1989, anzi 1992

Dalla seconda metà degli anni ’80 all’indipendenza. L’inizio della crisi jugoslava, l’emergere del nazionalismo e il definitivo distacco di Lubiana da Belgrado. Un contributo per il dossier Il lungo ’89

04/12/2009, Stefano Lusa - Capodistria

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Lubiana (Glikò/flickr)

Il 1989, metaforicamente, per la Slovenia si concluse il 15 gennaio 1992. In quella data gran parte dei paesi dell’Unione europea riconobbero l’indipendenza di Lubiana. La bandiera della nuova repubblica presto avrebbe iniziato a sventolare davanti al palazzo delle Nazioni Unite. Così, mentre nel resto di quella che era stata la Federazione jugoslava stava divampando la guerra, la Slovenia si apprestava a rincorrere i suoi sogni d’integrazione nell’Unione europea.

Il cammino verso l’indipendenza era iniziato alla fine degli anni Ottanta. Nel 1987 un gruppo di intellettuali sloveni aveva pubblicato una serie di tesi ardite in cui avevano dato chiaramente ad intendere che avrebbero fatto anche volentieri a meno della Jugoslavia. Il filo conduttore era che il popolo sloveno doveva trasformarsi in nazione e raggiungere una propria statualità indipendente da quella jugoslava.

La cosa fece andare in bestia Belgrado. Dalla capitale federale chiesero di intervenire contro gli autori di quei testi. A Lubiana, però, non ne avevano alcuna intenzione. La delicata faccenda venne affidata a Stane Dolanc. L’ex delfino di Tito, che rappresentava la Slovenia nella presidenza della Jugoslavia, si premurò di insabbiare la questione. A suo avviso sarebbe stato necessario perseguire alcuni degli autori, ma ancor prima bisognava procedere contro quelli che avevano scritto il famigerato memorandum dell’Accademia delle arti e delle scienze serba.

Poco dopo, sulla stampa slovena, cominciarono a comparire articoli che mettevano pesantemente sotto accusa l’Armata popolare jugoslava. Ci si chiedeva come fosse possibile che si vendessero armi all’Etiopia dove a causa della guerra la popolazione stava morendo di fame, che senso avesse progettare la costruzione di un aereo supersonico jugoslavo e come mai i militari di leva erano impegnati nella costruzione della villa del ministro della Difesa Branko Mamula. Anche in questi casi la magistratura slovena si dimostrò tutt’altro che pronta a perseguire gli autori di queste "provocazioni inaccettabili".

I soldati, oramai, accusavano apertamente la dirigenza slovena di opportunismo e si chiedevano quanto la Lega dei comunisti avesse ancora il controllo della situazione. Per i generali era messa a repentaglio la stessa esistenza della Jugoslavia e dell’ordinamento socialista. Arrivarono così persino ad ipotizzare un intervento diretto della magistratura militare e un possibile impiego delle truppe per mantenere l’ordine. Per le autorità repubblicane la situazione si fece alquanto traballante, ma nessuno della leadership slovena si dimostrò disposto ad assecondare le posizioni dell’esercito.

La vicenda ben presto trapelò sui giornali sloveni. Il fonogramma della riunione in cui si era discusso del possibile intervento dell’armata, infatti, era stato consegnato nelle mani dei giornalisti. A quel punto la polizia slovena intervenne ed arrestò quattro uomini. Tra di essi c’era anche Janez Janša. Quei fermi provocarono un’immediata levata di scudi. Igor Bavčar, il funzionario che aveva fatto uscire il segreto dal palazzo, costituì immediatamente un comitato per la tutela degli arrestati, al quale aderirono 100.000 persone e 1000 organizzazioni.

A procedere contro i quattro ci pensarono le autorità militari. Il fonogramma venne dimenticato e il capo d’accusa fu quello di essere entrati in possesso di un documento riservato con cui si sarebbe innalzato il grado di allerta dell’esercito in Slovenia. Le polemiche furono subito fortissime e si acuirono quando iniziò il procedimento penale. L’esercito pensò bene di procedere in serbo – croato. Non usare lo sloveno a Lubiana fu considerato un affronto inaccettabile per la società slovena. Al momento in cui vennero pronunciate le condanne, 10.000 persone scesero in piazza e non lesinarono ingiurie all’indirizzo dell’armata, del partito e dei "fratelli del sud".

