Storie dal mondo: viaggio tra le voci degli scrittori

Da anni ViaggieMiraggi pratica i principi del turismo responsabile sostenendo le comunità locali. Il Covid ha reso le cose più difficili. Per continuare a coltivare queste relazioni ora la cooperativa sociale propone il libro “Storie dal mondo. Viaggio tra le voci degli scrittori”. Un estratto dal racconto "Aveva diciassette anni" dello scrittore serbo Dušan Veličković, parte della raccolta

13/11/2020, Dušan Veličković -

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Belgrado © irill_makarov/Shutterstock

Fantasticavo in continuazione su come guadagnare qualcosa per essere indipendente.

Un giorno il mio amico Sotir mi passò un lavoretto legato al latte. Sotir era un greco che viveva con il padre, la madre e un fratello più piccolo in una baracca all’interno di un cortile lungo via Dalmatinska. «Quelli sono i seguaci di Markos,» diceva il padre di mia madre.

Il padre di Sotir faceva il falegname, era magro come un chiodo e assomigliava a Onassis, parlava un po’ serbo e un po’ greco. La madre di Sotir non sapeva una parola di serbo. «Ma come fa a impararlo quando quella povera donna passa tutto il giorno dietro ai fornelli,» diceva mia madre.

Sotir un giorno mi chiese: «Questo mese vuoi portare assieme a me il latte ai clienti? Puoi farti un bel po’ di soldi».

Lavorammo qualche giorno insieme, poi Sotir mi disse che non si sentiva bene ma potevo continuare da solo. Ovviamente se la cosa mi andava.

Era dicembre, ghiaccio ovunque. Mia madre mi svegliò alle quattro e mezza del mattino. Era preoccupata, ma allo stesso tempo penso pure orgogliosa che suo figlio quattordicenne si fosse trovato un lavoro e iniziasse a guadagnare. Bisbigliando per non svegliare gli altri membri della casa, disse: «Fuori fa un freddo terribile e tira vento. Ti ho preparato la giacca a vento americana e i pantaloni di stoffa pesante».

«Quei pantaloni che mi graffiano e mi fanno sembrare come uno che si è pisciato addosso», borbottai mezzo addormentato.

«Perché dici stupidate, quello è un tessuto fantastico, incomparabile. Ti ho preparato anche la calzamaglia».

La giacca mi piaceva. Aveva un grande bavero di pelliccia che si poteva rialzare per proteggersi le orecchie. Un anno prima ero stato con mia madre da un amico di amici che era giunto dall’America e vendeva diverse cose. La giacca era di due taglie in più, il che non mi dispiaceva perché mi faceva le spalle ampie. Anche mia madre disse: «Meglio che ti stia grande, la potrai indossare anche negli anni a venire».

La giacca era costosa, non c’erano soldi anche per i pantaloni. Perciò mia madre mi rattoppò un vecchio paio di pantaloni che non potevo mettere perché erano tutti strappati. Mia madre risolse il problema allungando fondo e cavallo. Utilizzò abilmente un pezzo di stoffa simile, che sfortunatamente però era di un colore più chiaro.

Il padre di mia madre disse: «Cosa vuoi, ti sei preso la giacca americana, non puoi avere entrambe le cose».

Sulla strada mi attendevano già le bottiglie di latte che il camion del PKB [Poljoprivredni Kombinat Beograd, durante la Jugoslavia socialista era il complesso di industrie pubbliche belgradesi che operava nel settore agricolo, ndt] trasportava durante la notte. Vi era anche una decina di piccole bottiglie con latte al cioccolato che a quel tempo si affacciavano nel mercato del latte.

Sotir mi spiegò: «Rubano soprattutto latte al cioccolato e a noi lo prelevano poi dalla paga. Ma d’altronde ogni lavoro ha i suoi rischi».

La mia zona di competenza era da via Đušina a via 27 Marzo, sino a Ruvarčeva, un paio di numeri civici di Draže Pavlovića e parte di via Cvijićeva [vie di Belgrado, ndt].

Avevo una lista. Prima due bottiglie di latte davanti alla porta della signora Rudić, quindi al secondo e terzo piano dai Petrović e dai Kutlešićka, poi sull’altro lato della strada dal vecchio Krnjaić. Rudić era già sveglia, pur muovendosi a fatica riuscì ad aprire la porta e mentre io correvo via lungo le scale disse: «Come sei bravo, ragazzo. Grazie, grazie».

Via Ruvarčeva mi piaceva particolarmente perché non aveva abitazioni con piani alti. Dormivano tutti, ma Svetlana Isailović, al numero 5, come Rudić era già sveglia. Lei era però molto più giovane. Sul suo conto si diceva che amasse gli uomini. Appena sentì che trafficavo con le bottiglie sul pianerottolo, apparve in una vestaglia sottile, dietro a lei un grande poster con Bobby Solo e la scritta E un miracolo d’amore [in italiano nel testo originale, ndt]. Mi disse: «Entra, entra a bere un caffè e riscaldarti un po’».

