Processo Ðinđić: la fase conclusiva
A quattro anni dall’omicidio del premier Zoran Djinjdic e dall’inizio della fase istruttoria, il più complicato e difficile processo della storia della giustizia serba sta volgendo al termine. Ma se sono stati individuati gli esecutori materiali non è così per i mandanti
Il lungo e faticoso processo per l’omicidio del premier Zoran Djindjic sta volgendo al termine. E’ in corso la fase conclusiva dell’esposizione del procuratore, dell’avvocato della famiglia Djindjic, dell’avvocato delle parti lese e dell’avvocato della difesa, dopo di che è attesa la sentenza del Consiglio del Tribunale guidato dalla giudice Nata Mesarevic.
Il processo per l’omicidio del premier sarà concluso soltanto quando la sentenza del Consiglio del Tribunale verrà confermata dalla Corte suprema della Serbia. Questo storico processo dovrebbe chiarire chi ha assassinato il premier Djindjic, ma a quanto pare non riuscirà a rivelare chi ha ordinato e organizzato l’attentato, e anche il motivo dell’omicidio.
In un editoriale uscito il 30 aprile scorso sul quotidiano "Politika", Ljubodrag Stojadinovic sottolinea che il problema di questi processi inizia soltanto dopo la sentenza. Stojadinovic afferma che davanti ai giudici si trovano "soltanto coloro i quali hanno sparato, o che sono stati parte della squadra operativa, e che il tribunale si occuperà soltanto dei fatti, che per ora indicano che tutto è stato concepito nella mente di Ulemek, Lukovic e Spasojevic".
Stojadinovic in modo un po’ ironico aggiunge: "Il premier (probabilmente) è stato ucciso dal sindacato di Kula insieme ai violenti di Zemun". Si intende, sono in pochi in Serbia a credere che questo sia stato lo scenario, e che i tre menzionati, aiutati da alcuni criminali locali, siano stati in grado, senza l’aiuto di altre strutture, di pianificare, organizzare e portare a termine l’attentato contro il premier.
Ricordiamo che il premier della Serbia, Zoran Djindjic, fu ucciso il 12 marzo 2003. In quell’occasione rimase gravemente ferito Milan Veruovic, il capo della scorta di Djindjic. Per l’omicidio del premier sono stati accusati Milorad Ulemek Legija, ex comandante della famigerata Unità per le operazioni speciali (JSO), i membri della JSO Zvezdan Jovanovic, accusato di aver sparato contro il premier, Zeljko Tojaga e Sasa Pejakovic, i membri del cosiddetto clan di Zemun i fratelli Milos e Aleksandar Simovic, Ninoslav Konstantinovic, Vladimir Milisavljevic Budala, Sretko Kalinic, Milan Jurisic, Dusan Krsmanovic e Dejan Milenkovic, il quale dal giugno del 2005 gode dello status di collaboratore di giustizia.
Il processo è iniziato il 22 dicembre del 2003 e in questo lasso di tempo sono stati ascoltati più di 150 testimoni, sono state presentate numerose prove scritte, sono state condotte perizie, inclusa anche la perizia degli esperti di Wiesbaden. Deposizioni davanti al Tribunale speciale per il crimine organizzato sono state rilasciate anche dai quattro collaboratori di giustizia.
Sin dall’inizio del processo, gli esperti hanno detto che si tratta del più complicato processo della storia della giustizia serba. Secondo le parole di Omer Hadziomerovic della Società dei giudici della Serbia, il processo per l’omicidio del premier è il primo processo per crimine organizzato in Serbia e come tale sicuramente getterà le basi per i futuri processi concernenti il crimine organizzato.
Fra l’altro, alle obiezioni sulla lungaggine del processo, parte degli esperti risponde che tutto ciò era necessario visto il peso e l’importanza del processo, valutando che la giustizia comunque ha mostrato di essere all’altezza di questo difficile compito.
Filip Svarm, giornalista del settimanale "Vreme", in una dichiarazione per l’emittente B92 afferma che il tribunale ha svolto bene il suo lavoro e che si aspetta che si pronunci con il massimo della pena per gli esecutori dell’attentato. Svarm aggiunge: "In Serbia questo è il processo del secolo, certamente il processo più difficile e più complicato dove i giudici e la procura sono stati sottoposti ad una forte pressione".
Il processo per l’omicidio del premier è stato caratterizzato da numerosi problemi, a partire dall’omicidio del collaboratore di giustizia Zoran Vukojevic Vuk, all’aggressione contro la sorella del premier Djindjic, al cambiamento del presidente del Consiglio del Tribunale quando abbandonò l’incarico il giudice Marko Kljajevic, fino alle numerose minacce e pressioni contro la procura e i giudici.
Alla fine di questo lungo processo, Jovan Prijic, il sostituto del procuratore speciale, per primo ha esposto la requisitoria, chiedendo che il consiglio del tribunale dichiari gli accusati per l’omicidio del premier Djindjic colpevoli e applichi la pena prevista dalla legge. Come riportato dal quotidiano "Politika", Prijic ha iniziato la requisitoria con le seguenti parole: "Il premier della Serbia, il dottore in filosofia e sociologia Zoran Djindjic è stato ucciso da un membro del MUP Ministero degli Affari Interni della Serbia e dell’Unità per le operazioni speciali, Zvezdan Jovanovic, che ha ammesso ciò in modo dettagliato e senza ambiguità durante la fase pre-dibattimentale".
