Olesja Jaremčuk: Mosaico Ucraina

Mosaico Ucraina – edito da Bottega Errante – è una raccolta di reportage che esplora le storie di persone appartenenti a quattordici minoranze etniche che vivono entro i confini dell’attuale Ucraina. Un’intervista

30/12/2022, Claudia Bettiol -

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Illustrazione di Bottega Errante

(Questo pezzo è realizzato in collaborazione con Meridiano 13 )

Olesja Jaremčuk è una giovane giornalista ucraina che si occupa di frontiere, di identità culturali e nazionali. È stata direttrice editoriale della casa editrice Čoven di Leopoli – specializzata in reportage e letteratura documentaria – e ha contribuito come giornalista a varie pubblicazioni, sia in Ucraina che all’estero, per diverse testate e riviste online. Mosaico Ucraina – edito da Bottega Errante – è una raccolta di reportage che esplora le storie di persone appartenenti a quattordici minoranze etniche che vivono entro i confini dell’attuale Ucraina: cechi, slovacchi, turchi mescheti, svedesi, rumeni, ungheresi, rom, ebrei, liptak, gagauzi, tedeschi, valacchi, polacchi, tatari di Crimea e armeni. È la cronaca della miriade di migrazioni volontarie e forzate che hanno attraversato l’Ucraina per secoli, e che l’hanno resa il paese dalle molteplici sfaccettature che è oggi. Allo stesso tempo, è un racconto commovente e lucido delle diversità che sono sopravvissute (o meno) al rullo compressore sovietico dell’unificazione linguistica, culturale e religiosa.

Olesja – che in seguito agli eventi del 24 febbraio ha lasciato la sua città natale di Leopoli e si è trasferita con la famiglia in Germania – è venuta in Italia per presentare il suo libro lo scorso autunno alla XX edizione del Pisa Book Festival e al Festival del Coraggio di Cervignano del Friuli (UD), organizzato dalla casa editrice friulana Bottega Errante. È in quest’ultima occasione che l’abbiamo intervistata.

Olesja, come sei stata accolta in Italia? Come ti trovi qui? 

Vorrei innanzitutto ringraziarti per aver dato una voce italiana a questo volume [Claudia Bettiol, autrice dell’intervista, è anche traduttrice in italiano di Mosaico Ucraina, ndr]. Ritengo particolarmente prezioso il momento in cui un traduttore si immerge in un libro cercando il modo migliore per trasmettere i vari codici culturali nella propria lingua madre. Per quanto riguarda l’Italia, direi che sono rimasta positivamente colpita dal livello di organizzazione e professionalità che ho trovato. Ripensando alla presentazione del libro in occasione del Pisa Book Festival, sono rimasta molto sorpresa dal grande interesse dimostrato all’Ucraina e agli ucraini. Almeno questo è ciò che ho notato nel pubblico che sedeva di fronte a me durante la presentazione. Sono molto contenta e penso che questo dialogo sia di particolare importanza data la mancanza di informazione e conoscenza generale. Nei prossimi anni credo che dovremmo stabilire e mantenere questo dialogo tra Italia e Ucraina, conoscerci di più. 

Sulle mie impressioni personali, invece, posso dire che ero già stata in Italia, ma solo per pochissimo tempo: Venezia, Milano, ora non ricordo bene, nella zona di Napoli. Ma sono solo frammenti. Solo ora sto scoprendo un vivo interesse per l’Italia, un paese incantevole, con una bellissima lingua, cucina, natura, dove ci sono sia le montagne che il mare, una cosa che attira naturalmente. Mi piacerebbe approfondirne la storia, magari non la storia in sé, ma quella della diversità regionale: ho notato che ogni regione italiana è molto autentica, ha codici culturali diversi e le proprie peculiarità. Traccio quindi un parallelo con quello che ho scritto nel mio libro, perché l’Italia è molto varia e “colorata”. E vorrei saperne di più.

L’Italia in un certo senso assomiglia all’Ucraina. L’Ucraina anche è un paese multiculturale ed è ciò che racconti nel tuo libro, dove ci parli delle minoranze etniche. Un tema molto importante, soprattutto oggi: perché? Perché le minoranze sono così importanti?

Ho deciso di approfondire questo argomento prima di tutto perché dopo l’Euromaidan, a cui ho partecipato io stessa, mi sembrava che dovessimo ripensare il nostro paese e provare a capire meglio chi siamo. Un giorno mi ha contattata il caporedattore della rivista The Ukrainians , Taras Prokopyšyn, per propormi di scrivere per loro. Ci ho riflettuto e mi è venuto in mente questo tema. Volevo approfondire le storie dei vari popoli che compongono il paese perché tutto ciò si collega anche alla mia storia personale. Un esperimento interessante perché in Ucraina, anche se non posso dire che non siano state pubblicate ricerche sul tema, il materiale scarseggia. Inoltre, il problema del giornalismo è che si parla delle minoranze solo quando c’è un conflitto in corso, ma si parla poco della loro vita in tempi di pace.

