Il tempo passa
Con l’arresto di Karadžić si intravedono grandi cambiamenti sulla scena politica serba. Chi esce battuto da tutta questa vicenda non è tanto l’ex presidente della RS ma i radicali, il maggior partito della destra nazionalista, ormai destinato ad un drastico ridimensionamento
Radovan Karadžić, l’ex leader dei serbi di Bosnia e accusato dal Tribunale penale dell’Aja, sta trascorrendo la sua prima settimana nel carcere di Scheveningen, preparandosi per la difesa.
Nella sua prima comparsa davanti al tribunale, Karadžić si è rifiutato di rispondere all’accusa di genocidio e di crimini contro l’umanità nei confronti della popolazione non serba durante la guerra in Bosnia Erzegovina. L’accusato si è appellato al diritto di rimandare di trenta giorni la sua dichiarazione di fronte ai giudici, fornendo come spiegazione la necessità di preparare la difesa sull’accusa allargata già annunciata dal capo procuratore Serge Brammertz. La prosecuzione del processo è stata fissata per il 29 agosto. Karadžić ha dichiarato che si difenderà da solo, cosa che ha già fatto durante la prima udienza. Come riportato dall’agenzia Beta, Karadžić ha detto di avere "un consigliere invisibile" che lo aiuterà nella difesa.
Maestro di manipolazioni e inganni, come è stato descritto dalla stampa serba, anche durante la sua prima udienza Karadžić ha messo in scena la sua rappresentazione. Egli ha esposto una serie di accuse sul conto della Serbia ed anche sul conto degli ex alleati occidentali. Nonostante l’avvertimento del giudice Alphons Orie che non tollererà alcuna ostruzione e politicizzazione del processo, Karadžić ha ribadito tranquillamente che più dell’accusa teme che la mano lunga dei servizi americani possa tentare di eliminarlo mentre è in carcere.
Psichiatra per vocazione, poeta per sensibilità, e politico per necessità, come si è spesso autodefinito, Karadžić ha dichiarato di voler rendere noto che il tribunale è in possesso di informazioni errate sulla data della sua cattura. Karadžić e il suo team legale di Belgrado affermano che l’arresto è stato eseguito tre giorni prima che venisse resa nota la notizia, aggiungendo che ci sono state parecchie irregolarità nella procedura del suo arresto e nella consegna al Tribunale dell’Aja.
Tuttavia, la parte che ha destato più attenzione di tutto ciò ha detto a Karadžić, riguarda le indiscrezioni sul fatto che gli era stato garantito che non sarebbe stato processato all’Aja. Karadžić afferma che con l’allora inviato speciale Richard Holbrooke e il governo degli USA aveva raggiunto un accordo sul suo ritiro dalle funzioni pubbliche e sulla possibilità di implementare l’Accordo di Dayton. In cambio, a Karadžić sarebbe stato garantito che non sarebbe stato estradato all’Aja. Karadžić ha aggiunto che lo State Department aveva cercato di impedire che l’accusa venisse sollevata, ma ci fu il rifiuto dell’allora capo procuratore Richard Goldstone.
La tesi dell’accordo con Radovan Karadžić non è nuova. Se ne è già parlato negli anni scorsi, e la magistratura serba per i crimini di guerra ha indagato sulle supposizioni relative a questa accusa, ma l’esistenza di documenti che confermerebbero la versione di Karadžić non è mai stata dimostrata.
In una dichiarazione per la CNN, Richard Holbrooke ha negato fermamente le supposizioni. L’ex negoziatore afferma che ci fu un accordo con Karadžić per il suo ritiro dalla funzione di presidente della Republika Srpska e dalla presidenza del Partito democratico serbo (SDS). Holbrooke sostiene che l’unico accordo raggiunto fu con l’allora presidente della Serbia Slobodan Milošević, con il quale si era stabilito che Karadžić dovesse abbandonare le sue funzioni pubbliche. Come riporta B92, Holbrooke ha dichiarato che "nel giugno 1996, a Belgrado, con Milošević e due collaboratori di Karadžić si era negoziato sull’accordo che avrebbe portato quest’ultimo a ritirarsi dal posto di presidente della Republika Srpska e dal suo partito politico e a scomparire dalla scena politica. Karadžić ha firmato poi quell’accordo malvolentieri, nonostante non fosse presente ai negoziati. Dopodiché si è inventato questa storia falsa per difendersi".
Tra l’opinione pubblica serba proseguono le speculazioni sull’accordo Karadžić-Holbrooke. La notizia dell’arresto è ormai quasi dimenticata. La frenesia che aveva catturato i media serbi nei primi giorni, sulla nuova identità di Karadžić, sui suoi movimenti, i suoi amori, i suoi collaboratori, con le confessioni di persone che erano state in contatto con lui, si è spenta del tutto, proprio come le proteste per il suo arresto.
