Ucraina: i giorni della settimana non si chiamano più come prima
Riprendiamo la testimonianza dal campo di un’operatrice umanitaria italiana che lavorava nell’est dell’Ucraina. È ancora attualmente su territorio ucraino. Per motivi di sicurezza non riportiamo il suo nome
In Ucraina i giorni della settimana non si chiamano più “lunedì’’ o “venerdì’”. I giorni si chiamano “primo”, “secondo”, “terzo giorno”. Il “primo giorno” è giovedì 24 febbraio, quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Oggi è il “settimo giorno”, sette giorni che sembrano molti di più. La piazza principale di Charkiv è distrutta. Il sito della tragedia nazista di Babyn Yar a Kyiv è stato bombardato. Cherson occupata. Mariupol è circondata su due fronti, nessuno ha elettricità o riscaldamento da giorni. A ovest, Lviv accoglie migliaia di rifugiati che arrivano da tutto il paese dopo giorni di viaggio. Il paese intero si nasconde nei rifugi e organizza la resistenza. È successo l’impensabile.
Solo otto giorni fa l’Ucraina era un paese diverso. Nelle ultime settimane a Kyiv c’erano un caldo e un sole inusuale per febbraio. I ristoranti erano proverbialmente pieni, le famiglie andavano a passeggio per i parchi e in giro per negozi, alcuni avevano ancora gli addobbi natalizi che stonavano con questa primavera anticipata. La concentrazione delle truppe lungo il confine a partire da dicembre scorso aveva a malapena attirato l’attenzione degli ucraini – del resto, l’escalation è un giochino che la Russia ripete ciclicamente dall’inizio del conflitto in Donbas, nel 2014. A una settimana dall’invasione, le decisioni delle ambasciate di invitare i propri cittadini ad abbandonare il paese avevano portato al massimo a una scrollata di spalle.
Le date dell’invasione annunciate dagli americani erano passate una dopo l’altra, con gli ucraini quasi divertiti dalle scommesse e dalla preoccupazione dell’Occidente per un’eventualità che sembrava impossibile. Che l’attacco da parte dei russi fosse una possibilità, però, gli ucraini lo sapevano bene, perché la guerra con la Russia esisteva già da otto anni. Ed è forse proprio questa una delle ragioni dietro al fatalismo che, da Kiev e dal Donbas, aveva contraddistinto la reazione della gente comune. Per i moltissimi sfollati di queste regioni, la tensione con la Russia riapriva una ferita ancora fresca e un trauma impossibile da dimenticare – l’aver dovuto lasciare tutto, inclusi amici e parenti rimasti al di là della linea di contatto. Per quelli nati e cresciuti a Kiev e Leopoli, il conflitto era invece qualcosa di così lontano da non sembrare plausibile.
Lentamente, però, parlando con conoscenti, colleghi e amici, dal convinto “vojna ne budet” (“la guerra non ci sarà”) ripetuto quasi come una preghiera, si era passati al “što-to budet” (“qualcosa ci sarà”). Eppure, l’invasione è riuscita a cogliere tutti di sorpresa. Il 24 febbraio ci siamo svegliati con video orribili di attacchi su Kyiv, Charkiv, Dnipro, Odesa… video che non sembravano reali. Almeno finché non ne abbiamo viste le conseguenze: la gente in fuga verso ovest, le famiglie in cerca del rifugio più vicino, i bancomat che smettono di funzionare, le sirene che risuonano. E per molti il suono delle bombe, delle granate, degli spari. Alcuni sono scappati, altri sono stati reclutati nell’esercito, altri sono morti. E la stessa sorte toccherà a molti di più.
Chi è fortunato è scappato, a ovest o in Polonia, Moldavia, Romania. Dopo giorni e giorni di viaggio pericoloso, in migliaia si sono messi in fila a piedi, in macchina, in autobus, verso l’Europa. Al confine, ho visto le famiglie separarsi: mogli e bambini attraverso il confine, i mariti obbligati a rimanere per servire nell’esercito. Molti lasciavano le macchine a metà strada: la benzina era finita, così come per molti l’acqua o il cibo. Giorni di attesa al freddo, gente stremata dalla stanchezza, dalla fame, dalla tristezza di aver lasciato tutto e tutti indietro.
Chi non è fortunato è rimasto e in questo momento si trova in un rifugio antiaereo a Kyiv, Charkiv, Severodonetsk. Le possibilità di andarsene si riducono di ora in ora, le file aumentano, l’esercito russo avanza lentamente. Nel frattempo i rifornimenti non arrivano, e si rimane senza cibo e senza medicine. Il ristorante elegante in cui andavo nella mia città nel Donbas adesso distribuisce il pane a 30 hryven (un euro) al chilo, un’ora al giorno.
Ma c’è un altro lato, quello che dà più speranza all’Ucraina e al mondo intero: quello della resistenza e della forza degli ucraini. Dai colleghi a Kyiv che nelle chat di lavoro si scambiano le informazioni su come fare le molotov, alle offerte di mutuo soccorso nelle pagine Instagram dei paesi del Donbas. Tutti soffrono ma nessuno si arrende. Nella prima guerra di questa portata nell’era dei social media, ci si fa coraggio condividendo video di civili che fermano i carri armati russi, dei militari dell’isola di Zmiinyi che dicono alla nave russa di “andarsene a fanculo”, del presidente Zelensky che in tuta militare ogni sera fa il resoconto dei successi dell’esercito. Si fanno annunci e si condivide quanto rimasto – medicine, latte in polvere e pannolini. Si gioisce a ogni nuova sanzione e a ogni multinazionale che smette di vendere i propri prodotti in Russia. Si prendono in giro i russi, tanto, su come abbiano paura di manifestare contro la guerra, su come l’esercito abbia razioni scadute nel 2015, su come la Russia stia venendo isolata dal mondo intero. Nel bene o nel male, l’eventualità di una resa non è contemplata, qualunque sia il costo. Putin, forte della sua potenza militare, riuscirà forse a vincere la guerra e occupare l’Ucraina, ma ha già perso gli ucraini e il resto del mondo. Questa è la scelta che può fare solo un dittatore pazzo e isolato di un paese che si erge a superpotenza ma è ormai povero di tutto, tranne che di forza militare.