Dal 2016 ho viaggiato in diverse regioni dell’Ucraina. Il primo viaggio l’ho fatto con la mia collega Marta Barnyč documentando le storie di armeni, tedeschi e valacchi. Mi è piaciuto tantissimo il processo di lavoro: quando arrivi in un piccolo paesino, entri in contatto con la gente, perlopiù molto ospitale, pronta ad aprirti le porte di casa e a raccontarti la loro storia. Ero così presa che non potevo fermarmi. Per tre anni, dal 2016 al 2018, ho viaggiato in diverse regioni, tra cui anche il Donbas. Per esempio, ho scritto degli svedesi della regione di Cherson, dei polacchi della regione di Žytomyr, molto della Transcarpazia, degli ungheresi, dei tedeschi, dei valacchi. Mi sono recata spesso nella regione di Odessa per scrivere del popolo gagauzo, così come degli albanesi e dei bulgari. Alcune storie non fanno parte di questo libro, ma forse un giorno verranno pubblicate. Per me è stata un’esperienza molto interessante, la scoperta in primo luogo di me stessa. Sono rimasta positivamente colpita dall’interesse sincero della società ucraina, è la cosa che mi ha spinta di più a continuare questo lavoro. 

Come è nato il titolo del libro? In italiano è Mosaico Ucraina. Mosaico mi sembra una parola bellissima per descrivere le minoranze. Però, il nome originale ucraino è "I nostri altri", come mai questo nome? 

Abbiamo concepito questo titolo insieme alla mia collega Marta Barnyč, compagna dei primi viaggi. Pensavamo allora di parlare degli “altri”, ma non gli “altri” in senso negativo, non “estranei”, ma gente che pur essendo di religione, lingua o identità culturale diversa, è “nostra”, fa parte della nostra società. E volevo dimostrare a queste persone che siamo una cosa sola, che vogliamo saperne di più sui nostri gagauzi, i nostri tedeschi, i nostri polacchi ed ebrei, ecc. A volte mi dicono che etichetto questa gente come “altri”, come degli estranei. Ma per me loro, sì, sono altri ma non estranei. Nell’aggettivo “altro” non c’è niente di negativo.

Come vivono ora questi “altri” popoli in Ucraina? Nel libro si parla anche di guerra. La realtà di oggi è difficile, eppure è importante parlare della situazione attuale. Secondo te, come vivono le minoranze in Ucraina adesso? Sei per caso in contatto con loro? 

Le mie storie sono state scritte tra il 2016 e il 2018, mentre documentavo la vita  di questi popoli in tempi di pace. I protagonisti mi hanno raccontato la storia degli insediamenti, di come sono arrivati in Ucraina e di come, a volte, fossero popolazioni indigene, da sempre presenti in quei territori. Mi hanno fatto provare la loro cucina nazionale intonando canti tradizionali. Sono entrata in contatto con un’altra cultura e con la vita quotidiana di queste minoranze nelle diverse regioni dell’Ucraina. La cosa migliore è stata raccontare la storia di un popolo tramite quella di una persona o di una famiglia. Non sempre ci sono riuscita, a volte i miei testi risultano molto frammentari, altri dimostrano una certa continuità. 

Una piacevole scoperta è che ognuno dei popoli di cui ho scritto aveva e ha piena libertà in termini di lingua e religione. Siamo stati ospiti dai tatari di Crimea che frequentavano la moschea, dagli ungheresi che parlavano più ungherese che ucraino, e questo era normale. Ho scritto dei rumeni che vivono vicino nel distretto di Herca, dove tutte le scritte sono bilingui, in rumeno e ucraino. E non è sorto nessun conflitto. 

Naturalmente, dovrebbero esserci più iniziative per il supporto delle diaspore. E lo sottolineerò sempre. A mio avviso, quello che manca alle nostre minoranze – o meglio, comunità nazionali (perché di recente abbiamo discusso sull’uso del termine minoranze) – quello che manca è un sostegno finanziario. Cosa fanno altri paesi, per esempio la Turchia o la Grecia? La Grecia sostiene i greci di Mariupol’, la Turchia i turchi mescheti. Anche l’Ucraina dovrebbe sostenere questi popoli per aiutarli ad affrontare le sfide esistenti. Ma è un tema che riguarda l’Ucraina in senso più ampio: se il livello economico del paese fosse più alto, anche le minoranze avrebbero meno problemi. 

