ONG in Macedonia: un commento alla nostra ricerca

A fine agosto l’Osservatorio sui Balcani ha pubblicato un’indagine sulle ONG italiane operanti in Macedonia. Ora presentiamo un commento scritto da Claudio Bazzocchi, che affronta e rende visibili i nodi critici emersi dalla ricerca.

24/10/2001, Claudio Bazzocchi -

Vi segnaliamo un’ottima pubblicazione dell’Osservatorio Balcani di Rovereto, dal titolo "La crisi in Macedonia e l’intervento nongovernativo italiano: presenza, progetti in corso, azioni possibili". Il rapporto, commissionato alla dott.ssa Luisa Chiodi, ricercatrice presso l’Istituto Europeo di Fiesole, ha il merito di compiere una ricognizione degli interventi delle ONG italiane in Macedonia, a fronte della crisi che negli ultimi mesi ha sconvolto la Macedonia.
La ricognizione è stata effettuata intervistando i responsabili sul campo o in Italia delle varie ONG impegnate in Macedonia. Il quadro che emerge è quello di una serie di interventi nel campo dell’emergenza, dell’assistenza sociale e dello sviluppo, per nulla coordinati tra loro e spesso poco adeguati alla drammaticità degli eventi attuali. Dal rapporto emerge comunque che tutti i vari responsabili delle ONG sono consapevoli della sporadicità degli interventi e della loro scarsa integrazione. In questo si sconta il problema di due dipendenze che tagliano l’autonomia delle ONG e dei vari partner locali: quella delle ONG nei confronti delle grandi agenzie donatrici, e quella dei partner locali (associazioni, ONG ed enti locali macedoni) nei confronti delle ONG straniere. Questa duplice dipendenza fa sì che negli interventi in atto sia scarso il tasso di fantasia sociale e di tensione politica verso una reale pacificazione e integrazione dei vari attori sociali.
Le ONG straniere, e così quelle italiane, sono così spesso in balia dei donatori internazionali che il più delle volte hanno il solo interesse a spendere soldi in breve tempo e possibilmente in modo visibile. Tale dipendenza si riflette poi a sua volta nel rapporto fra ONG straniere e partner locali macedoni, costretti ad accettare qualunque cosa, pur di attrarre finanziamenti. Molte ONG sono nate infatti solamente sulla spinta dell’enorme afflusso di denaro che è entrato in quei paesi a seguito dei rivolgimenti bellici, ad opera dei grandi donatori internazionali. Le attività di molte ONG non partono da un reale radicamento sul territorio, né da una profonda elaborazione a partire dai bisogni dal tessuto sociale in cui operano. Molti interventi vengono inoltre imposti dai donatori internazionali, soprattutto anglosassoni, spesso caratterizzati da scarsa attenzione alle tematiche sociali, genericamente orientate ad una superficiale enunciazione di principio sui diritti umani e sull’informazione rispetto a determinati temi (educazione sessuale e sanitaria, convivenza multietnica, multilinguismo ecc…).
Dobbiamo comunque ammettere che le ONG italiane e straniere in genere non sono comunque del tutto esenti da responsabilità in questa situazione, che peraltro non riguarda solo la Macedonia, ma tutte le aree di intervento in cui le ONG sono finanziate dalle grandi agenzie donatrici direttamente sul campo. Se è certamente molto difficile influenzare le politiche – se di politiche si può parlare – dei grandi donatori da parte delle ONG, è però vero che molto spesso neanche ci si prova, né, come viene sottolineato da molti intervistati nel rapporto, ci si unisce in cartelli di ONG per essere più forti nei confronti delle grandi agenzie donatrici. Le ONG dovrebbero inoltre essere in grado di presentarsi come vere e proprie catalizzatrici della società civile del paese di provenienza, per non essere solo attuatori di progetti decisi dai donatori, ma organizzazioni autorevoli e in grado di proporre un valore aggiunto di fantasia e legame sociale. Lo stesso ICS, che è un consorzio di grandi associazioni e realtà locali della società civile italiana, spesso si trova in difficoltà a dispiegare il proprio potenziale, schiacciato dalla gestione del quotidiano e dalla scarsa mobilitazione dell’opinione pubblica che si muove solo se sollecitata dai mass-media.

