Scenario parallelo
E se il fatidico anniversario della campagna Nato non avesse ragione di essere, se le bombe non fossero cadute? Uno scenario parallelo, un gioco di fantastoria, un indovinello che non intende ferire la sensibilità di chi ha visto la storia vera
Di Teofil Pančić, 26 marzo 2009, Vreme (tit. orig. Deset nedogođenih godina)
Traduzione per Osservatorio Balcani e Caucaso: Maria Elena Franco
Non tutti se ne ricordano, ma giusto dieci anni fa, a fine marzo 1999, la Serbia scampò d’un soffio a un intervento militare della Nato. Già nell’autunno 1998 dal mondo diplomatico, politico, economico e dell’informazione arrivavano fortissime pressioni perché Belgrado interrompesse la sua azione in Kosovo e lasciasse, de facto, buona parte della provincia al controllo dell’UCK. Milošević sembrava però seriamente deciso a non cedere, neanche a costo di un "bombardamento" (purtroppo sarà sempre impossibile valutare verosimilmente se sarebbe stato giusto, quanto sarebbe durato, come sarebbe stato e quali effetti avrebbe provocato). L’allora presidente americano Bill Clinton non poteva permettere un tale "colpo" all’autorità di una grande potenza…e tutto questo portò – in una cornice di assoluta legalità – a una catastrofe di dimensioni inimmaginabili. Nessuno ha mai fornito una spiegazione plausibile del perché sia stato sospeso all’ultimo minuto (accordi segreti il cui senso ancor oggi ci sfugge? Ragioni interne americane? Influenza della Russia o della Cina?), ma dell’intervento militare non se ne fece più nulla: l’Occidente abbandonò la Serbia al destino che si era scelta, confinandola in una sorta di quarantena, senza riferimenti in Europa e circondata da "un cordone sanitario" di paesi a lei fedeli. E qui siamo anche oggi: o in quarantena o in esilio. Milošević ha inteso questa quarantena come una rinuncia alla Serbia, come un tacito permesso a fare ciò che vuole "al suo interno"; ora sappiamo cosa vuole, in caso qualcuno non l’avesse ancora capito.
Sarà questa primavera indecisa tra pioggia e sole, sarà il malinconico ozio dell’emigrante (come dice la mia amica e vicina Svetlana Lukić, caporedattore di Radio free.b92.net), ma in questi giorni continuo a pensare: cosa sarebbe stato se fosse andata diversamente? Se ci avessero, mettiamo, bombardati? Ci sarebbero state terribili distruzioni e uccisioni in un mondo che non se lo meritava, questo è certo…ma cosa sarebbe successo, poi, dato che nemmeno la distruzione può durare all’infinito? L’intervento avrebbe potuto in qualche modo aiutare a spodestare tutti i folli tiranni, portare forse un futuro completamente diverso e migliore per la Serbia? Probabilmente sto solo fantasticando, probabilmente sarebbe stato semplicemente peggio rispetto ad oggi (possibile, peggio di così?). Del resto, c’è qualcosa di insopportabilmente amorale e cinico nel fantasticare sui possibili effetti collaterali benefici di qualcosa di così terribile come la guerra. Per questo scaccio questi pensieri sterili come noiose zanzare.
