un paio di anni un complicato processo di autoanalisi sul quale a più riprese, non sempre con le migliori intenzioni, tendono a innestarsi le voci della politica istituzionale. Di questo percorso la scelta dei social forum costituisce in qualche modo il culmine critico. Per anni, infatti, a quel mondo si è tentato di affidare un ruolo fondamentale nelle modifiche più difficili al sistema sociale occidentale: l’esaltazione dell’"eroismo" del volontariato e dell’"imprenditorialità" del terzo settore si è periodicamente accompagnata alle fasi più accese del dibattito sulla riforma del welfare e delle politiche del lavoro. E’ un fatto che da tempo l’associazionismo fornisce un servizio prezioso di supplenza alle istituzioni in campo assistenziale, contemporaneamente costituendo per molti versi un vero e proprio mercato parallelo del lavoro dove le garanzie sociali sono sospese e sostituite dal principio della "motivazione". Due caratteristiche a cui guarda con favore chi spera di trovare una sponda nella destrutturazione delle principali conquiste sociali dei decenni scorsi. E che alimentano la contraddizione in cui si dibatte gran parte di coloro che operano nel terzo settore: quella di essere portatori, a livello ideale, di un modello sociale radicalmente diverso (e a volte addirittura opposta) da quello che con il loro lavoro concreto tendono a realizzare. E’ il paradosso, per esempio, delle associazioni che intervengono nei paesi in via di sviluppo, in larga parte impegnate nella realizzazione di un modello che può essere definito di "autogestione liberale", assai diverso dal modello di equità sociale che orienta le scelte individuali di molti dei loro stessi membri. Su questo paradosso, e sulla scissione interiore che da esso deriva, fanno leva le sirene di di chi tende a usare il privato sociale come perno di trasformazione sociale in senso liberale (privilegiando dunque il "privato" sul "sociale").
Ma un nuovo livello di consapevolezza su queste tensioni si è sviluppato nel recente dibattito sull’esperienza delle Ong italiane durante la guerra del Kosovo e in particolare sul caso dell’Operazione Arcobaleno. Al di là delle polemiche per le malversazioni, l’Operazione Arcobaleno rappresenta infatti il punto di massima commistione e confusione fra logistica militare e logistica di pace, da un lato imponendo alle associazioni la convivenza e la collaborazione con le strutture a cui idealmente si contrappongono, dall’altro dando loro accesso a volumi di finanziamento ( e quindi a livelli di efficacia nella realizzazione delle operazioni di solidarietà) mai visti prima. In tal modo però la contraddizione fra "il cuore e le mani", tra i fini di lungo periodo e le azioni nel breve e medio termine, viene alla luce in tutta la sua portata, mettendo realtà nate spontaneamente, e spontaneamente aggregatesi in rete, davanti al problema di trasformarsi in un soggetto capace – oltre che di agire – di rivendicare, di imporre modelli, di discutere di diritti: in una parola di dare un valore politico all’immenso e largamente inespresso potenziale critico insito nelle attività solidali. Dopo Arcobaleno, la discussione si è fatta aspra e dolorosa e i richiami alla mitica "concretezza" del volontariato capace di agire e tacere hanno rivelato il loro aspetto strumentale. Alcuni hanno scelto la "via della concretezza", sacrificando la vis critica alla professionalità e all’abilità nell’accedere a finanziamenti nazionali e internazionali. Altri hanno tentato di affiancare l’attività per cui erano nati con un dialogo con diverse realtà sociali.