Una seconda riflessione riguarda come è cambiata la vita delle minoranze dall’inizio della guerra totale. Come dicevi tu, nel libro ci sono storie di guerra perché la guerra è iniziata molto prima e tanti popoli vivevano vicino alla linea del fronte, e questa vita era particolare. La storia di tre minoranze è eloquente per me adesso. La prima è quella dei greci di Mariupol’. Negli anni Duemila in questa zona della regione di Donec’k circa 75mila persone si consideravano greci. Esistono due gruppi diversi – urum e rumei. Parlano greco, hanno una loro cultura, è materiale prezioso ed è stata un’esperienza molto significativa per me. E sono molto dispiaciuta. Anzi, non è che sono dispiaciuta, sono le parole sbagliate. Non riesco a trovare le parole giuste per descrivere le mie emozioni, per spiegare quanto fa male, quanto è orribile che quei greci che sono sopravvissuti siano dovuti scappare dalle proprie case. 

Proprio ciò che è accaduto alle protagoniste di un altro dei miei reportage, non incluso in questo libro, che hanno trascorso tre settimane nel rifugio anti bombe. Per fortuna sono riuscite a scappare, ma ogni giorno, ogni minuto mi chiedevo se fossero ancora vive dato che non avevo notizie. E pensavo a come il governo sovietico aveva represso i greci con “l’operazione greca” ancora nel 1937 perché li consideravano nemici del popolo sovietico: nello stesso modo il popolo greco sta soffrendo a causa dell’aggressione russa di oggi, le biblioteche greche sono andate distrutte. La stessa cosa accade con i turchi mescheti della regione di Donec’k, un popolo che ha dovuto emigrare diverse volte. Prima dalla Meschezia georgiana in Uzbekistan, poi dall’Uzbekistan in Ucraina, e tutto questo nell’arco di una generazione. Ora sono costretti a scappare di nuovo. 

Olesja Jaremčuk in dialogo con Claudia Bettiol – Bottega Errante

Ho parlato diverse volte con il leader della comunità turco-mescheta, Jasim Iskondarov, mi chiamava spesso. L’ultima volta l’ho sentito in aprile e mi ha detto che purtroppo avrebbero dovuto andarsene. Nella regione di Cherson, dove vivono gli svedesi, c’è una storia esemplificativa del villaggio di Zmiivka. Il sindaco del villaggio, da cui ero ospite mentre facevo il reportage, è stato catturato. È stato chiamato “nazista” perché parlava ucraino, è stato torturato e ha patito fame e freddo. Fortunatamente è stato liberato, ma ha problemi seri di salute. Sono queste le storie che sento, ma ce ne sono tante altre, semplicemente non ho abbastanza informazioni o non ho la possibilità di contattare questa gente. Non oso immaginare cosa stia succedendo ora nei territori occupati. Ripeto, dobbiamo fare di tutto per salvare questa gente. Non importa la nazionalità, dobbiamo salvare questa gente, leggiamo ogni giorno notizie simili… Per esempio oggi ho letto che nel villaggio liberato di Lyman hanno trovato una fossa comune di civili, tra cui bambini nati nel 2019, 2021… dei neonati. È dura, ed è inaccettabile. Posso solo fare appello alla comunità mondiale e alle persone affinché si faccia qualcosa per fermare questo incubo. 

E qual è il loro desiderio sull’integrità dell’Ucraina? Si considerano ucraini? 

È una domanda che ho sempre posto ai miei protagonisti: “Come ti identifichi?”. Mi rispondevano sempre così: “Sono ucraino ma di origine gagauza, sono ucraino ma di origine tedesca”. Possiamo parlare qui di formazione della nazione politica, di uno Stato politico che unisce diversi popoli. E che persone di nazionalità diverse possono parlare sia l’ucraino che il russo. Credo che ora la questione della lingua si sia aggravata e la quantità di gente che parla ucraino stia aumentando perché non vuole parlare la lingua dell’aggressore. Allo stesso tempo ritengo importante preservare queste piccole identità nazionali e prendersi cura della lingua gagauza, turco-mescheta, svedese, svedese antica ecc. Mi hanno sempre detto che si sentono ucraini, cittadini ucraini ma di altra origine. Mi sembra importante sottolineare il fatto che ora tante nazionalità diverse stanno combattendo nelle forze armate dell’Ucraina, come i tatari di Crimea, i georgiani. Il protagonista della storia sugli slovacchi presente nel libro, Volodymyr Mychaľčyn, che ha costruito il paesino dove un tempo abitavano cechi e slovacchi, ora è nelle forze armate ucraine. Ciò dimostra che diverse nazionalità combattono per un’Ucraina unita. 