Ciò su cui tuttavia "posso" riflettere sono questi nostri dieci anni disperati. Presto saranno esattamente nove anni da quando sono emigrato; per tutto questo tempo ho lavorato insieme ai colleghi al sito www.vreme.org. Non che si tratti di un destino affascinante – mi ricorda più un romanzo di Sergej Dovlatov – ma al diavolo, sono fiero del fatto che siamo rimasti insieme. Solo uno di noi è rimasto in Serbia, "a servire la più alta causa patriottica", per (non) dirigere la copia di regime di "BPEME". Ancora oggi mi capita di sognare il nostro ufficio in via Mišarska, immaginando invidioso creature che oggi lo dissacrano. A volte Žare, il nostro direttore, dice che non vale la pena piangere sul latte versato; lo so anch’io, ma non posso farci niente.*
Comunque sia, sono trascorsi dieci anni, e il nostro caro dittatore è più in forma che mai. Circolano in continuazione voci sui suoi problemi di cuore e di pressione, ma si tratta più che altro dell’espressione di una maligna, impotente frustrazione. Non ha mai amato molto comparire in pubblico, e negli ultimi anni mette a malapena il naso fuori dal suo castello. Da tempo ha lasciato le dichiarazioni e le direttive ideologiche alla sua intelligente sposa; e poi c’è anche il premier Vučelić, col suo inveire contro i "nemici esterni e interni, di tutti i colori", fedele giornalista di poco conto, decente signor rettore, sul modello dei "dediti nazionalisti" e della restante rispettosa intellighenzia… Mm, nemici interni? Perché, ormai non li hanno già fatti fuori e rinchiusi tutti? Zoran Đinđić e compagnia sono già ai lavori forzati da otto anni e mezzo – tutto il mondo protesta per questo, inclusi i vari Chomsky, Žižek, Bono e Habermas, ma come volete che importi al nostro leader? Finché ha i prodotti russi e la fraterna protezione di Lukashenko, non ha molto da preoccuparsi. Certo non delle residue larve di "opposizione leale", guidate da un incredibile Koštunica, che nella sua eterna, compita cortesia ritiene che "non sia il momento" di occuparsi di inezie come l’eliminazione in massa degli avversari politici del regime – i più fortunati vanno in gattabuia, gli altri al fronte, dove si perde ogni traccia. Proprio "ora che ci battiamo per il nostro santo Kosovo", ci mancherebbe altro.
Anche questa è una battaglia fruttuosa, con molti morti: le costanti mobilitazioni di questi anni in Serbia sono brutali raggruppamenti di carne da macello, e laggiù, serbi e albanesi, abbandonati al loro disgrazie, si scontrano già da dieci anni: e cos’abbiamo alla fine? Decine di migliaia di morti (tutti nascondono i numeri esatti), moltissimi feriti, due società impazzite trasformate in tirannie, e se il Kosovo alla fine non è "albanese", figuriamoci se è "serbo". Per l’esattezza, non è di nessuno. La domanda è se sopravvivrà qualcosa di buono, così che un giorno possa essere di qualcuno. Tuttavia, pare realizzarsi proprio ciò che all’inizio sembrava uno stupido scherzo: che quel folle tiranno di Dedinje riuscisse a tenere il suo discorso a Gazimestan alla fine di giugno, a festeggiare i vent’anni dal suo primo discorso – soltanto lui sa cosa c’è da festeggiare. Comunque sia, si stanno correndo grossi rischi, qui attorno ci sono battaglie e roccaforti UCK, ma per Milošević, questo bisogna riconoscerglielo, l’egoismo è più forte della paura.
So che questo articolo susciterà centinaia di commenti spazientiti del tipo "queste sono solo lamentele sterili di un emigrante, ma cosa dobbiamo fare?". Non lo so. Non sono intelligente. Ho l’impressione che tutti ci abbiano lasciato a sbriciolarci, in un paese di miseria e paura, in malinconica emigrazione. In otto anni di amministrazione del presidente Al Gore, l’opposizione illegale serba ha ricevuto qualche spicciolo e una pacca sulla spalla, ma cos’è cambiato con questo? Vedremo cosa faranno i repubblicani. Ma cosa vuoi che facciano. Soprattutto, che cosa si può fare?
L’insoddisfazione si fa sempre più sentire nel paese, e il Dittatore fa sempre più fatica a trovare le guardie del corpo per questo regime. Scoppierà anche questo bubbone, deve scoppiare – e sarà un evento memorabile, anche se rilascerà molto odore. Nel frattempo, leggete vreme.org se potete! E abbiate cura di voi!
* Il riferimento è a Dragoljub Žarković, direttore di "Vreme" (N.d.T.)