Gli aleviti
Gli aleviti turchi. In Europa pochi li conoscono. Eppure sono in molti, si stima attorno ai 10-15 milioni. Fabio Salomoni in questo approfondimento ci racconta chi sono
Musulmani che non hanno l’obbligo delle cinque preghiere rituali, che celebrano le loro cerimonie religiose accompagnate da musica e danze in un luogo diverso dalla moschea, in cui uomini e donne siedono fianco a fianco condividendo lo stesso spazio. Sono gli aleviti turchi. Dal punto di vista statistico essi rappresentano una porzione importante della popolazione turca. In mancanza di dati ufficiali possiamo fare affidamento solamente su stime approssimative secondo le quali gli aleviti sarebbero circa 10-15 milioni su di una popolazione totale di circa 70.000.000. Dal punto di vista etnico e linguistico essi sono per la maggior parte turchi ma è consistente la presenza di curdi, 15%-20%, e di rom.
Conosciuti per gran parte della loro storia come kizilbas, teste rosse, un termine attualmente considerato dispregiativo, gli aleviti per la loro marcata eterodossia pongono non pochi problemi a chi cercasse di collocarli rispetto alle principali scuole che compongono l’universo islamico.
In particolare la scuola sunnita alla quale appartiene gran parte dei musulmani turchi, e quella sciita, che in Turchia riguarda una esigua minoranza di turchi-azeri insediati nei villaggi alla frontiere nord-orientali del paese.
Certo non sono pochi gli elementi appartenenti alla tradizione sciita rintracciabili nell’universo alevita. In particolare il culto di cui è oggetto Ali, nipote del profeta Maometto, le celebrazioni del martirio di Hussein perpetrato a Kerbela, il periodo del digiuno rituale, muharrem, diverso da quello sunnita del Ramadan. Nonostante questo gli aleviti però non considerano se stessi come sciiti e non vantano particolari legami storico-culturali con il mondo sciita.
Gli aleviti sembrano rappresentare piuttosto una versione dell’Islam peculiare alle vicissitudini storiche ed alla complessità culturale dello spazio geografico anatolico. In essa si possono ritrovare le tracce di influenze provenienti da diverse tradizioni religiose e culturali. In primo luogo elementi legati alla tradizione magico-sciamanica dei nomadi turchi dell’Asia Centrale, e poi Manicheismo, Nasturianesimo, Buddismo ed anche il Cristianesimo. Sembra essere l’eterodossia il carattere principale dell’Alevismo turco.
Una peculiarità sul piano dottrinario, rituale e sociologico che si evidenzia particolarmente nel confronto con l’ortodossia sunnita e sciita. L’assenza della moschea nei villaggi aleviti, sostituita da uno spazio chiamato cemevi, letteralmente casa della comunità; le peculiarità delle cerimonie che nella cemevi si svolgono, nelle quali danza e musica occupano un posto di primo piano; la partecipazione delle donne ai rituali religiosi; la centralità della figura del dede, leader spirituale che trae la sua legittimazione dal fatto di provenire da una famiglia che vanta una discendenza diretta con la famiglia del profeta Maometto; la tolleranza nei confronti dell’alcool, presenza familiare nelle riunioni della comunità – sohbet, conversazioni – una teologia che insiste particolarmente sull’esperienza religiosa intesa come ricerca individuale, interiore e che mostra stretti legami con la tradizione mistica del sufismo. Ed è proprio ad un santo derviscio, Hacıbektaş Veli, originario del Korasan, una delle culle del misticismo islamico, vissuto nell’Anatolia centrale nel 13° secolo d.C., che va l’incondizionata devozione degli aleviti turchi.
Una devozione testimoniata dalle centinaia di migliaia di pellegrini che ogni anno visitano la tomba del santo. Infine l’origine nomade della popolazione alevita spiega la relativa marginalità dei testi scritti, fatta eccezione per il Corano, e l’importanza attribuita alla tradizione orale nella conservazione e trasmissione del patrimonio teologico e rituale della comunità.