Nel libro non hai parlato del popolo russo che possiamo considerare una minoranza, una grande minoranza, dell’Ucraina. Qual è il futuro del popolo russo, della cultura russa in Ucraina? 

Prima della guerra avevo in mente di scrivere dei lipovani che vivono nella regione di Odessa, vecchi credenti di cultura russa. Purtroppo, però, non sono riuscita a occuparmene perché è nata la mia bambina e sono andata in maternità, durata più di quello che pensassi. Mi dispiace di non averne avuto il tempo. L’inizio di questa guerra mi sembra che stia cambiando l’identità della gente che vive in Ucraina. Conosco molte persone di origine russa, che hanno genitori in Russia e che prima parlavano russo. Ora si rifiutano di parlare russo, né sentono di appartenere a questo paese. A causa di quello che sta facendo la Russia, la stanno allontanando. 

Parlando della cultura e della letteratura russe, quello che ha fatto Putin è un nonsense perché in realtà, fino al 24 febbraio, credo che una parte della popolazione fosse molto fedele alla Russia e anche alla lingua russa; avevamo monumenti dedicati a Caterina II, a Nicola I. Nelle biblioteche, nei programmi scolastici si leggevano opere di Puškin, ecc. Una buona parte della popolazione era abbastanza fedele alla Russia, ma questa aggressione ha cambiato l’atteggiamento di molti a tal punto da mostrare il “mondo russo”, che è stupro, morte e omicidio di civili. Mi sembra che la gente abbia visto com’è e ora semplicemente lo rifiuta. E, a dire il vero, su questo si potranno scrivere tanti libri a guerra finita. Raccontare di come questa identità sia cambiata, di come è cambiato l’atteggiamento nei confronti della Russia della gente che aveva un legame con questa cultura. 

Ad ogni modo, quando mi si chiede della cultura russa, con tutto il rispetto, devo dire che secondo me ora non è il momento migliore per parlarne. Dopo la guerra ce ne occuperemo, parleremo di Puškin, di Dostojevskij ecc. Sono più preoccupata per la cultura ucraina e le culture di tutti gli altri popoli che la compongono perché, come dicevo prima, nei territori occupati vengono distrutte le biblioteche, vengono bruciati i libri ucraini, i professori di lingua ucraina devono scappare perché viene vietato loro di insegnare l’ucraino. Questo mi preoccupa, la questione della cultura russa la affronteremo poi. Ci sarà tempo dopo. Ed è anche importante capire la posizione dei portatori della cultura russa: avete visto centinaia di dimostrazioni contro la guerra dove artisti e letterati russi manifestavano contro la guerra per difendere l’Ucraina? Credo di no. Gli intellettuali russi non hanno preso una posizione precisa, e nemmeno l’opposizione. E questo mi fa pensare: perché devo interessarmi a una cultura che porta con sé delle idee imperialiste e scioviniste? Purtroppo, al momento è così. 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

A dire il vero, avrei voluto scrivere la seconda parte del libro sulle minoranze, sui diversi popoli in Ucraina. Ma non posso sapere adesso quale sarà la composizione nazionale dopo la fine della guerra, chi rimarrà, chi lascerà il paese, chi sopravvivrà, chi morirà. È una domanda complicata, ma spero di avere l’opportunità di continuare il mio progetto. Ho ripreso il tema della deportazione perché nel mio libro è un filo conduttore. In diversi reportage ho parlato delle deportazioni, per esempio di come il governo sovietico ha deportato i polacchi in Kazakhstan, della deportazione dei tatari di Crimea nel 1944. Non parlo di questo nel libro, ma anche mia nonna è stata deportata in Siberia ed è riuscita a ritornare. Questo tema, molto personale, mi fa soffrire.

Negli ultimi tempi ho iniziato a intervistare le persone che sono state deportate con la forza in Russia dai territori occupati, e che hanno vissuto in questi “campi di filtraggio”, rimasti senza soldi e senza risorse. La cosa che mi è più difficile capire è che queste storie sulla Seconda guerra mondiale e quelle che sento oggi, purtroppo, sono molto simili. Non mi entra in testa. Le storie sui metodi staliniani, sulla crudeltà, sulla violenza. È dura, non posso accettare il fatto che nel Ventunesimo secolo si ripeta tutto questo. Quando si scoprono camere di tortura, dove le persone sono state torturate, mutilate: come è possibile? Che livello può raggiungere questa crudeltà, questa violenza, questo odio per l’Ucraina? È assurdo, e non ho idea di come potremmo continuare a vivere e scrivere dopo quello che è successo. Come scrivere dopo Auschwitz? Come scrivere dopo Buča, Izjum e ora Lyman? Dopo tutte queste morti insensate e lo sterminio di un popolo, come possiamo vivere dopo questo? Non lo so.

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