Leonid Šejka, anima dell’avanguardia jugoslava

Cinquant’anni fa a Belgrado moriva Leonid Šejka, uno dei fondatori di Mediala, il più importante movimento d’avanguardia nell’ex Jugoslavia. Uno sguardo alla vita e all’opera di questo straordinario e versatile artista

31/12/2020, Božidar Stanišić -

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Particolare di "Frontalna postavka" (Allestimento frontale) - 1956 - Leonid Šejka

La cosa più giusta da fare – se solo fosse possibile – sarebbe lasciare che in questo articolo il grande pittore e pensatore Leonid Šejka parli di sé attraverso i suoi quadri , le sue riflessioni, le sue lettere e le canzoni che cantava volentieri per i suoi amici accompagnandosi con la chitarra. (I suoi amici sostenevano che Šejka cantasse le canzoni di Okudžava meglio di questo grande cantautore russo!) Ma ciò non è possibile né in Italia né in nessun altro posto al mondo, ad eccezione della Germania dove a Šejka è stata dedicata una monografia prima ancora che nel suo paese natale.

Šejka chi?

Purtroppo, è una domanda del tutto logica in questo periodo dominato dalla pseudocultura e dalle sue galline dalle uova d’oro, come Marina Abramović, tanto care ai principali musei e gallerie d’arte contemporanea del mondo.

Šejka, vita e opere

Leonid Šejka nacque nel 1932 a Belgrado. Suo padre, Trofim Vasiljević, di origine russa, era un ex ufficiale dell’esercito zarista, e sua madre, Katarina Zisić (Zisijadis), era di origine greca. La signora Zisić ci teneva molto all’educazione e alla cultura. Leonid frequentò la scuola elementare russa, e poi il ginnasio. Successivamente si iscrisse ad un istituto tecnico superiore, indirizzo architettura, superando tutte le prove.

“Fu selezionato per ricoprire l’incarico di direttore di cantiere dell’albergo Morava a Čačak. Trovatosi in un ambiente claustrofobico, a svolgere un lavoro idiota con delle persone idiote, come diceva lui stesso, visse una crisi spirituale e, cogliendo di sorpresa gli operai, si presentò al lavoro con la testa rasata, lasciandosi crescere una barba piuttosto lunga…”, scrive Dejan Đorić, autore di una biografia di Šejka. E prosegue: “In quell’atmosfera kafkiana sperimentò una svolta interiore, una conversione o una rinascita. Iniziò a disegnare e a scrivere, lasciò il lavoro di propria volontà e riuscì ad iscriversi alla Facoltà di Architettura di Belgrado. Iniziò gli studi da erudito. Molto presto acquisì una cultura grandiosa, borgesiana. Studiava, come pochi altri, in modo approfondito, sistematico, una materia alla volta, seguendo l’ordine alfabetico. ‘Sono partito dall’astronomia. Sono passato all’atomistica, e poi alla biologia. Poi ho potuto constatare che sono ordinate in base al livello di evoluzione dei fenomeni da esse studiati. Mi sono sentito solo’ (Šejka, 1955-56). Il suo sapere enciclopedico ha determinato lo sviluppo della sua dialettica del fantastico, gli ha permesso di spaziare con facilità tra diverse materie spirituali, lungo l’asse verticale e quello orizzontale della storia, elaborando così idee radicali…”.

Quando parlava di sé Šejka non menzionava mai queste cose né tante altre. “Sulla mia vita precedente, in breve: l’infanzia, nulla di speciale. Osservando me stesso di allora, faccio fatica a riconoscermi. Vedo solo una coscienza oscura, o meglio, un’oscurità nella coscienza. E poi l’ascesa, il progresso, un certo rischiaramento, con cui ho raggiunto solo una mediocrità assoluta. Le feste, giocare a calcio, raccogliere i capelli durante la notte, imparare una nuova canzone per il giorno dopo. Un giorno sono entrato in una biblioteca. Sul tavolo erano sparsi alcuni libri. Mi è venuta la voglia di acquisire il sapere. Sono partito dall’astronomia. Per me l’astronomia era una scienza poetica. Mi offendeva la tendenza a sottolineare l’utilità pratica dell’astronomia. Il cielo stellato è uno spazio in cui è possibile vagabondare liberamente con il pensiero. La luna, osservata attraverso un telescopio, anziché una piccola lastra piatta, appariva simile a una terra ruvida, rotonda e secca. Mi eccitava il suo tragico galleggiare nel vuoto”.