Proprio il loro carattere eterodosso ha fatto degli aleviti, nel corso della storia dell’Impero Ottomano, un costante oggetto di sospetto e diffidenza. Da parte del potere centrale ottomano, che identificava se stesso con la tradizione sunnita, gli aleviti sono stati considerati una potenziale quinta colonna dello sciismo persiano e per questo spesso oggetto di violenze e discriminazioni. Un atteggiamento che ha portato gli aleviti a scegliere la strada della mimetizzazione, insediandosi nelle zone rurali e montane dell’Anatolia centro-orientale, lontano dai centri urbani sede del potere ottomano.
A livello popolare poi la popolazione sunnita ha tradizionalmente coltivato il sospetto nei confronti degli aleviti, considerandoli spesso come non-musulmani, e delle loro pratiche rituali ritenute immorali ed oscene. Ad esempio la compresenza di uomini e donne durante le cerimonie religiose li ha spesso sottoposti all’accusa di dedicarsi a riti orgiastici.
La tradizionale discriminazione, periodicamente sfociata in aperta violenza, di cui sono stati oggetto ha quasi naturalmente reso gli aleviti tra i più entusiasti sostenitori del progetto repubblicano di Atatürk, mirato a fondare uno stato laico nel quale gli affari religiosi fossero confinati alla sola sfera privata. Per gli aleviti Atatürk, che hanno spesso paragonato al profeta Ali, rappresentava la promessa della fine delle discriminazioni da parte della maggioranza sunnita.
In realtà l’avvento della Repubblica non ha mantenuto tutte le sue promesse e non ha rappresentato la fine dei problemi per la comunità alevita. Lo stato turco ha continuato in qualche modo ad identificarsi ed a riconoscere come legittima solamente la tradizione sunnita. Nelle turbolenze politiche e sociale che hanno caratterizzato soprattutto gli anni ’70, gli Aleviti poi, spesso schierati con la sinistra laica, sono tornati ad essere vittime della violenza. In particolare i pogrom nelle città di Çorum e Maraş che hanno causato decine di vittime.
Contemporaneamente sul piano sociologico la comunità alevita conosceva importanti e radicali trasformazioni. Poderosi processi di emigrazione, interna ed internazionale, disgregavano rapidamente la tradizionale struttura rurale della comunità portando con sè il rischio della perdita del patrimonio culturale comune.
Negli anni ’90, in coincidenza con la crescita dell’Islam politico di matrice sunnita, gli aleviti sono poi tornati ad essere bersaglio di ostilità e violenze. Nel 1993 a Sivas, nell’Anatolia centrale, 30 artisti ed intellettuali aleviti sono morti nell’incendio, appiccato da militanti sunniti, dell’albergo nel quale si erano riuniti per una serie di manifestazioni culturali.
Il "massacro di Sivas" ha rappresentato per la comunità alevita un vero e proprio punto di svolta, la presa di coscienza della minaccia di estinzione che gravava sulla comunità ha innescato un processo di riscoperta identitaria.
Il revival alevita ha data vita ad un vasto reticolo di associazioni, molte delle quali nate tra gli aleviti emigrati in Europa, dedicate alla ricostruzione del corpus dottrinario, all’organizzazione di corsi di religione, alla costruzione di nuove spazi di preghiera ma anche a rivitalizzare la tradizione musicale e culturale della comunità.
L’aspetto probabilmente più interessante di questo revival è però il carattere fortemente rivendicativo che esso ha assunto sul piano pubblico. Senza mancare di denunciare i tentativi dello stato di assimilare le comunità alevite, magari imponendo la costruzione di moschee nei loro villaggi, il movimento alevita da tempo porta avanti una serie di rivendicazioni che mirano a rimettere in discussione la tradizionale concezione della laicità dello stato turco e i suoi legami con il mondo sunnita.
Il riconoscimento delle cemevi come luogo di culto ufficiale, su un piano di parità con la moschea; la riforma del Direttorato per gli Affari Religiosi, la struttura statale che controlla e gestisce le attività religiose nel paese, accusata di rappresentare solamente l’Islam sunnita e l’abolizione dei corsi obbligatori di cultura religiosa nella scuola, che ignorano la realtà alevita o peggio la denigrano.
Rivendicazioni che gli aleviti hanno recentemente portato anche all’attenzione dell’Unione Europea, facendo così in modo che il futuro delle relazioni tra lo stato turco e la popolazione sia ora uno dei tanti nodi intorno ai quali si giocherà il futuro europeo della Turchia.