Ma io non ero ancora un uomo. Ero un ragazzino, tutte le bellezze del mondo dovevano ancora attendermi, in quel momento ero solamente tutto sudato dalla corsa su per le scale con delle bottiglie piene di latte, in una giornata di freddo spaventoso. Più tardi, quando rientrai a casa, mia madre disse: «Questo bambino se ne va in giro fradicio dalla testa ai piedi a meno dieci gradi, anche le mutande sono umide, devo buttare tutto in lavatrice».

Il padre di mia madre, che si era appena seduto per una colazione a base di hot dog farcito di senape, mugugnò: «Se solo vedesse quanto è difficile guadagnarsi ogni singolo dinaro. Quando prima della guerra ero direttore della banca di credito a Šabac, lavoravo dal mattino sino a mezzanotte».

«Sì, come no», rispose mia madre, «arrivavi ubriaco fradicio dall’osteria».

Una volta il mio tragitto per la consegna del latte si incrociò con quello di Mitka. Io andavo veloce, ma Mitka era un vero campione, riusciva a tenere sino a cinque bottiglie in ogni mano. Ero incantato.

Alle sette tornavo a casa, mi facevo una doccia e mi cambiavo. Ero sempre morto di fame. Un giorno anche per colazione mangiai delle sarme che mia madre aveva preparato il giorno prima. In quell’occasione disse soddisfatta: «Le sarme del giorno precedente sono le migliori».

A scuola per lo più dormicchiavo.

Il mio primo lavoro durò sino a fine dicembre. Lavorai anche per capodanno, particolare che fece commuovere Svetlana di via Ruvarčeva. Disse: «Come è ingiusta la vita, mentre altri si divertono tu lavori e io siedo a casa tutta sola».

Cercai quindi Sotir per ricevere la paga. Sotir aveva un contratto con il PKB, mentre io ero solo il suo lavoratore salariato. Sotir era il mio capo.

Ma Sotir era scomparso, nessuno sapeva dirmi dove fosse. Sua madre bofonchiò velocemente qualcosa in greco, il padre abbassò lo sguardo e con la mano fece un cenno di diniego.

Dopo una decina di giorni Sotir si fece vivo con una lista sulla quale, in bianco e nero, era scritto quante bottiglie erano state rubate nel mese di dicembre, in particolare di latte al cioccolato, cosicché non solo non avremmo ricevuto lo stipendio, ma avremmo anche dovuto pagare i danni al PKB.

«Non preoccuparti,» disse Sotir, «il debito in effetti è tuo, l’ammanco è sorto da quando tu porti il latte, ma lo divideremo a metà».

Mia madre gridò: «Che sfacciataggine incredibile. Quel furbo, se solo lo vedessi, ha fregato un bambino e ora pretende pure di spillargli dei soldi».

Il padre di mia madre disse: «Mi trovai anche io in un pasticcio simile alla vigilia della guerra, quando firmai una cambiale per il mio migliore amico e lui sparì nel giro di un secondo fuggendo chi sa dove. Ed ero uno degli uomini più ricchi di tutta la Serbia».

Gli anni passavano, un giorno mia madre disse più rivolta a se stessa che ai presenti: «Non abbiamo fatto in tempo a voltarci che, in un attimo, questo bambino è diventato un uomo».

Questo significava che dovevo iscrivermi all’università. Sino a quel momento andavo spesso con gli amici a pattinare a Tašmajdan o alla discoteca “Zeppelin”. Qui l’obiettivo principale era portarsi la ragazza con cui finivi a ballare sino a un corridoio buio dove scambiarsi baci e palpeggiarsi. Tutto ciò era chiamato «abbordaggio».

Alla pista di pattinaggio era tutto illuminato, così vi erano altre regole. Si pattina in cerchio e a un certo momento ti scontri con la ragazza che ti piace. Lei cade o, ancora meglio, cadete entrambi e tu allora dici: «Scusami, pattino molto veloce e c’è tanta ressa».

In questo modo una volta mi innamorai di una ragazza alta, con i capelli castani e il viso rubicondo che luccicava dai suoi occhi verdi. «Ma proprio su quel mostro ti getti,» commentarono i miei amici.

Risposi: «A me piacciono le ragazze con qualche difetto», cosa che peraltro non era lontano dal vero, come avrebbero confermato i miei futuri amori.

La disputa familiare su cosa dovessi studiare durò mesi. Mia madre era risoluta: «La cosa più importante è che studi ciò che gli piace».

Io non sapevo cosa mi piacesse. Quando mia madre mi chiese: «Di cosa vorresti occuparti, figlio?», risposi che tutti mi innervosivano e volevo solo essere lasciato in pace. Non mi andava di partecipare alla discussione, ma vi ero come attaccato attraverso i tentacoli familiari, più passava il tempo più quel dibattito mi pareva teso e insicuro. Ogni consiglio iniziava a fissarsi nella mia mente come qualche fatale dilemma che nessuno avrebbe risolto.

