Reportage di guerra e di emozioni: il tour di tre poete ucraine in Italia
Al MAXXI di Roma abbiamo incontrato Oksana Stomina, Iya Kiva e Natalia Belczenko. La poesia, la guerra, la testimonianza
Anche nello “spazio sicuro” del MAXXI di Roma, anche nel contesto tranquillo di una serata di letture di poesie, non sembra esserci scampo dalla guerra. È quanto esprimono, almeno a un primo ascolto, i versi di Oksana Stomina, Iya Kiva e Natalia Belczenko: tre autrici ucraine che hanno appena condotto un “tour ” in sei città italiane dal nome Piantare un fiore in una terra bruciata (Abano Terme, Bologna, Verona, Trento e Milano prima della capitale), organizzato dalla scrittrice, traduttrice e curatrice del blog “La macchina sognante” Pina Piccolo e arricchito nella tappa di giovedì scorso dalla presenza della poeta Elina Sventsitskaya, attualmente profuga ad Anzio. Talvolta, infatti, la guerra è uguale all’acqua: esce «calda o fredda» dal rubinetto, come recita Kiva. Altre volte, come nella lirica di Belczenko, viene vista al pari di una metafisica «punizione di Dio». Ma, in generale, sembra essere un orizzonte in cui le esistenze vengono risucchiate e che la parola poetica non può far altro che testimoniare.
Introdotte dalle immagini del fotogiornalista Niccolò Celesti, che raccontano i primissimi e cruenti momenti del conflitto fra Bucha, Irpin e Hostomel e infine il fronte nei dintorni di Kherson, le scrittrici hanno commentato e letto le proprie poesie – lette in italiano da Isabella Mangani e Marina Sorina – per poi aprire una discussione assieme al pubblico sul senso della scrittura in un contesto di incertezza come quello attuale, sul ruolo della solidarietà internazionale nei confronti della popolazione ucraina, sui (non) rapporti coi propri omologhi russi. Si tratta di personalità diverse – Stomina proveniente da Mariupol e autrice di libri per l’infanzia, Belczenko che è stata anche traduttrice di Wisława Szymborska, Kiva di origine ebraiche, cresciuta a Donetsk e scappata già dal conflitto nel Donbass nel 2014 – che si trovano però a condividere una “comune missione”: quella di far conoscere la cultura ucraina all’estero e a fare ulteriore luce su quanto sta accadendo nel loro paese. Le abbiamo intervistate, per indagare con loro quale possa essere il ruolo della poesia in un momento tanto delicato e per capire come vedono il presente e il futuro dell’Ucraina e della sua cultura.
Come sono andate le serate del tour? Potete fare un bilancio?
Belczenko: Prima di iniziare il tour avevo qualche preoccupazione, perché non ero sicura che la gente potesse capire noi e la nostra poesia, la nostra situazione. Invece, nella stragrande maggioranza dei casi, abbiamo ricevuto una calda accoglienza: abbiamo incontrato sia persone che avevano già una conoscenza approfondita del nostro contesto di provenienza e di quanto sta accadendo ora in Ucraina sia persone che avevano una sensibilità e un’umanità tali per cui, pur non sapendo ciò che sta succedendo, capivano da che parte sta il bene e da che parte sta il male.
Questo tour mi ha anche fatto capire di nuovo che la poesia è uno strumento di comunicazione che funziona, in generale. Lo dico, perché il mio stile di scrittura non è "reportagistico", concreto, ma abbastanza metaforico. Ciononostante le persone recepivano di buon grado quanto ho recitato, capivano il messaggio che stava dietro le parole e il linguaggio figurato.
Stomina: Per me cominciare a superare l’indifferenza è il primo passo: viaggiando da una città all’altra qua in Italia ho potuto incontrare molte persone che non sono indifferenti e che considero un punto di appoggio per costruire un dialogo duraturo. In ogni città c’è sempre stato qualcuno con cui provare a costruire un rapporto.
