Lo sguardo levantino sul Bosforo
Lo storico cinematografico Giovanni Scognamillo, "levantino" di Turchia di origine italiana, racconta la sua vita e la sua città, Istanbul, con l’occhio attento e disincantato di un “cosmopolita per forza”. Nostra intervista
Seduto su una poltrona della sua casa di Cihangir a due passi dal Bosforo, Giovanni Scognamillo racconta la sua vita selezionando, lentamente, con cura, le parole, come si trattasse di tessere di un complesso mosaico. Ricordi nitidi, avvolti dal fumo delle sigarette Samsun che accende una dopo l’altra.
Scognamillo, tra i più importanti critici cinematografici in Turchia, ha raccontato a Osservatorio Balcani e Caucaso la sua vita intrecciata indissolubilmente con le vicende della sua città Istanbul raccontate con l’occhio attento di un “cosmopolita per forza”.
Prima di tutto parliamo della sua famiglia, quando siete arrivati ad Istanbul?
Mio nonno è arrivato da Napoli verso metà Ottocento, era di mestiere cuoco, ma qui ha dovuto fare il manovale, poi ha trovato impiego prima presso le scuole dei frati francesi e poi all’Ambasciata Austriaca, si è sposato con una napoletana della famiglia Sciacca e ha avuto due figli, mio padre e mio zio. I genitori di mia madre erano originari dell’isola greca di Tinos, si chiamavano Filippucci e Della Tolma, come si deduce facilmente dai loro nomi questi sudditi greci erano di origine italiana, erano genovesi che avevano poi preso la nazionalità greca.
Lei invece è cresciuto qui a Istanbul…
Sì, sono nato nella clinica italiana del quartiere di Şişli e sono cresciuto in una vecchia casa nella zona di Asmalı Mescit (vicino alla Torre di Galata, Ndr). Era l’epoca d’oro di quando Beyoğlu portava ancora le tracce dell’antica Pera. Ho frequentato le scuole italiane, prima le medie Giuseppe Garibaldi, poi il Liceo Classico, ho studiato latino, filosofia, tre anni di Kant, “Critica alla Ragion Pura”, ben inteso Dante Alighieri, l’Ariosto, Manzoni e le poesie di Benito Mussolini, che erano parecchio brutte, volevo studiare all’università psichiatria, ma non ho potuto farlo per ragioni economiche.
E quindi ha cercato un lavoro…
Ho lavorato, come libraio, arredatore, banchiere. Fino a quando sono approdato al cinema. Mio zio mi ha chiesto di essere suo socio in un’azienda di distribuzione cinematografica, ma l’avvento della televisione ci ha spiazzati e ho quindi deciso di continuare solo col lavoro giornalistico, avevo iniziato a scrivere nel 1961 per il quotidiano di sinistra Akşam. Per qualche anno ho alternato il mio lavoro di critico cinematografico e quello di scrittore e di direttore estero di un’agenzia di produzione cinematografica, fino all’87 quando una paralisi mi ha costretto alla pensione, l’unica cosa possibile da fare era continuare a scrivere, ed è quello che ho fatto.
Una vita vissuta nella piccola Europa di Istanbul, Beyoğlu, che significato ha per lei questo quartiere, come è cambiato nel tempo, ha perso il suo antico splendore?
Io non sono un nostalgico, il cambiamento di Beyoglu e in generale di Istanbul non è un problema che riguarda solo la Turchia, ma tutte le grandi metropoli europee. Per me Beyoğlu è sempre stata una specie di no man’s land, un quartiere europeo collocato in una città non direi orientale, ma non esattamente europea, la porta dalla quale passavano gli elementi modernizzatori provenienti dall’occidente, come il cinema, il teatro, le biciclette, i grammofoni, poi il quartiere è cambiato e ora del vecchio Pera è rimasto solo il ricordo.
Quand’è che il delicato equilibrio che faceva di Beyoğlu un mosaico pluriculturale si è rotto?
Alla fine della Seconda guerra mondiale avevamo già il sentore che quell’era stava giungendo al termine, ma gli avvenimenti del 6 e 7 settembre 1955 hanno dato il colpo di grazia al clima di convivenza che si respirava a Beyoğlu.
Cosa è successo in quei giorni?