Sul punto del coinvolgimento dell’opinione pubblica e della propria rete di simpatizzanti le ONG dovrebbero rendersi conto che non esiste mai un’emergenza o un problema di sviluppo per se stesso. Ci si trova sempre di fronte ad una realtà di intervento sociale da costruire. Come fare a lottare contro i nazionalismi se non interpretando una realtà politica e sociale prima ancora di intervenire sul campo assieme agli attori sociali in loco? Come lottare contro le mafie se non studiando e interpretando i fenomeni, le dinamiche sociali ed economiche di un territorio assieme a chi vi abita e vuole conquistare la propria autonomia sociale? Come denunciare l’ideologia della guerra "umanitaria" senza analizzare le questioni geopolitiche e poi senza capire come si muovono le forze militari sul terreno e soprattutto quelle non specificamente militari: bande mafiose, élites politiche che vogliono spartirsi le spoglie di uno stato in dissoluzione, potentati economici, avventurieri ecc… E come fare tutto ciò senza il coinvolgimento dei cosiddetti beneficiari?Fare tutto questo non è molto dissimile dal lavoro di coloro che operano in Italia nei quartieri degradati con le fasce più deboli della popolazione, oppure nelle città del Sud contro la mafia per il recupero del territorio, o contro il degrado ambientale mediante la denuncia degli interessi economici ad esso sottesi, nell’animazione sociale tramite lo sport o la cultura, per la difesa dei più deboli a partire dagli immigrati.
Operare in questi campi significa costruire oggetti sociali di intervento, ossia mettere insieme gli esclusi – cioè quelli che chiameremmo i beneficiari -, gli attori sociali – sindacati, partiti, associazionismo -, gli enti locali, le forze economiche e gli intellettuali che interpretano la coscienza critica di un luogo. Vuol dire studiare assieme ad essi il che fare e soprattutto il modo in cui farlo, per far sì che tutti gli attori sociali in campo possano interagire ed eventualmente scontrarsi per la soluzione del problema che deve anche prevedere, fra le varie azioni, la conquista dell’opinione pubblica locale ed eventualmente nazionale.
Questo dovrebbe essere il modo di agire delle ONG nei progetti di emergenza e di sviluppo all’estero. Nei luoghi in cui si interviene non esiste mai un problema oggettivo dato per se stesso e non si va sul campo semplicemente per risolverlo. Esiste invece una realtà da interpretare e nel momento in cui la interpretiamo già stiamo progettando e comunicando. Infatti in questo interpretare si coinvolgono intellettuali, artisti, gli esponenti della società civile e gli ultimi e i più deboli della società in cui si interviene. E questo coinvolgimento è già una prima forma di comunicazione.È chiaro allora che gli operatori all’estero delle ONG devono essere il perno della comunicazione; comunicare per loro non deve essere solamente rendicontare un lavoro già fatto, ma soprattutto interpretare la realtà assieme ai beneficiari e ai vari soggetti sociali di un determinato luogo e assieme a loro pensare il da farsi. È già questa una forma di comunicazione che si può rivolgere verso l’esterno perché è la voce degli attori sociali del luogo che assieme a loro lo interpretano, che con le ONG straniere costruiscono l’oggetto dell’intervento. Si avrà quindi a disposizione la voce o la creazione degli artisti, l’analisi degli intellettuali, la testimonianza dei più deboli e delle vittime, la forza degli attivisti (sindacalisti, esponenti di associazioni, politici, rappresentanti di movimenti).
È importante allora ribadire che non si sta sul campo a risolvere problemi oggettivi per poi rivolgersi all’esterno per comunicare e farsi dare risorse. Comunicare, progettare, trovare le forme e i modi per promuovere in una società i più deboli sono un’unica cosa che non ammette un prima e un dopo, e soprattutto non richiede la pietà degli spettatori, ma l’impegno attivo di espressioni omologhe della società civile italiana.
È quindi questa una forma di comunicazione che potrà essere fruita subito, senza fraintendimenti e sospetti di autenticità dalla rete di simpatizzanti delle ONG, che sono quelli che in Italia fanno cose simili e simpatizzano per esse: difesa dell’ambiente, recupero del territorio nei quartieri difficili, lotta alla mafia, difesa dei più deboli ecc…
Dal rapporto emerge inoltre il fatto che i progetti considerano la Macedonia un paese arretrato da modernizzare, a cui insegnare come riorganizzare il sistema sanitario, scolastico o produttivo. Non dimentichiamo che i paesi balcanici sono stati paesi caratterizzati dalla modernità industriale al pari di quelli occidentali e ne hanno condiviso lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, l’organizzazione fordista della produzione e l’identità degli individui caratterizzata dall’appartenenza di classe e dal proprio ruolo all’interno del sistema produttivo. Quindi dobbiamo cominciare a dire che nei Balcani non ci troviamo di fronte a paesi da modernizzare. I paesi del sud-est europeo condividono interamente l’immaginario sociale postmoderno dell’occidente del capitalismo avanzato. Questi paesi sono lo specchio delle società occidentali ed il luogo in cui abbiamo assistito ad un brusco processo di demodernizzazione (o ipermodernizzazione) associato ad una gigantesca crisi dello stato. Sono questi aspetti comuni anche alle società occidentali, seppure con forme e modi diversi.