Questo è quanto scrisse di sé. Lui, Leonid Šejka. È l’autobiografia più breve che io abbia mai letto. Solo chi ha capito che tutto sta nell’opera, perché l’opera è tutto, può parlare così di se stesso. Alcuni seri critici d’arte ritengono che Šejka fosse più avanti rispetto al suo tempo: aveva preannunciato il neodadaismo, l’arte oggettiva, la box art e l’iperrealismo, dando inoltre un notevole contributo al concettualismo. Fu probabilmente il primo artista jugoslavo ad avvicinarsi all’arte informale. Un suo quadro intitolato “Muzejska postavka” [Un allestimento museale, 1956] è considerato come il primo esempio della cosiddetta “pittura della memoria” (D. Đorić).

Tenne dodici mostre personali, di cui alcune all’estero (Monaco di Baviera, Basilea, Berna, Roma, Praga, Francoforte, Alessandria). Nel 1972 a Belgrado gli venne dedicata una grande mostra retrospettiva.

Anima e colonna portante del gruppo Mediala

Nessun altro movimento artistico nell’ex Jugoslavia lasciò così tante tracce profonde, annunciando nuove tendenze, come fece il gruppo Mediala negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Šejka ben presto divenne anima e colonna portante di questo gruppo di artisti le cui idee erano diametralmente opposte a quelle all’epoca considerate accettabili, per non parlare del gusto del pubblico e della critica. (Dopo la morte di Šejka il gruppo interruppe l’attività, continuando però ad esercitare la sua influenza.) Cito anche altri membri del gruppo Mediala che successivamente sono diventati noti nel mondo dell’arte europea e internazionale, come Dado Đurić, Vladimir Veličković, Mića Popović, Olja Ivanjicki… Esprimevano i loro ideali concretamente, attraverso le loro mostre. Il primo nucleo del gruppo (Šejka, Ivanjcki, Glavurtić, Radovanović) si presentò per la prima volta insieme nel 1958 con una mostra intitolata “Medijalina istraživanja” [Le ricerche di Mediala], concepita come un percorso tra dipinti, oggetti, fotografie, testi e suoni.

All’epoca pochi critici compresero il significato profetico dell’arte del gruppo Mediala, il cui nome deriva dall’unione di due parole: “med” [termine serbo-croato per indicare miele, inteso come toccasana, ma anche come simbolo dell’unione delle diversità] e “ala” [termine che significa drago, divoratore metaforico di arte]. In quelle parole contrastanti e, al contempo, unificanti, i giovani artisti di Mediala trovarono lo stimolo per allontanarsi completamente dal modello culturale allora dominante. Esprimevano le loro opinioni negli articoli pubblicati sulle riviste Vidici e Student. Alla loro visione dell’arte si avvicinarono anche alcuni intellettuali che in seguito diventeranno grandi scrittori, in primis Danilo Kiš. Oltre alle riflessioni di Šejka sull’unione tra tradizione e tendenze moderne, un’unione ispirata al rapporto tra il rinascimento e la cultura classica e sintetizzata nel concetto di “tradizione del futuro”, riporto una riflessione di Milovan Vidak, autore del Codice del gruppo Mediala: “Devo essere sobrio, concentrato, sveglio e responsabile verso me stesso. Devo comprendere la caducità dell’illusione formale del risveglio della realtà. Non devo perdere di vista l’avvento dell’intelligenza tecnica, determinata dalla legge e dal mondo della devastazione”.

I membri del gruppo Mediala suscitarono sospetti del regime, tanto che gli agenti cominciarono a pedinarli. Ma il potere è sempre tragicomico quando diventa sospettoso nei confronti degli artisti. Dopotutto, il tempo è un galantuomo che, con molta eleganza, getta i governanti miopi e i loro servi nel letamaio della storia (chi ricorda oggi i nomi dei capi della polizia di Belgrado di quegli anni?), tenendo invece i veri valori sul palmo della mano.

Ne è prova anche la retrospettiva delle opere di Leonid Šejka organizzata nel 2017 a Belgrado. A dire il vero, non so quanti cittadini di Belgrado e della Serbia siano consapevoli del fatto che in quel periodo, ormai lontano, Belgrado fu uno dei principali centri delle avanguardie artistiche europee. Se ci fossero più persone consapevoli di questo fatto, forse almeno alcune ambasciate serbe in Europa avrebbero cercato di organizzare una mostra dedicata al gruppo Mediala e, perché no, a Leonid Šejka. Dall’ambasciata serba a Roma ormai non mi aspetto più niente, nemmeno la pubblicazione dell’edizione italiana del “Romanzo di Londra” di Miloš Crnjanski è stata sufficiente per spingerli a organizzare un evento, nonostante si tratti di uno dei più grandi scrittori europei del Novecento.