Un macello. Erano i tempi del conflitto a Cipro, il governo turco, con a capo Menderes e Celal Bayar, voleva dimostrare che tutto il popolo turco stava dalla parte dei ciprioti turchi, quindi è stato organizzato un piano per dare un segnale in questo senso. Il 6 settembre ’55 dovevano essere presi mira tutti i simboli greci di Beyoğlu, i negozi, le chiese, i cimiteri. E’ successo un pandemonio, c’erano nazionalisti sui camion che attendevano alle porte di Istanbul un segnale, quando sono entrati nel quartiere hanno cominciato a distruggere tutto. Noi, che vivevamo vicino a via Meşrutiyet davanti al Grand Hotel del Londres, l’abbiamo scampata perché avevamo appeso la bandiera turca fuori dalla finestra e c’era un venditore di scarpe con tanto di barba lunga e takke in testa che è rimasto fino alla mattina davanti alla nostra porta dicendo, “sono dei nostri”.
Che conseguenze ha avuto sulla società turca questo attacco nazionalista?
Economicamente è stata scossa tutta l’economia turca, politicamente non è servito a niente perché la persona che aveva messo la bomba nella casa dove era nato Atatürk a Salonicco, evento che aveva fatto da pretesto per l’attacco, si scoprì non essere un greco, ma un turco membro di un’organizzazione turca, era tutta una montatura. La conseguenza però fu che i greci se ne andarono, alcuni furono anche cacciati.
Nonostante questo clima xenofobo però lei non si è mai sentito uno straniero in Turchia, perché?
No, secondo me il problema dei levantini è stato che non hanno mai voluto integrarsi, avevano uno spirito colonialista, io mi sono integrato, ho voluto integrarmi. L’unico modo di poter lavorare nel mondo del cinema e della letteratura turca era integrarsi, in modo che la gente che mi leggeva si dimenticasse che sono Giovanni Scognamillo.
il problema dei levantini
è stato che non hanno mai
voluto integrarsi, avevano
uno spirito colonialista,
io mi sono integrato,
ho voluto integrarmi
Giovanni Scognamillo
Nel suo “Ricordi di un Levantino a Beyoğlu”, tra l’altro, lei dice di essere stato il primo levantino a scrivere in turco invece che in italiano o francese, perché?
La ragione di questa scelta è stata di ordine meramente pratico, se mi fossi messo a scrivere in francese su giornali di Istanbul come Beyoğlu, la République o Le Journal d’Orient avrei avuto un pubblico di lettori limitato, l’unica cosa giusta da fare era di scrivere in turco perché più gente possibile potesse leggermi.
Che conseguenze ha avuto lo scrivere in turco sui suoi rapporti con la comunità levantina?
Guardi, io non sono mai stato nazionalista, alla fine della seconda guerra mondiale ho deciso di essere cittadino del mondo, ne avevo abbastanza di essere cittadino di un dato paese, che poi diventava nemico di un altro paese. Da bambino ero balilla e mio padre era un fascista fanatico, il che mi ha spinto a dimenticare sia il fascismo che il nazionalismo, il patriottismo e la bandiera.
Si dice però che all’interno della comunità italiana la chiamino “il turco”…
La cosa non mi offende per niente, siamo in Turchia, viviamo come i turchi, viviamo con i turchi, non ho mai avuto quel sentimento coloniale che ti porta a dire “noi siamo europei”, e dopo che lo abbiamo detto, che significato ha? Il fatto di avere origini da un’altra parte per me è sempre stato un vantaggio più che un problema. Oggi molta gente pensa che io sia cittadino turco.
E non è così?
No, ho solo il passaporto italiano, non mi piace cambiare né nazionalità né religione, anche se sono ateo.
In Turchia parlare di levantini è diventata una moda, cosa ne pensa?
Dall’inizio degli anni Ottanta si parla continuamente di Beyoğlu, tutti provano un senso di nostalgia per quei tempi, anche chi non li ha vissuti per niente. Una volta davanti allo storico Ristorante Marquise su via Istiklal ho visto due ragazzi che guardavano i mosaici, “ah che bei tempi” diceva la ragazza, avrà avuto vent’anni. Parlare di levantini è diventata una moda, ma il passato è passato e a me parlare del passato non piace anche se sono uno storico del cinema.
Ha qualche rimpianto?
No, solo una cosa mi dispiace, fino all’inizio della Seconda guerra mondiale, il modello per la Turchia, era Parigi, poi è diventata Nuova York. Secondo me, però, il prodotto di questo modello non è una cultura veramente americanizzata, ma piuttosto l’emulazione dei rimasugli della cultura europea rivisti e traditi, parliamo purtroppo non di un problema relativo alla cultura, ma di mancata cultura. Le nuove generazioni più che dalla cultura europea sono, oggi, più affascinate dalla non-cultura americana.