La leadership slovena si trovò così tra l’incudine ed il martello, schiacciata tra le pressioni dei militari e quelle della piazza. Ben presto le autorità di Lubiana ricevettero gli esponenti del comitato per la tutela degli arrestati. Iniziò così formalmente il dialogo con l’opposizione organizzata.

L’incarcerazione di Janez Janša, che avvenne nella primavera del 1989, servì per organizzare un’altra imponente manifestazione dove fu letta la "Dichiarazione di maggio". In essa venne ribadito che si sarebbe voluto vivere in uno stato sovrano del popolo sloveno. Intanto iniziarono a sorgere i primi partiti politici e la Lega dei comunisti della Slovenia cominciò a dichiarare di voler rinunciare al potere.

Il partito in Slovenia, del resto, si era reso conto che non aveva più la maggioranza dei consensi. Il primo segnale chiaro fu la nomina del nuovo rappresentante sloveno nella presidenza federale. Il nome formalmente sarebbe stato designato dal parlamento repubblicano, ma si decise di indire una sorta di consultazione elettorale. Un illustre sconosciuto, Janez Drnovšek, riuscì così ad imporsi sul più accreditato candidato spalleggiato dalla Lega dei comunisti.

Le aperture democratiche fatte dai comunisti sloveni suscitarono perplessità nella federazione. Oramai, infatti, stavano nascendo una serie di nuove leghe che si ispiravano ai cosiddetti "valori borghesi". In Serbia ci si chiedeva apertamente quando fosse cambiata la costituzione jugoslava e quali fossero gli articoli che permettevano la nascita di partiti ostili al socialismo.

Lo scontro tra le due repubbliche oramai era evidente da tempo. Lubiana aveva paura che la sua autonomia all’interno della Jugoslavia fosse messa in discussione, mentre Belgrado voleva una maggiore integrazione e soprattutto intendeva riportare sotto il suo controllo il Kosovo.

Proprio per questo i serbi, agli inizi del 1989, vararono una serie di modifiche alla loro costituzione repubblicana che cancellarono l’autonomia della provincia. Lubiana solidarizzò con gli albanesi e poi decise di procedere anch’essa alla modifica della sua costituzione. Venne ribadito, così, che il diritto all’autodeterminazione del popolo sloveno era permanente ed inalienabile e fu cancellato il ruolo guida del partito comunista, aprendo di fatto le porte al pluripartitismo.

Simili norme incontrarono l’ostilità del resto della federazione. Si ipotizzò persino l’uso della forza per impedire che gli emendamenti venissero accolti. Una drammatica seduta del Comitato centrale del partito a Belgrado non fece cambiare idea agli sloveni, che dissero chiaramente di essere prima di tutto sloveni e poi comunisti. Alla fine di settembre del 1989 gli emendamenti vennero approvati.

Nel resto della federazione non mancarono manifestazioni di piazza ed inviti a ripristinare l’ordine in Slovenia. A quel punto si ipotizzò di organizzare un meeting a Lubiana per spiegare la "verità" agli sloveni. L’appuntamento era per il 1° dicembre. Nella capitale della repubblica sarebbero dovute arrivare 100.000 persone dalle altre parti della federazione. La paura della leadership slovena era che il tutto potesse servire da pretesto per un colpo di mano. Fu annunciato, così, che la polizia avrebbe bloccato i manifestanti ai confini. A quel punto l’iniziativa venne cancellata, ma i serbi interruppero i loro rapporti commerciali con Lubiana.

Oramai la federazione si stava sfilacciando ed i contrasti sembravano oramai insanabili. Uno degli ultimi atti si consumò a Belgrado durante il congresso della Lega dei comunisti della Jugoslavia. In vista dell’assise i serbi e l’armata elaborarono un preciso piano, che aveva l’obiettivo di isolare gli sloveni. Quando quest’ultimi si videro respinte tutte le loro proposte abbandonarono i lavori tra le ingiurie degli altri delegati. A quel punto Milošević propose di proseguire i lavori come niente fosse, ma i croati non ci stettero ed il congresso venne interrotto per non riprendere più.

In quel caotico clima il debole governo federale varò un ambizioso progetto di risanamento economico. La ricetta era quella di legare il dinaro al marco e di controllare rigorosamente l’emissione di cartamoneta. Per farlo funzionare ci sarebbe voluto un enorme rigore finanziario, che nella federazione non esisteva.

