1991: inizia la disgregazione jugoslava e si creano nuovi stati nei Balcani. 1995, Accordi Dayton: si fermano le guerre e inizia la cosiddetta "ricostruzione". 1997, Operazione Alba: anche in Albania, dopo la crisi delle finanziarie e l’uscita di scena del vecchio governo, dovrebbe iniziare un nuovo corso istituzionale. Oggi, 2001, cosa esiste di Stato nei Balcani? E di conseguenza, che sviluppo economico si può immaginare?
Il semplice riferirsi ai dati statistici esistenti offre un’immagine assolutamente deformata del contesto economico del sud-est Europa. Questo sia per effetto dell’incidenza degli aiuti internazionali sull’andamento del PIL – indice che peraltro già di per sé induce ad antichi []i – sia perché tali statistiche molto spesso indicano una verità astratta. Valga per tutti l’esempio dei dati sull’occupazione, che ancora considerano i dipendenti dei grandi combinat statali in agonia già da prima delle guerre. Sfugge perciò ad un approccio superficiale la situazione di grave crisi fiscale in cui versano tutti gli stati dell’area balcanica.
Queste piccole entità nazionali, uscite da un decennio di devastanti conflitti, sono oggi in condizioni di vera e propria paralisi: mancano entrate tributarie stabili, perché non c’è lavoro regolare e l’economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate – molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali – o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È così che pensioni e stipendi pubblici, già di per sé esigui, si ricevono con grave ritardo o non vengono pagati affatto, com’è successo recentemente per gli insegnanti della Bosnia Erzegovina, portando alla chiusura delle scuole per due mesi. Anche gli ospedali riescono a gestire quasi solo le emergenze, i servizi pubblici sono al collasso, le istituzioni di assistenza sociale si trovano abbandonate a se stesse e alla disperata ricerca di qualche donatore.
Tutto ciò crea una fortissima frustrazione, specie in relazione alle aspettative di cambiamento positivo sorte con la fine delle guerre. Addirittura si è raggiunto il paradosso – purtroppo già visto nelle transizioni dell’est europeo – che alla fine dei regimi corrisponde un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita per le componenti sociali estranee ai business. Una situazione che si riverbera anche sulle amministrazioni locali, rendendo ancora più problematico il rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione.
È invece necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire all’assistenzialismo umanitario tanto quanto alle chimere degli investimenti occidentali di rapina. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Il problema è che da quest’altra parte dell’Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni ’90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi – di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d’area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell’economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione.
L’assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l’area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato così mano libera alle forme più perverse dell’economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d’armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre invece un’idea alta, che riempia il vuoto progettuale della diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche di molta parte del mondo non governativo. Quest’idea può essere l’Europa, ossia l’immagine di come si possono superare e sciogliere gli angusti spazi mono-nazionali in un progetto più ampio e non solo balcanico. Ma per garantire al modello istituzionale un futuro economico e sociale occorre avviare un novo itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Un itinerario che si incardini su due concetti di fondo: l’opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l’autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Sviluppo locale e autogoverno da non vedere come romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma come unica via d’uscita a quell’implosione della statualità di cui si è parlato sopra.
In particolare è necessario ripensare il modello di sviluppo economico di queste aree: quando si propone l’economia di mercato in realtà si continua a guardare al vecchio apparato produttivo pre-bellico. Ma è un modello non più riconvertibile, fortemente centralizzato e piramidale, malato di gigantismo, privo di qualsiasi sensibilità ambientale e modellato su un mercato, quello dell’allora Jugoslavia, che non esiste più.
Riproponendolo si rischia di imboccare una strada priva di prospettive, e funzionale solo all’investimento mordi e fuggi oppure al rilancio dei vecchi apparati di controllo delle grandi aziende di stato.
Le particolari ed inedite condizioni di transizione post comunista e post bellica nelle quali si trovano i paesi dell’area balcanica richiedono invece risposte altrettanto originali. Bisogna far leva sulle potenzialità materiali ed ambientali del territorio ed attivare le risorse umane, che pure esistono, data l’alta scolarità diffusa e per molti l’esperienza formativa all’estero. Si può invertire forse in questo modo il clima esistente di diffusa deresponsabilizzazione individuale e collettiva, principale retaggio culturale del passato. Per far ciò bisogna immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze locali, alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali, disegnando uno sviluppo integrato del territorio su cui far convergere le risorse residue e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa e dall’altro sul settore primario, con progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell’artigianato e dell’industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo. Al servizio di ciò va costruito un sistema di micro-finanza locale, che dia accesso al credito anche a chi non si è arricchito dai profitti di guerra.
Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto
di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Un altro sviluppo è dunque possibile. Richiede da un lato un contenitore ampio e partecipato, come dovrebbe essere un’Europa allargata fatta dai territori e dalle comunità anziché dai governi e dalle banche. E dall’altro un sistema economico che parta dal locale, e dal positivo che ancora vi si trova. E’ una sfida grande che ci riguarda, che riguarda l’insieme dell’Europa, la nostra e quella al di là del mare.
di Michele Nardelli