Dink, 4 anni dopo
A quattro anni dalla morte di Hrant Dink, restano senza volto i mandanti dell’omicidio del giornalista. Le accuse degli avvocati, la sentenza della Corte di Strasburgo, il dibattito in Turchia
Oggi è il quarto anniversario della morte di Hrant Dink. Il 19 gennaio 2007 un giovane gli ha sparato sotto la redazione di Agos , il giornale che Dink aveva fondato. L’esecutore del delitto, Ogün Samast, di Trabzon, è stato arrestato. I mandanti no.
Hrant Dink era un giornalista e scrittore, viveva a Istanbul e faceva parte della minoranza armena in Turchia. A essere più precisi, Dink si definiva un “armeno di Turchia”. Per questo era stato condannato da un tribunale a sei mesi di carcere (offesa dell’identità turca, art. 301 c.p.). Dink aveva dedicato la propria vita al dialogo tra queste due comunità. Il suo era l’unico giornale ad essere pubblicato in entrambe le lingue, turco e armeno.
L’immagine del suo assassino, ritratto dopo l’arresto mentre regge una bandiera turca tra poliziotti compiacenti, ha fatto scalpore. Secondo la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, il nazionalista diciassettenne non è l’unico responsabile dell’omicidio.
La condanna della Corte di Strasburgo
In un giudizio reso il 14 settembre scorso, la Corte di Strasburgo ha infatti condannato la Turchia per aver violato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e le Libertà Fondamentali. In particolare, lo Stato turco non avrebbe rispettato l’articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita), per non aver protetto il giornalista pur sapendolo in pericolo e per non aver condotto un’inchiesta contro i responsabili dell’omissione.
Al fine di ottenere l’applicazione della sentenza da parte dei tribunali locali, ieri la famiglia Dink ha promosso una petizione per chiedere una nuova inchiesta, contro 28 rappresentanti della Polizia e della Gendarmeria di Trabzon e Istanbul. Se infatti, secondo Strasburgo, le autorità sapevano delle imminenti minacce alla vita del giornalista, e non sono intervenute, i responsabili vanno individuati.
Le accuse degli avvocati rivolte allo Stato
Una degli avvocati della famiglia Dink, Fethiye Çetin, ha pubblicato la settimana scorsa il “Quarto rapporto annuale sull’omicidio di Hrant Dink”. L’avvocato Çetin aveva già espresso la propria posizione un anno fa, scrivendo che “non è possibile credere che questo omicidio sia stato compiuto da un paio di ragazzini nazionalisti; non è neppure possibile ritenere, però, che sia stata una struttura più organizzata ad aver infiltrato la Polizia e la Gendarmeria nazionali e, attraverso mezzi illegali, abbia convinto quei 3-5 ragazzi a commettere l’omicidio. Dallo Stato Maggiore alle autorità giudiziarie, dai portavoce governativi alle unità di sicurezza, dai media alle forze paramilitari, tutti gli attori ufficiali hanno una responsabilità nell’omicidio di Hrant Dink, nel non aver impedito questo omicidio e nel non essere stati in grado di scoprire i veri esecutori.”
Nell’ultimo rapporto l’avvocato della famiglia Dink spinge oltre queste premesse, sostenendo l’esistenza “di un potente apparato e di una mentalità che non solo legittima l’omicidio ma rende anche l’impunità qualcosa di normale. Questo potente apparato è lo Stato stesso. Tutti gli elementi di questo percorso, dal presentare Hrant Dink come un obiettivo nei processi che hanno portato alla sua condanna e poi all’omicidio, e gli ostacoli che sono emersi nel corso del processo contro i suoi assassini, puntano all’ideologia e alla politica dello Stato.”
Il giornalista Adem Yavuz Arslan ha precisato lo scenario nel suo recente libro dedicato all’omicidio Dink, “Bi Ermeni Var: Dink Operasyonunun Şifreleri” (“C’è questo armeno: i codici dell’operazione Dink). Arslan ha dichiarato al quotidiano Zaman che “quell’omicidio non è stato commesso da alcuni ultranazionalisti, ma è stato attentamente pianificato in dettaglio fin dall’inizio, come parte di una strategia di gruppi che operano nell’oscurità e che cercano di portare il caos nel Paese”. Secondo Arslan, in particolare, l’omicidio Dink sarebbe da ricollegare a un piano più ampio volto ad allontanare la Turchia dall’Unione Europea, attribuibile a quegli apparati che nel dibattito turco vengono designati come lo “stato profondo”.
L’opinione del Nobel Orhan Pamuk
Il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, in un recente articolo pubblicato sulla New York Review of Books , ha sostenuto una tesi simile. “Una delle cause principali della tensione nelle relazioni tra la Turchia e l’Unione Europea va certamente ricercata nell’alleanza che comprende un settore dell’esercito turco, grandi media e partiti nazionalisti, uniti in una campagna diretta con successo a sabotare i negoziati di adesione all’UE. Questa stessa alleanza è responsabile dei processi avviati contro di me e altri scrittori, dell’uccisione di altri e dell’assassinio di preti e missionari.”
L’Unione Europea, secondo Pamuk, non può affrontare questo ricatto chiudendosi all’interno delle proprie frontiere, ma ricordando i propri valori fondamentali, quelli che un tempo l’avevano resa centro di attrazione per gli intellettuali di tutto il mondo.
Le minacce dello “stato profondo” fanno paura, e la paura è diventata la cifra del nostro tempo. Hrant Dink aveva un proprio punto di vista sulla paura. Non la negava, anzi, si considerava un “colombo”. Ma tra paura e libertà aveva scelto la seconda: “Nel mio cuore impaurito di colombo so che la gente di questo paese non mi toccherà. Perché qui non si fa male ai colombi. I colombi vivono fra gli uomini. Impauriti, come me, ma come me liberi.”