«La cosa migliore è che studi economia», disse il padre di mia madre. «Io ho studiato all’accademia di studi economici di Pest e Graz, per un po’ anche a Parigi e non mi manca nulla».

Mia madre, agitando le mani: «Non ti manca niente, tranne il fatto che sei andato in bancarotta».

«Quello era prima della guerra, oggi sono tutti falliti», rispose il padre di mia madre.

Mia madre si ricordò all’improvviso: «Però ha sempre letto molto, per lui forse la scelta migliore è Lettere».

Mio padre non si immischiava più di tanto nelle discussioni, ma in quell’occasione anche lui disse qualcosa: «Come camperà di letteratura? Che vada a studiare Legge, per gli avvocati c’è sempre lavoro».

L’osservazione di mio padre echeggiò come un’eresia. In casa nostra, come mia madre diceva sempre, «a fatica si arrivava alla fine del mese» ma il denaro non era mai stato qualcosa da desiderare. Ai soldi e alla ricchezza correvano dietro altre persone, le quali venivano da noi disprezzate. A noi interessavano l’onestà, l’amore e più di tutto la passione per un sapere disinteressato.

Mia madre perse il senno e anche lei trasgredì alla regola familiare di disdegnare le strade verso il guadagno: «Sì, davvero, forse potrebbe diventare ingegnere. Sa aggiustare di tutto, solo lui sa cambiare il fusibile; quando mi si rompe il ferro da stiro chiamo sempre lui e recentemente ha messo a posto anche il televisore».

Il padre di mia madre si spazientì e gesticolando disse: «Mancava poco che ci lasciasse le penne».

A farmi innervosire maggiormente era il fatto che in quelle infinite diatribe sul mio futuro io ero diventato un «lui» impersonale. A quel punto mi intromisi, pentendomene all’istante poiché tutti gli occhi pieni di aspettative erano ora fissi su di me, come se la decisione fosse stata presa e io sarei diventato un ingegnere esperto di fusibili, ferri da stiro e televisori.

Incassati i complimenti, dissi: «Già ai tempi della scuola elementare, nelle ore di educazione tecnica avevo costruito una piccola radio a dìodo munita di casse».

Alla fine decisi in completa autonomia cosa studiare, consapevole che ogni scelta sarebbe stata quella sbagliata. Sedotto dalle frasi sulle mie conoscenze letterarie, che mia madre declamava come una qualche favola a puntate, optai per i pesanti libri dai titoli incomprensibili: “Etica nicomachea”, “Fenomenologia dello spirito”, “Essere e tempo”…

Il progetto di crowdfunding “Storie dal mondo. Viaggio tra le voci degli scrittori”

La cooperativa sociale-tour operator ViaggieMiraggi lavora da anni con più di 50 paesi in tutto il mondo, mettendo in pratica i principi del turismo responsabile. I suoi viaggiatori contribuiscono a sostenere progetti culturali, sociali e ambientali in tutto il mondo ogni volta che effettuano un viaggio. Purtroppo, a causa dell’epidemia Covid, la maggioranza di queste realtà nel 2020 non ha potuto beneficiare degli introiti derivati dai viaggi di turismo responsabile.

Per questo motivo ViaggieMiraggi ha deciso di realizzare una campagna di crowdfunding che ha come obiettivo la realizzazione di un libro di racconti – inediti in lingua italiana – provenienti da alcuni dei paesi che quest’anno non si sono potuti visitare di persona: diversi scrittori hanno affidato a ViaggieMiraggi un testo per raccontare un pezzetto del loro paese, uno sguardo sulla società, un modo di vedere la realtà del luogo in cui vivono, un pensiero sulla storia locale. 

L’estratto del racconto di Dušan Veličković pubblicato in questa pagina è stato selezionato da Confluenze. Nel sud-est Europa con lentezza – partner storico di ViaggieMiraggi – che ha coinvolto anche lo scrittore albanese Bashkim Shehu. Gli altri scrittori che hanno aderito al progetto sono: Wu Ming 2 e Claudia Galal (Italia); Arturo Ceballos Alarcón (Messico); Rafael de Águila (Cuba); Juan Carlos Liendo (Venezuela); Margarida Fontes (Capo Verde); Houshang Moradi Kermani (Iran); Syune Sevada (Armenia); Khalisah Khalid (Indonesia).

I proventi della campagna, oltre a coprire i compensi per gli scrittori, i traduttori e i costi di stampa, porteranno un piccolo aiuto ai referenti locali di ViaggieMiraggi così come alle realtà sostenute all’interno dei viaggi (cooperative, associazioni locali, piccoli produttori, attivisti).

Vai alla pagina della campagna 

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