Prijic ha aggiunto che "l’omicidio del premier è opera di falsi combattenti e di falsi patrioti che pensavano che dopo l’omicidio di Djindjic nessuno, per paura, avrebbe osato occuparsi dei loro crimini". Il sostituto del procuratore speciale ha detto che il motivo dell’omicidio del premier è stato ideato da Ulemek perché Djindjic gli aveva detto che la JSO sarebbe stata sciolta e che i suoi membri sarebbero stati consegnati all’Aja.
Il patrocinatore della famiglia Djindjic, Rajko Danilovic, ritiene che l’arringa finale di Prijic sia stata un’eccezionale analisi legale della situazione dei fatti con la quale si rende più facile al consiglio del tribunale di pronunciare la sentenza. Danilovic nella sua esposizione conclusiva ha sottolineato che l’accusa per l’omicidio Djindjic è stata interamente dimostrata, ma non sono stati chiariti i motivi e il retroscena politico dell’omicidio. Come riportato da B92, Danilovic ha detto che "l’indagine si è occupata timidamente del retroscena dell’omicidio, e per questo non è chiaro chi abbia sostenuto e incoraggiato i colpevoli e chi durante il processo del tribunale gli ha dato una falsa speranza che sarebbero stati liberati". Danilovic ha chiesto il massimo della pena per gli accusati.
Anche il rappresentante legale della famiglia Djindjic, Srdja Popovic, nell’arringa finale ha sottolineato che l’accusa è stata dimostrata interamente e ha chiesto che gli accusati vengano dichiarati colpevoli e che vengano condannati secondo la legge. Dal sunto dell’arringa, così come riportato da tutti i media locali, Popovic ha sottolineato che "la colpa delle persone che sono sedute sul banco degli accusati è banale" aggiungendo che in "un eventuale prossimo processo per l’omicidio del premier si scoprirà chi ha partecipato all’organizzare e ha ordinato l’attentato".
Popovic ha rinnovato la richiesta che in un dibattimento aperto sull’omicidio del premier vengano ascoltati Vojislav Kostunica, il ministro della polizia Dragan Jocic, il direttore dell’Agenzia informativa di sicurezza (BIA) Rade Bulatovic, il direttore della Radio televisione serba Aleksandar Tijanic e altri che potrebbero, secondo le sue parole, chiarire ulteriormente i motivi dell’omicidio di Djindjic. Dopo che il tribunale ha rifiutato questa richiesta, Popovic ha ribadito che considera questa una pessima mossa, perché grazie al mancato chiarimento del retroscena politico dell’omicidio, la società serba subirà grandi conseguenze, e che le diverse versioni dell’attentato continueranno a dividere una società già divisa.
Nell’arringa finale Slobodan Milivojevic, il difensore di Milorad Ulemek, il principale accusato, ha sottolineato che questo processo non fornirà la risposta alla domanda su chi ha ucciso Djindjic, accusando i media che negli ultimi tre anni hanno anatemizzato in modo ripetuto e meditato il suo cliente. Milivojevic aggiunge che l’accusa contro Ulemek non è stata dimostrata.
Nenad Vukasovic, il difensore di Zvezdan Jovanovic accusato di aver ucciso Djindjic, ha affermato che Djindjic è stato ucciso da gente potente dell’estero. Come riporta "Politika", Vukasovic ha detto che Djindjic è stato ucciso "da quelli di là, coloro coi quali è sceso in conflitto e che lo hanno portato al potere" e ha aggiunto che "la storia insegna che chiunque si sia posto contro chi gli ha concesso il potere, è rimasto senza la testa". Vukasovic ha fatto appello al giudice di non cedere alla pressione dell’"opinione pubblica isterica" e ha chiesto che venga emessa una sentenza secondo la quale Zoran Djindjic è stato ucciso da ignoti che non sono né la JSO né il clan di Zemun.
Anche gli avvocati degli altri accusati per l’omicidio del premier Djindjic hanno chiesto la liberazione dei loro clienti. Solo l’avvocato Veljko Delibasic non ha negato la colpa del suo cliente, Dusan Krsmanovic.
Esponendo il discorso conclusivo, indossando una maglietta nera con il simbolo della JSO, il lupo con le fauci aperte, il primo accusato Ulemek, guardando dritto negli occhi la giudice Mesarevic ha detto "io, Ulemek Milorad, non ho ucciso il premier". Ulemek ha chiesto al tribunale un processo equo e ha detto di aver cambiato la sua decisione di non essere presente durante il processo perché ha ricevuto numerosi messaggi dai suoi ex "compagni di lotta" e dalla famiglia, e perché aveva bisogno di difendere "l’onore e la dignità dell’unità speciale".
Ulemek, come riportato da "Politika", ha detto che nessuno degli accusati è responsabile dell’omicidio del premier, e che per una cosa del genere non avevano abbastanza coraggio. Anche Ulemek, come il suo avvocato, ha paragonato il processo per l’omicidio del premier serbo con l’omicidio del presidente americano Kennedy sottolineando che allora, per fare in fretta fu arrestato e processato Lee Oswald, la cui colpa, secondo l’opinione di Ulemek, tutt’oggi non è stata provata.
Infine, ricordiamo che la pena massima per gli atti penali più gravi, tra i quali figura l’omicidio del premier, è di 40 anni di reclusione. Resta anche da vedere se il tribunale emetterà la sentenza secondo il vecchio Codice penale, che era in vigore nel periodo in cui è iniziato il processo, o secondo il nuovo Codice penale del 2006. Una cosa è chiara: il tribunale ha l’obbligo di applicare la legge che è più vantaggiosa agli imputati. Resta però da definire quale delle due effettivamente lo sia. In entrambi i casi la pena massima è di 40 anni.