Kiva: Il nostro tour era molto importante per supplire al vuoto riguardante la letteratura ucraina che, in Italia, è tradotta poco oppure male: non c’è la possibilità per un lettore o una lettrice italiani di entrare in una libreria e capire cosa abbiano da dire scrittori e scrittrici ucraine. Ecco, il tour colma questa mancanza.
Un’altra cosa importante da far notare è che noi tre siamo figure molto diverse fra loro: sia come carattere che come storia personale che per quanto riguarda le nostre opere. Quindi penso che – grazie anche alla cura di chi ha organizzato l’iniziativa – il pubblico italiano ha potuto vedere tre diversi approcci alla poesia e, in tal modo, andare oltre un immaginario che fino a ora era troppo statico e omogeneo. Grazie alla nostra presenza in Italia penso che la poesia ucraina acquisisca un volto, una personalità concreta.
A proposito di questo: in questo momento l’identità del vostro paese è in trasformazione, per via della guerra in corso. Pensate che la vostra poesia sia anche un mezzo per rimettere in discussione una tale identità, può giocare un ruolo nelle dinamiche in atto?
Stomina: Da una parte credo che il nostro compito sia quello di mostrare un’identità che esiste già da anni ma che non era così conosciuta e visibile in Italia o in altri paesi. Soprattutto ci interessa difenderla dalle contaminazione e dai travisamenti.
Kiva: Penso che siano importanti due cose: rendere presente e visibile e verbalizzare l’esperienza esistenziale. Noi rendiamo concreta la nostra identità di scrittrici e persone nel momento in cui scriviamo e per me la scrittura, in questo momento, è in tutto e per tutto un’azione materiale: non si tratta cioè di un’attività meramente intellettuale o cervellotica, ma la sento come l’espressione quasi fisica del nostro essere.
Belczenko: In atto c’è anche una transizione linguistica dal russo all’ucraino, che ci sentiamo a dover elaborare e "fissare" come “idioma madre”. Si tratta di una dinamica che avviene già e soprattutto a livello quotidiano, ma che attraverso l’esercizio poetico viene rafforzato.
Stomina: Io so che dall’esterno, per molte persone in Europa era molto difficile distinguere fra Russia e Ucraina: due paesi e due contesti visti dentro un unico continuum spazio-temporale. Spero invece che finalmente, sia da quando è scoppiato il conflitto del 2014 e tanto più da quando è iniziata l’invasione su larga scala, questa differenza sia diventata palese e chiara per tutti. Ecco che uno dei compiti che vedo per la poesia e la cultura in questo momento sia appunto quello spiegare e rendere evidente in cosa consista questa differenza nonché quello di riempire quel "vuoto" che l’Ucraina rappresentava fino a ieri agli occhi di chi la considerava una semplice costola della Russia. A cominciare dal fatto che la storia dei due paesi è diversa e che sono diversi i valori e diverse le aspirazioni della popolazione. Non abbiamo ambizioni imperiali di conquistare altri paesi, per esempio.
Ecco, in generale quale è o quale dovrebbe essere il compito della cultura nella società ucraina?
Kiva: Al momento è ovviamente difficile dire in maniera precisa quale debba essere il ruolo della cultura nel nostro paese. Tutti gli intellettuali e le persone che lavorano in questo campo che sono rimaste in Ucraina sono in pericolo come il resto della cittadinanza, mentre chi è espatriato si trova ad avere un campo d’azione limitato. Ma quello che desideriamo, quello a cui aspiriamo, è instaurare un dialogo alla pari con gli altri paesi e con le altre culture di modo che l’Ucraina non venga sempre vista in relazione alla Russia (che sia questa relazione di comparazione, di contrasto, ecc.). No! Vorremmo avere un dialogo paritario con la poesia e la cultura francesi, italiane, spagnole, ecc. in quanto autrici ucraine.