E’ in questa autoanalisi che si è posta la base principale per la creazione di un network – di uno "sciame" per usare il termine di Arquilla e Ronfeldt – impegnato su tutti i fronti dell’agire sociale e aperto a un confronto diretto con le istituzioni e le parti politiche. E’ così che è nato l’interesse italiano per la rivolta di Seattle e si è aperto un dialogo fra diverse identità interessate a una riflessione sui fenomeni globali riguardanti i diritti civili e sociali. Punto di svolta è stato in questo senso il Forum sociale mondiale del gennaio scorso a Porto Alegre dove si è toccata con mano la possibilità di realizzare strategie comuni e di concorrere all’elaborazione di modelli concreti e concretamente alternativi a quelli incarnati in organi come il Fmi e la Banca Mondiale (anche in questo caso val la pena di ricordare il successo del Forum di Porto Alegre, capace di imporre il confronto diretto a economisti e finanzieri contemporaneamente riuniti a Davos nel Forum economico mondiale). L’incontro fra la radicalità (e il radicamento) di alcune realtà autoorganizzate del sud del mondo e il terzo settore nostrano impigliato nel tentativo di imitare il modello organizzativo aziendale occidentale, ha dato impulso a una capacità inedita di interazione e mobilitazione comune di cui Genova, le "piazze tematiche" previste prima del massacro e, ancor più, il controvertice tenutosi nei giorni precedenti in Toscana dovevano costituire il banco di prova. La rete delle associazioni ha iniziato a tradursi in un movimento capace di unire l’identità orgogliosamente maturata nel silenzioso lavoro di base con una rivendicazione politica cosciente e nutrita di solide analisi (magari discutibili ma non certo approssimative): un movimento cioè capace di fare politica nel senso più alto del termine.
E’ questo il movimento che è stato massacrato da polizia, carabinieri e black bloc, con un’oggettiva unità d’azione, sorprendente soprattutto alla luce della libertà assoluta lasciata ai gruppi di teppisti e dell’incredibile capacità militare da questi dimostrata nell’aggredire contemporaneamente e in piena impunità tutte le piazze tematiche, cioè tutte le identità del movimento di Genova. Gli stessi soggetti blanditi e vezzeggiati dagli editorialisti pochi mesi prima, dopo il passaggio ruvido nelle mani dei tutori dell’ordine, si sono trovati a essere svillaneggiati dagli appelli a "prendere le distanze" proprio da coloro che li avevano aggrediti. Corteggiati quando tacciono, bastonati quando fanno politica: questo sembra l’orientamento generale, e a un ritorno a questo modello sembra rispondere ogni invito a "prendere le distanze", cioè a smantellare un movimento che come tale crea imbarazzo (anche all’opposizione parlamentare che si trova davanti a uno specchio impietoso) per tornare alla dimensione del volontariato. La sfida più delicata per la galassia della solidarietà sociale è allora quella di sottrarsi a questa logica, di rifiutare una disarticolazione fra le anime diverse che si sono incontrate sulla strada fra Porto Alegre e Genova e che, separate, espongono un patrimonio di energie e intelligenze a usi impropri. Alcuni, colme le Acli, hanno preso, almeno a livello degli organismi dirigenziali nazionali, la direzione della separatezza, pur non negandosi a un confronto. Altri aspettano di vedere che cosa accadrà in occasione degli impegni a venire relativi al vertice Nato e a quello della Fao. Ma intanto continuano a produrre cultura sociale e prassi solidale e a costituire uno dei più preziosi serbatoi di coscienza civile nel nostro paese. Senza l’intervento di professionisti dell’avventura e della piazza, senza le maschere messe sul loro viso da editorialisti frettolosi, senza il concorso di agenti provocatori, non sarà difficile a costoro "prendere le distanze dai violenti": più impegnativo sarà prendere le distanze dagli amici interessati, dalle sirene della confindustria, del governo, di tutti coloro che periodicamente cercano di coinvolgere il terzo settore e il volontariato nella piena realizzazione di un modello sociale che la loro stessa esistenza mette in discussione. L’esame di maturità richiesto al movimento no global è, insieme, un esame di maturità imposto al volontariato: se il social forum deve distanziarsi dai violenti, perché le associazioni che lo compongono non devono porsi il problema di distanziarsi da una prassi di contiguità e supplenza, talvolta ai limiti della connivenza con il potere politico? Il nodo è la polticizzazione del volontariato, blandito, corteggiato e sedotto quando sta nei Balcani e non disturba e massacrato quando in piazza ragiona sui diritti.
testo di Luca Rastello