Certamente in Macedonia vi sono gravi problemi sociali e politici che devono essere fatti risalire alla crisi del 1999, che ha provocato un forte contraccolpo sociale – a causa dell’afflusso di centinaia di migliaia di profughi – e un rimescolamento delle carte del gioco politico dopo otto anni di relativa stabilità, a causa dello sciagurato bombardamento della NATO, che ha solamente peggiorato il già precario quadro di instabilità dell’area balcanica.
È anche vero, però, che in Macedonia siamo di fronte al problema della stabilità e della convivenza nei Balcani. Non esiste un solo problema Macedonia o la sola questione albanese, siamo di fronte al problema della sicurezza nei Balcani che ha una dimensione regionale; in quanto regionale tale dimensione è soprattutto di carattere culturale. Come più volte Stefano Bianchini ci ha ricordato "non possiamo fare a meno di una visione di largo respiro, che modifichi il punto essenziale in base al quale sono i iniziati i conflitti che hanno portato alla disgregazione della Jugoslavia: la revisione e la costruzione di uno stato che tragga la sua legittimazione da un gruppo omogeneo etnico-culturale" . È chiaro infatti che in un contesto culturalmente misto la costruzione della sicurezza non si può fare costruendo fortezze e creando nuovi stati: "ogni gruppo può illudersi di chiudersi in se stesso, ma più si chiude, più diventa fattore di minaccia o viene percepito come minaccia dal vicino".
In Macedonia come in tutti i Balcani abbiamo allora bisogno di costruire una politica della sicurezza che si fondi sulla inclusione e sulla cooperazione regionale. Nel dire questo dobbiamo renderci conto che qui ci troviamo di fronte ad uno dei nodi delle società postmoderne, a est come e ovest: il problema della convivenza fra le differenze in società sempre più complesse e articolate o disarticolare, oltre le vecchie appartenenze di campo della modernità. Per dirla ancora con Bianchini:
"Per questo bisogna anche rendersi conto che le culture politiche sono trasversali. Non è vero che ci sia il nazionalismo buono occidentale e il nazionalismo cattivo balcanico, europeo-orientale. Non è vero che qua sia un campo protetto e dall’altra parte vi sia invece un campo che non riesce a trovare una soluzione al convivere. Basti pensare che un paese di grandi tradizioni democratiche come la Gran Bretagna non riesce ancora a trovare una soluzione a un problema come quello dell’Irlanda del Nord. Il problema dell’Irlanda del Nord non è sostanzialmente diverso dal problema delle relazioni tra serbi e croati, che sostanzialmente parlano la stessa lingua e che se hanno un elemento culturale diverso è la religione. Quindi i problemi che riguardano l’area balcanica sono problemi che ci riguardano; e le culture che si determinano nei Balcani, quelle democratiche, quelle antidemocratiche, quelle dei movimenti femminili, quelle dei movimenti della società civile, quelle razziste, autoritarie, sono culture che ritroviamo tranquillamente nelle nostre società. Sono magari i rapporti e le proporzioni, l’uso politico che ne viene fatto, che di volta in volta varia, ma esse sono trasversalmente presenti. Questo dunque vuol dire che dobbiamo abituarci a ragionare davvero in termini postcomunisti: non abbiamo più i campi, noi siamo tutti entro un unico contesto; che dialoga interagisce e subisce le reciproche influenze. E dunque è importante, anche quando discutiamo delle differenze, poiché questo è un problema che ci riguarda, come Europa occidentale, dal momento che le differenze esistono anche da noi ed esiste una forte intolleranza anche nelle nostre società contro le differenze, comprendere che la differenze non sono semplicemente qualcosa che ci divide un campo dall’altro, ma sono trasversali, passano attraverso gli individui ed i gruppi".
