Il soft power dell’Unione europea

Diario di viaggio di una delegazione di europarlamentari a Belgrado, nel decennale della caduta di Milošević. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

17/11/2010, Paolo Bergamaschi -

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Belgrado (Foto Jorge 11, Flickr)

La guerra è finita. La guerra vissuta, temuta, perduta, subita è finita undici anni fa. I ponti sul Danubio e la Sava sono stati ricostruiti permettendo alle imbarcazioni di riprendere il lento corso della corrente mentre le macerie dei bombardamenti “chirurgici” sono state rimosse e le cicatrici sostituite da nuove imprese di architettura moderna. Le cicatrici dei cuori, però, sono ancora evidenti e periodicamente si infiammano deformando i tessuti e ricordando improvvisamente che molto, forse troppo, resta ancora da fare per ricostruire uno spazio geografico, umano, sociale e culturale dove tutti si sentano a proprio agio e si cominci a gettare solide basi per un futuro davvero comune riconciliato con il tragico passato recente.

Il mio arrivo a Belgrado era stato preceduto da un incontro a Bruxelles con Nataša Kandić venuta a presentare all’europarlamento con altri rappresentanti del mondo non governativo di Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro e Kosovo una nuova iniziativa per creare una Commissione per la Ricerca ed il Racconto della Verità sui Crimini di Guerra ed altre Violazioni dei Diritti Umani nella ex Jugoslavia avvenuti nel decennio fra il 1991 e il 2001. Nei giorni bui della guerra in Kosovo, Nataša era una delle poche voci libere che operava in Serbia raccogliendo, in un clima di sospetto e crescente ostilità, informazioni e notizie su quello che accadeva tra Belgrado e Pristina. Le sue indicazioni erano materiale prezioso per chi cercava di smuovere l’opinione pubblica europea e far tacere le armi. Gli uffici della sua associazione erano regolarmente ispezionati e perquisiti dagli agenti di Milošević. La stampa di regime la considerava una traditrice. I politici e le autorità serbe evitavano di incontrarla, quasi fosse un’appestata. Non era per niente facile vivere a Belgrado allora. Ci voleva una buona dose di coraggio, oltre ad una determinazione d’acciaio.

Nel giro di un paio di anni il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia istituito nel 1993 chiuderà i battenti dopo avere preso in esame i casi più evidenti come Milošević, Gotovina e Karadžić. Per completare il lavoro, però, occorre che il dibattito sulle violazioni e i misfatti che hanno avuto luogo durante i conflitti interbalcanici si allarghi e coinvolga tutta l’opinione pubblica sia all’interno dei nuovi paesi che nelle relazioni fra questi. Se il Tribunale Internazionale dell’Aja era stato visto da alcuni come la giustizia dei vincitori imposta sul capo dei vinti il nuovo organismo dovrebbe raccogliere le testimonianze delle vittime, i ricordi dei testimoni, i documenti dei giornalisti e le ricerche degli storici per arrivare a riprodurre una fotografia fedele degli avvenimenti di quei giorni, fornire gli strumenti per una condivisione della memoria e creare basi durature per una coesistenza consapevole.

Anche Sonja Biserko è un’esponente di spicco della società civile serba ben nota negli ambienti dell’associazionismo europeo. Per personaggi come lei l’aggettivo “serbo” è, forse, riduttivo appartenendo ad una generazione nata e cresciuta in uno spazio molto più vasto dove le differenze etniche erano una ricchezza e le diversità culturali uno stimolo formidabile di crescita. C’è un po’ di jugonostalgia che aleggia intorno al tavolo dell’elegante ristorante a ridosso del centro di Belgrado dove Sonja e Nataša ci aspettano sorseggiando un calice di pregevole vino rosso macedone. Pochi minuti prima mi aveva raggiunto Rada Gavrilović, persa da qualche mese sulle colline del Sangiaccato, al confine con il Montenegro, in un progetto di ricostruzione di un piccolo villaggio. Tre donne e tre vite legate con un filo diretto alla storia di un paese che non esiste più, travolto da eventi imponderabili che segnano, oggi, in profondità con nuove linee di frontiera il volto della parte orientale del vecchio continente. Nataša ribadisce la necessità di sostenere il dialogo e la collaborazione in corso fra spezzoni della società civile serba e kosovara. Sonja racconta dei problemi che incontrano le organizzazioni non governative e, in genere, le voci indipendenti. Rada si lamenta dell’indifferenza e dell’abbandono in cui si trova nel portare a termine il suo lavoro. L’eurodeputata austriaca Ulrike Lunacek ascolta attenta, dubbiosa nei confronti delle aspettative che le interlocutrici ripongono nell’Unione europea. Bruxelles è ad un ora di aereo ma la distanza sembra incolmabile. La Serbia spinge sull’acceleratore per ricongiungersi all’Europa ma la strada è ripida e tortuosa. Bisognerebbe alleggerire l’auto sbarazzandosi del peso dei bagagli ingombranti che opprimono i Balcani. Chi è alla guida, però, non ha ancora il coraggio di farlo.