Nella primavera del 1990, in Slovenia e Croazia, ci furono le prime elezioni democratiche. I militari aspettavano l’ordine dalla presidenza federale per intervenire. Il ministro della Difesa Veljko Kadijević era preoccupatissimo "del carattere revanscista" dei partiti nazionalisti ed ipotizzava che se il paese si fosse disgregato ciò non sarebbe potuto accadere senza una guerra civile in alcune zone della Croazia, della Bosnia e della Serbia.

In Slovenia l’ex partito comunista riuscì a far eleggere capo dello Stato il suo ex segretario, Milan Kučan ed ad ottenere la maggioranza relativa dei voti; ma a vincere fu la coalizione d’opposizione. Il Demos aveva come cardine del suo programma la sovranità della Slovenia e il consolidamento della democrazia parlamentare.

I militari si premurarono immediatamente di far trasferire nei loro depositi le armi della Difesa territoriale. Quest’ultima era, infatti, una struttura dell’esercito su cui le repubbliche avevano notevole ingerenza. I croati vennero praticamente disarmati, gli sloveni invece riuscirono a salvare qualcosa.

Forse proprio a causa di quella manovra la nuova leadership politica slovena cominciò subito ad occuparsi dell’organizzazione di una propria struttura di difesa. In pratica fu messo in piedi un esercito "clandestino" di 20.000 uomini. In quel periodo ci si preoccupò anche di rifornirsi di armi. Molte vennero prelevate dai depositi dell’esercito, con la scusa delle esercitazioni, alcune trafugate ed altre semplicemente acquistate all’estero.

Intanto i partiti politici sloveni discutevano delle modalità con cui affermare l’indipendenza. Dopo mesi di dibattito si stabilì che ci sarebbe stato un referendum. Ai cittadini venne chiesto se volessero che la Slovenia diventasse uno stato autonomo ed indipendente. Questa formulazione lasciava aperta l’ipotesi di un possibile mantenimento dei legami con il resto della federazione, ma consentiva anche di procedere verso la completa indipendenza. Alla fine quasi il 90% del corpo elettorale si espresse a favore dell’indipendenza slovena.

Lo strabiliante risultato diede un inequivocabile segnale alla dirigenza politica su quale fosse la volontà dei cittadini. La leadership repubblicana, così, intensificò i preparativi per il distacco dalla federazione. Lubiana decretò la fine della leva obbligatoria ed istituì propri centri d’addestramento. Questo suscitò nuove polemiche con l’esercito. Altri contrasti vennero causati dal mancato versamento dei dazi doganali nelle casse federali. Ad un certo punto sembrò addirittura che Belgrado fosse intenzionata a prendere direttamente il controllo delle frontiere esterne della federazione. Il 25 giugno 1991, quando tutto era stato preparato, gli sloveni proclamarono l’indipendenza. A quel punto il governo federale ordinò ai militari di prendere il controllo dei confini.

L’esercito era convinto che sarebbe bastato far sfilare qualche blindato per ridurre a più miti consigli Lubiana. Tra militari, poliziotti e doganieri scesero in campo, in tutto, circa 2700 uomini. In 48 ore presero il controllo di tutti i valichi e la Slovenia fu quasi completamente bloccata. A quel punto gli sloveni reagirono isolando le caserme, tagliando i collegamenti con la rete idrica ed elettrica e contrattaccando per riprendersi il controllo delle proprie frontiere.

I militari non avevano minimamente preso in considerazione l’ipotesi di una reazione slovena. Ad ogni modo il conflitto rimase limitatissimo e per una serie di circostanze fortunate non degenerò. Più che sul campo la Slovenia vinse lo scontro a livello mediatico. La piccola repubblica cominciò a destare qualche simpatia a livello internazionale e dimostrò di saper sfruttare molto bene i propri contatti internazionali, che aveva coltivato negli anni con una serie di progetti di cooperazione regionale.

Ben presto fu chiaro che Lubiana sarebbe stata lasciata andare. Già il 18 luglio 1991, nel corso di una riunione della Presidenza federale e con il consenso dell’Armata, venne stabilito che alla fine di ottobre l’esercito avrebbe abbandonato la Slovenia. A quel punto i soldati servivano in altre parti della federazione. Alla Slovenia non rimaneva che ottenere il riconoscimento internazionale, ma oramai non era che una questione di tempo.

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