Questo è un punto fondamentale per riflettere sugli interventi che le ONG effettuano in Macedonia come nel resto dei Balcani. Bisogna che noi tutti capiamo che nella dimensione culturale della sicurezza nelle società complesse non c’è chi insegna e chi impara, bensì ci sono soggetti che cooperano, ossia operano assieme, per riflettere assieme sul problema della convivenza, cioè sui modi per attuare quelle politiche dell’inclusione e della convivenza che riguardano tutti, a est come a ovest.La dissoluzione della ex-Jugoslavia è la risposta a problemi molto moderni che agitano l’Europa a cavallo di questi due secoli. Innanzitutto nella ex-Jugoslavia è arrivata a drammatico compimento quella che ormai tutti chiamano la "crisi dello Stato", a causa di quella globalizzazione di cui tanto si parla. A ciò si aggiungano le politiche del Fondo Monetario Internazionale che anche nella Jugoslavia degli anni Ottanta hanno imposto privatizzazioni, drastici tagli allo stato sociale e alle politiche statali di sostegno all’economia e alle fasce deboli della popolazione. Sono questi problemi tutti moderni a cui le classi dirigenti ex-comuniste della Jugoslavia hanno risposto con il nazionalismo e la guerra. Ecco allora che dobbiamo riprendere il discorso della democrazia e dello stato nei Balcani, come in tutta Europa.
Si tratta di operare per l’integrazione politica di quelle terre contro il nazionalismo, per una grande contaminazione culturale reciproca che ci aiuti a ripensare tutti assieme al concetto di stato, la cui crisi drammatica sta alla base della guerra nella ex-Jugoslavia e sta minando anche i fondamenti del vivere civile nelle società dell’Europa occidentale. Dobbiamo incoraggiare il nostro e gli altri governi europei a definire strategie di sostegno alla democrazia attraverso l’integrazione politica e la contaminazione culturale, perché queste sono le nuove frontiere della pace.
È importante allora che, qualsiasi progetto si attui, da quelli di emergenza a quelli di sviluppo, si accrescano la forza e la consapevolezza della società civile macedone. Questo significa coinvolgere gli intellettuali nella riflessione sui progetti che riguardano lo stato sociale (i cosiddetti progetti di tipo psico-sociale) o lo sviluppo, per pensare ai diritti di cittadinanza universale ed alla riforma dei servizi in una democrazia compiuta; vuol dire rafforzare la consapevolezza degli insegnanti e degli studenti sui problemi della convivenza nei progetti che riguardano le scuole che sempre dovrebbero prevedere forme di scambio con altre scuole europee; far sì che le ONG macedoni, partner nei progetti sociali, diventino veramente soggetti radicati sul territorio, che operino per l’autonomia e il cambiamento sociale. Inoltre le ONG straniere, impegnate in più paesi balcanici con progetti simili, devono lavorare affinché i partner locali dei progetti si incontrino periodicamente per scambiarsi i risultati e le esperienze, creando così pezzi di rete di società civile a livello regionale; è fondamentale poi che le ONG europee coinvolgano sempre più parti delle proprie società civili perché si attui una vera e propria cooperazione decentrata fra realtà omologhe, che possa essere certamente pratica e di intervento, ma allo stesso tempo abbia in sé la dimensione culturale e di riflessione comune sui problemi della sicurezza e della convivenza ai tempi della globalizzazione, a est come a ovest.

L’accordo ratificato dal parlamento macedone probabilmente metterà fine agli scontri, ma mantiene aperta nel paese la sfida tutta culturale e sociale della convivenza e della sicurezza, e su questa la ONG italiane potranno dire la loro nel futuro prossimo, soprattutto se sapranno presentarsi unite e autorevoli nei confronti dei donatori istituzionali.
In conclusione credo che il rapporto dell’Osservatorio Balcani sia molto importante perché mette tutti noi che operiamo nelle ONG davanti alle proprie responsabilità passate e alle potenzialità future. Al sottoscritto è inoltre stato molto utile per tornare a riflettere sui punti che ho cercato di delineare sopra.

ICS-Roma, 11 settembre 2001

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