È rimasta solo l’attenzione sulla storia dell’accordo. L’opinione pubblica locale, abituata a numerose teorie cospirative, in questi giorni si ciba di nuove "prove" su come gli americani avrebbero "venduto" l’ex presidente della Republika Srpska.
E mentre si specula su chi ha tradito chi, si fa un gran parlare di nuovi arresti. Il quotidiano belgradese "Blic" ha scritto che a breve Ratko Mladić potrebbe trovarsi nel carcere di Scheveningen. La pressione sull’ex generale giunge ormai anche dai politici. Il capo dell’ufficio per la collaborazione con il Tribunale dell’Aja, Rasim Ljajić ha dichiarato che sarebbe meglio se Mladić si consegnasse. Ljajić, però, non ha confermato se Mladić si trova in Serbia, e da queste parti nessuno si aspetta che Mladić si consegni da solo. Si dice che Mladić sia difeso da una scorta armata e che non ha intenzione di "consegnarsi vivo".
L’onda che ha investito la Serbia dopo l’arresto di Karadžić avrebbe potuto essere uno tsunami. Ma non lo è stato. Resta da vedere se ciò è dovuto al crollo della retorica nazionalista e alla maturazione della democrazia serba. Ad ogni modo è evidente che l’arresto di Karadžić è passato in modo indolore, più di quanto non ci si aspettasse, e a parte gli incidenti avvenuti nel centro di Belgrado, la Serbia e i suoi cittadini non hanno avvertito gravi conseguenze.
È opinione comune che il nuovo governo sia riuscito a superare uno degli esami più difficili. E nonostante il ministro dell’Interno Ivica Dačić, del Partito socialista della Serbia (SPS), si sia lavato le mani dicendo che la polizia non ha preso parte all’arresto di Karadžić, e che la sua collega di partito e presidentessa del parlamento Slavica Ðukić Dejanović abbia versato lacrime di coccodrillo per ogni persona che, come l’ex presidente Milošević, è stata consegnata in segreto e illegalmente all’Aja, è chiaro che l’SPS è ormai deciso a liberarsi dall’eredità del passato.
Ma il perdente maggiore non è Radovan Karadžić. Probabilmente anche lui sospettava che un giorno o l’altro gli avrebbero organizzato un volo speciale per l’Aja. I veri perdenti, ancora una volta negli ultimi sei mesi, sono i rappresentanti del Partito radicale serbo (SRS). A Belgrado si insiste parecchio sul fatto che il meeting organizzato dal SRS in difesa di Karadžić è stato probabilmente l’inizio della fine del SRS come lo abbiamo conosciuto dagli anni novanta ad oggi.
L’impensabile diventa realtà, si intravedono le fratture interne, le rotture nelle relazioni Nikolić – Šešelj e le sue propaggini a Belgrado. Aleksandar Vučić da settimane non riesce a placare la sua rabbia, in particolare di fronte alla sempre più probabile coalizione tra il Partito democratico (DS), il G17 plus, l’SPS e il Partito liberal democratico (LDP), che amministrerà la città di Belgrado.
L’immagine di un partito pacifista ma patriottico, orientato verso i problemi sociali, creata premurosamente con l’aiuto esperto dei più famosi PR internazionali, è stata mandata in frantumi dal SRS nei giorni dell’arresto di Karadžić. Non solo per il fatto che i media gli hanno voltato le spalle, a causa delle botte prese dai giornalisti durante il raduno dei radicali, non solo perché alcuni radicali (Verica Radeta) hanno minacciato il presidente Tadić e hanno gettato maledizioni contro di lui e la sua famiglia fino all’undicesima generazione, non solo per il fatto che sono riusciti a radunare solo poco più di 15.000 persone nella piazza centrale di Belgrado (cifra che è meno della metà del numero di sostenitori scesi in piazza durante la loro campagna elettorale), ma bensì perché non sono riusciti ad impedire le scorribande e le distruzioni a Belgrado, le violenze per le strade e le distruzioni ad opera di giovani con indosso un passamontagna. Invano il leader dei radicali Tomislav Nikolić si è infiammato con discorsi del tipo: "ragazzi non distruggete". I ragazzi hanno lanciato oggetti contro la polizia, incendiato i cassonetti dell’immondizia, divelto i vasi delle aiuole e distrutto le vetrate delle finestre.
Secondo uno schema già vecchio, sintetizzando molto le cose, l’SRS era un partito di destra. Proprio come il Partito democratico della Serbia (DSS) e Nuova Serbia (NS). Oggi, la destra in Serbia non c’è più, dicono gli esperti, ma c’è un ampio spazio per far sì che si formino dei partiti di destra. La formazione politica che lo capirà avrà un notevole bacino di elettori in futuro. Ma non sarà di sicuro un partito che continua a parlare di nazionalismo, serbità, tradimenti, divisioni, non sarà quel partito per il quale l’unico punto del programma è il Kosovo. Quel tempo ormai è passato.