Serbia: armi, oltre il paravento della crescita economica
L’esercito serbo, tra mancanza di investimenti e rischio politicizzazione. Un’intervista al giornalista e analista strategico Zoran Kusovac
Negli ultimi anni la Serbia ha aumentato in maniera sensibile le proprie esportazioni di armamenti. Sembra stia tornando ad assumere quel ruolo che ricopriva la Jugoslavia nella vendita di armi durante le guerra fredda…
Non si può parlare di una vera continuità della produzione di armi della ex-Jugoslavia e della Serbia. Quella Jugoslava era una produzione integrata e quasi tutte le fabbriche che producevano prodotti militari producevano anche prodotti per il mercato civile.
Inoltre era integrata nel senso di un grande ciclo strategico di cui facevano parte tutte le repubbliche della ex-Jugoslavia, soprattutto quelle più industrializzate: Slovenia, Croazia, Bosnia e Serbia. Montenegro e Macedonia contribuivano in maniera minore. Ad esempio, il carro armato M84-A aveva un motore prodotto in Bosnia, il telaio prodotto in Croazia, l’arma prodotta in Bosnia, tutto fatto con acciai speciali prodotti in Slovenia e la maggior parte dell’elettronica fatta tra Bosnia e Slovenia.
Dalla dissoluzione dell’ex-Jugoslavia la Serbia si è trovata in una situazione molto particolare. Non aveva più la produzione integrata ma solo certi prodotti ad un livello abbastanza basso di sofisticazione, come le munizioni standard. La produzione serba dipende ora dalle importazioni. In secondo luogo, la situazione economica della Serbia non permette di rilanciare una produzione di grande livello. Si deve produrre ciò che si può con le fabbriche esistenti.
Inoltre con la dissoluzione dell’esercito federale, dalle fabbriche che erano sotto il controllo militare è stata rubata una gran parte della documentazione della produzione (disegni, dettagli, ecc) da ufficiali e ingegneri. I governi serbi, volendo far ripartire la produzione, hanno permesso agli autori di questi furti di ricominciare a produrre in piccole fabbriche. Dopo la caduta di Milošević, il nuovo governo non ha messo mano al sistema della produzione e delle vendite militari.
Ma, come in molti settori economici, non si può rimanere sul mercato senza investire nella ricerca e sviluppo…
Le piccole fabbriche che hanno portato avanti la produzione in effetti non hanno investito nulla in ricerca e sviluppo e hanno continuato a produrre, sia per l’esercito che per esportare. Prima della disgregazione della Jugoslavia le esportazioni erano dirette principalmente verso i paesi del “terzo mondo” o non allineati. I contatti si sono mantenuti.
Poi, i loro proprietari, non volendo investire direttamente nello sviluppo, hanno incoraggiato il governo ad accorpare le industrie militari per questa finalità sotto la Yugoimport. La Yugoimport, pur essendo un ente pubblico, funziona con pochissima trasparenza dando non pochi problemi alla democrazia serba: non si sa bene cosa facciano, dove vadano i soldi, e sono strettamente legati al presidente Aleksandar Vučić.
In che termini legati a Vučić?
Non nel senso che lui sia un socio, probabilmente è il circolo più vicino a lui ad avere interessi finanziari in qualche parte di questa produzione. Ma non è questo il problema principale. Il problema principale è che Yugoimport è un integratore della produzione delle fabbriche sia statali che private e che svolge questo lavoro però senza alcuna consultazione con le forze armate.
Negli ultimi 3-4 anni molti ufficiali con cui ho parlato – che chiedono di rimanere anonimi – sottolineano che i nuovi sistemi – prototipi o riciclaggi dei vecchi – vengono prodotti senza chiedere all’esercito di cosa avrebbe bisogno.
Parlo ad esempio dei veicoli di fanteria, come il Lazar, la cui prima generazione non è mai entrata in uso nell’esercito serbo ma la cui produzione è stata però ultimamente riavviata per fini commerciali. Ora sta entrando in funzione la terza generazione del Lazar. Fonti dell’esercito sostengono che non sia un cattivo mezzo, ma se avessero potuto avere voce in capitolo non avrebbero indicato il Lazar come priorità. L’esercito è stato forzato ad adoperare il Lazar perché i paesi asiatici ed africani che avevano espresso interesse nell’acquistare il mezzo non lo avrebbero fatto se non fosse prima entrato in funzione nell’esercito serbo stesso.