Stomina: Non dobbiamo dimenticare che nel corso della storia le persone di cultura in Ucraina sono state sistematicamente perseguitate da parte dei russi. Basti pensare al nostro poeta nazionale Taras Shevechenko, messo in galera solo per essere un patriota, oppure alle repressioni del cosiddetto "Rinascimento fucilato".
Belczenko: Quando parliamo di dialogo diretto fra le culture, si potrebbe citare il caso della Polonia per esempio. Anche prima della guerra c’era un interesse reciproco, che in alcuni casi ha permesso a noi stessi ucraini di riscoprire autori di cui avevamo perso memoria proprio per via delle repressioni sovietiche.
Kiva: Inoltre, se l’Ucraina dovesse vincere la guerra e dunque sopravvivere – anche per quanto riguarda la cultura – non dovremo più avere a che fare con persone fucilate o messe in prigione, che scrivono magari bellissimi versi mentre sono in carcere. Insomma, non dovremo più avere a che fare con il trauma ogni volta che ci occupiamo di poesia e di cultura, ma al contrario potremo godere delle sviluppo culturale di una società che non è più minacciata da un pericolo esterno incombente.
Nelle vostre poesie parlate chiaramente dell’esperienza della guerra, che pervade il vostro quotidiano. Scrivere di questo in versi modifica il rapporto con quella esperienza, con i traumi che essa comporta?
Kiva: Il fatto è che la nostra realtà quotidiana cambia con una rapidità tale che, se anche fossimo campioni di corsa olimpionici, non le potremmo stare dietro. Il momento della scrittura invece ci obbliga a frenare e a fissare alcuni momenti, facendo sì che io possa coincidere con quello che dico, che possa aggrapparmi anche se solo per un’istante alla realtà. Poi ricomincia la corsa e il disorientamento. Ma quando si verifica questo "incollamento" fra il mio sentire e quello che metto su carta nasce un diario e una testimonianza e quell’istante rimarrà nel tempo.
Stomina: Come ho avuto modo di dire anche durante la serata, considero tutto quello che scrivo ora e che riguarda la guerra come un "reportage", come un resoconto fedele ai fatti. Si tratta di un’attività molto importante: vorrei che qualsiasi lettore o lettrice, di qualsiasi età o estrazione sociale, con qualsiasi percorso biografico, possa comprendere distintamente quello che vedo e di cui sono testimone. Voglio che capisca con chiarezza il mio stato d’animo, quello che è successo. Si tratta del desiderio di fissare una volta per tutte gli avvenimenti e le storie nella loro realtà concreta, proprio perché so cos’è la propaganda e la falsificazione e so quanto queste due cose sono presenti sia nel mio passato di persona che è cresciuta sotto l’Unione Sovietica, sia nel presente.
Belczenko: Collegandomi a quanto dice Oksana rispetto al "reportage", posso dire che c’è uno sviluppo molto veloce delle mie emozioni, che passano da una fase diversa all’altra. Quindi per me scrivere una poesia è fotografare un determinato momento emotivo.
Stomina: Scrivere però non calma il mio dolore: ogni volta che leggo una mia poesia a voce alta provo lo stesso dolore che provavo quando l’ho scritta.
Kiva: A volte si dice che la poesia sia terapeutica, ma non sono per nulla d’accordo. Al contrario, è come avere tante cicatrici sul corpo che si riaprono ogni volta che le si osserva.
Stomina: Allo stesso tempo, leggere poesie degli altri che parlano di eventi o stati d’animo simili ai tuoi ti aiuta a capire che non sei sola.
Belczenko: Per esempio, oggi ho riletto una poesia che avevo dedicato anni fa alla dipartita di mia madre. Ogni volta che la rileggevo, piangevo. Ora invece sono riuscita a rielaborare quell’emozione, non perché conti meno di allora, ma perché si presenta alla mia coscienza in maniera più "ovattata" di prima. Quindi la poesia è anche questo: una presa di distanza dai propri sentimenti, pur nella conservazione di un ricordo vivido di essi.