Transit clasificando

Leonid Šejka pubblicò il suo “Traktat o slikarstvu” [Trattato della pittura] nel 1964 e l’anno successivo vinse il premio letterario Nolit. A quel tempo certi premi avevano un senso e un significato. Lessi il Trattato di Šejka negli anni Settanta, quando ancora studiavo letteratura. Allora ne capii ben poco. Il suo secondo libro, ormai diventato un cult, intitolato “Grad-Đubrište-Zamak” [Città-Letamaio-Castello], pubblicato postumo, lo capii un po’ meglio.

A volte penso: peccato che Šejka non fosse stato un artista inglese, o francese, o un russo della Russia. In tal caso le sue opere sarebbero apprezzate tanto quanto “Lo spirituale nell’arte“ di Kandinsky e sicuramente sarebbero già state tradotte nelle principali lingue del mondo. Peccato, dico, anche se suppongo che, in quel caso, Šejka non sarebbe stato Šejka.

Šejka esercitò un’influenza determinante su Kiš e sul suo concetto di deposito con il suo credo “transit clasificando”, passo catalogando quindi esisto. In occasione della morte dell’amico, Kiš scrisse uno dei suoi saggi più brevi e più belli. Cito l’ultima frase: “Allievo di Berdjaev e degli esistenzialisti, ha attraversato la vita da saggio, da vecchio saggio: riappacificato con la morte e riconciliato con la vita, portando nella sua breve e ricca vita come unico bagaglio la sua ricchezza spirituale, la sua coscienza artistica e la sua infinita bontà da saggio”.

Leonid Šejka e Marija Čudina

Leonid Šejka e Marija Čudina

Šejka morì lo stesso giorno in cui si spense Vermeer e nacque, come in un mistico gioco di numeri molto importanti per la storia dell’arte, esattamente tre secoli dopo la nascita del grande pittore olandese.

La prima moglie di Šejka, la poetessa croata Marija Čudina (1937-1986), una delle voci poetiche più peculiari del dopoguerra, è autrice della prima monografia dedicata a Šejka in Jugoslavia. (La seconda monografia, edita in versione bilingue serbo-inglese, scritta da Dejan Đorić, è stata pubblicata nel 2007.) La Collezione memoriale di Leonid Šejka, presso il Museo d’Arte contemporanea di Belgrado, che custodisce la maggior parte delle opere dell’artista, fu fondata invece principalmente grazie all’impegno della seconda moglie di Šejka, Ana Čolak-Antić. Alcune opere di Šejka fanno parte dell’esposizione permanente del Museo.

“A volte mandiamo lettere all’indirizzo giusto, ma non riceviamo alcuna risposta”, scrisse Šejka nella prima lettera inviata a Marija Čudina. Tutte le altre “lettere” Šejka le ha inviate attraverso le sue opere, dall’indirizzo giusto dell’arte.

Vale la pena vedere i suoi quadri e chi li vede una volta li porta dentro di sé, come una risposta inaspettata, per sempre.

Il Letamaio per me ha significato una messa alla prova transitoria dell’arte moderna; con ciò per me è finita l’arte moderna.

Se potessi ritornare alla vita (alla forza vitale) dipingerei in modo da trarre la massima gioia dalla pittura, seguendo l’esempio degli antichi maestri, anche a costo di non essere originale.Mi riferisco ai dipinti intrisi di significato.Ora che me ne sto andando dico a tutti quelli che seguono questa strada di proseguire senza temere rischi.La pittura è una forma di preghiera.(L’ultimo manifesto di Šejka, scritto poco prima della morte.)Su quella strada Šejka si è reso conto che ogni volta che questo filo si spezza si assiste all’entropia dell’eccedenza, all’accumularsi di cose inutili – alla materializzazione del mondo e dell’uomo, intesa in senso heideggeriano. È come se in questo rapporto tra passato, presente e futuro ci fosse una misura che è l’essenza del Mondo, ma che di tanto in tanto svanisce. Šejka ha sublimato questo processo nella parabola Città-Letamaio-Castello, paragonandola poi in un suo testo con Inferno-Purgatorio-Paradiso di Dante, volendo così sottolineare che quella parabola ha un significato metafisico. La Città è l’habitat umano – quindi il Mondo – in cui l’uomo, perdendo l’appoggio che lo lega all’armonia cosmica, crea uno spazio accumulando oggetti che diventano inutillizabili e perdono il loro significato principale, trasformandosi con quella perdita nel loro opposto. Questa contrapposizione e la resistenza al senso e al significato originario creano il Letamaio. L’unica via d’uscita da questa ‘cattiva eternità’ è quella di riconquistare la fiducia nel Mondo, cioè in se stessi, così il sogno del Castello riacquisterà il senso, riconquisterà la patria dimenticata in cui si concretizza il senso della vita. (Branko Kukić)

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