L’aumento della produzione e dei volumi delle vendite è quindi funzionale alle esportazioni e non all’ammodernamento dell’esercito?
Il governo vi vede un’opportunità di vendere prodotti. Quasi sicuramente le entrate delle esportazioni non sono riutilizzate per sostenere nuovi cicli di sviluppo. Per evitare che l’esercito si lamenti, una piccola parte di questi prodotti viene data all’esercito cosicché i soldati abbiano dei “giocattoli nuovi”. Però il sistema non è guidato né da una dottrina militare, né da una strategia di produzione, né da un’idea di sviluppare le forze armate per un ruolo che sia compatibile con la Nato. Non c’è diplomazia militare, ma vengono considerate solo le vendite: si vende quello che si può.
Unicamente per l’interesse dei proprietari delle aziende o anche lo stato, partecipando in larga misura in molte delle aziende principali, ha anche dei ritorni economici diretti?
Vengono pagate le tasse, si creano posti di lavoro. Il governo ad esempio ha aperto, senza alcuna trasparenza, una nuova fabbrica a Velika Plana circa 4 anni fa in cui si producono i nuovi veicoli di fanteria. La fabbrica in sé è abbastanza discreta ma è stata aperta senza alcuna discussione tra gli esperti, senza una giustificazione economica. Mentre il paese ufficialmente è democratico e sta andando verso l’Unione europea, meta che rimane molto lontana, la produzione militare resta, come nei tempi dell’ex Jugoslavia, molto poco trasparente e controllata da un esiguo numero di persone.
I proclami del ministro della Difesa Vulin sul fatto che il rilancio dell’industria sia anche pensato in vista dell’ammodernamento dell’esercito e della sua indipendenza dai partner internazionali sono quindi dichiarazioni esclusivamente di forma?
Il ministro Vulin sta usando le forze armate per fare politica interna. Molti ufficiali da me incontrati affermano che l’esercito ha attraversato una fase di depoliticizzazione dal 2000 fino al 2014. Dopo le forze armate sono state nuovamente politicizzate. Molti ufficiali si auguravano che la politica, una volta uscita dallo Stato Maggiore, ne rimanesse fuori; non è stato così.
Il ministro Vulin quando va a visitare le varie unità parla in un linguaggio politico ma insiste sempre nell’avere dietro di sé ben visibili generali, ufficiali e soldati. Lui è il loro ministro, non possono rifiutare di stare dietro di lui quando lui parla in TV e alla stampa. Ma in molti non si sentono rappresentati. Non politicamente ma istituzionalmente. Vi è ad esempio il caso del sindacato delle forze armate. Pure essendo un sindacato piuttosto debole, è sempre sotto pressione. Recentemente il capo di questo sindacato militare è stato fatto decadere da militare e sembra un ovvio caso di estremo abuso della legalità e della giustizia.
Dicevamo che uno degli strumenti con cui la Serbia vuole rilanciare il suo R&D è attrarre investitori stranieri. Si parlava dell’ingresso di Beretta in Zastava Armi…
Sarà molto difficile attrarre gli investimenti stranieri perché senza trasparenza gli investitori stranieri, almeno dei paesi UE e degli USA, non vedono protetti i loro interessi. Il loro unico interesse sarebbe il costo della mano d’opera.
Parliamo di un ipotetico investitore: potrebbe avere un certo interesse a produrre in Serbia per evitare i controlli dell’export che fa l’UE. Però con la Serbia che ha annunciato di voler entrare nell’Unione l’investimento avrebbe una prospettiva di 5-6 anni, troppo poco…
Inoltre, ribadisco, un investitore straniero vuole avere il controllo della situazione e il mercato interno non è trasparente e viene portato avanti con una rete clientelare. Con questo sistema non viene protetto l’investimento.