L’atmosfera in parlamento è piuttosto distesa anche se i deputati serbi sono costretti a turno a fare la spola fra l’aula della plenaria e la sala dove ha luogo l’incontro con la delegazione dell’europarlamento. Contrariamene alle attese non è il Kosovo a determinare l’ordine dei lavori della riunione interparlamentare. Situazione economica, riforma della giustizia, lotta alla corruzione, crimine organizzato e diritti delle minoranze sono i temi che vengono affrontati dalle parti nell’ambito di relazioni che vanno progressivamente approfondendosi. L’ex provincia serba, sottolinea un interlocutore, torna di attualità solo in occasione di scontri interetnici. Allora si riaccendono improvvisamente gli animi, riparte la spirale del nazionalismo e si sfogano le frustrazioni mai sopite di chi non sopporta di vedere il proprio paese ridotto a comprimario in quello che fino a pochi anni fa era un sistema di satelliti che ruotavano intorno a Belgrado. Si parla della situazione in Kosovo, quindi, solo verso la fine della riunione e solo allora si fanno vivi i rappresentanti dei partiti oltranzisti per ribadire che mai e poi mai la Serbia riconoscerà l’indipendenza di una parte integrante del proprio territorio. Vengono riproposti i vecchi schemi dei serbi perseguitati dagli albanesi, citati casi di evidente violazione dei diritti della comunità serba a Pristina, portati esempi di come sia impossibile la coesistenza con la controparte albanese. Si snocciolano, come al solito, i torti ignorando le ragioni in un copione logoro che ho ormai visto recitare centinaia di volte da attori consumati sui diversi palcoscenici dei paesi balcanici. L’opinione del Tribunale dell’Aja del luglio scorso ha inferto un colpo terribile alle ambizioni del governo serbo di ottenere tramite il diritto internazionale il ritorno dell’ex provincia sotto il cappello di Belgrado. Si è così esaurito anche questo, forse ultimo, disperato tentativo condotto, però, più per compiacere la parte più emotiva della propria opinione pubblica che non per una effettiva convinzione che si potesse invertire un processo di indipendenza ormai irreversibile.

I caffè della capitale brulicano di clienti con qualche sigaretta ancora accesa. Non sono più abituato al fumo e non riesco a sopportare l’abitudine forse più radicata dei Balcani. Anche questa, però, è destinata a scomparire. Il percorso di avvicinamento all’Unione comporta, infatti, l’adozione di leggi a protezione del cittadino ed in particolare un’adeguata legislazione anti-fumo che fatica, comunque, ad essere applicata. Anche i negozi sono colmi di gente. La crisi finanziaria globale ha colpito pure la Serbia ma il paese sembra avere reagito meglio degli altri paesi della regione. Il prodotto interno lordo è tornato a crescere con l’esportazione aumentata del 23,5% nel secondo quadrimestre. Secondo gli esperti gli indicatori macro-economici sono buoni ma la disoccupazione si mantiene attorno al 20% con scarse prospettive di impiego per chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro ed è costretto, così, a guardare oltre confine. Lo strabismo dell’economia ufficiale si manifesta, purtroppo, in tutta la sua evidenza, un’economia prigioniera di schemi inadeguati che impediscono una visione di insieme equilibrata. Recupero in una galleria la mia tradizionale dose di musica locale e rimango colpito dalla quantità di dischi in vinile ancora a disposizione. La commessa mi spiega che il mercato degli LP è ancora notevole in Serbia. Chi deve viaggiare come il sottoscritto, però, anche se ancora attratto dal fascino del 33 giri non può non preferire i CD che si adattano meravigliosamente alle scarne dimensioni del mio zainetto.

L’Hotel Intercontinental, lungo la Sava che pochi chilometri più a valle confluisce nel Danubio, si presenta tirato a lustro per l’occasione. Nella sala congressi del primo piano, dietro ad una cortina di forze di sicurezza e metal detector, infatti, si alternano in passerella il presidente Tadić con un corredo di ministri e relativi cortigiani. Si celebrano i dieci anni dalla caduta di Milošević. Le immagini delle piazze della capitale gremite di manifestanti sono ancora vive nella memoria dei convenuti e campeggiano sulle prime pagine dei quotidiani. L’incontro, però, più che alla propria opinione pubblica è rivolto a Bruxelles. La Serbia è cambiata, è il messaggio univoco, ed è pronta ad affrontare la sfida dell’integrazione europea senza ulteriori incertezze e tentennamenti. I passi compiuti dal paese negli ultimi due anni, in effetti, non lasciano dubbi sulla determinazione del governo serbo nel recuperare il tempo perduto. Si cerca di bruciare le tappe accelerando le riforme, rimaste per troppo tempo in stand-by, sotto la direzione vigile dei tecnocrati dell’Unione. L’alunno indisciplinato e scavezzacollo ha deciso di mettere la testa a posto lasciandosi supinamente guidare da insegnanti petulanti prodighi di consigli, gli stessi insegnanti che tre settimane più tardi daranno il via libera alla Commissione europea per prendere in esame la richiesta di adesione presentata da Belgrado alla fine dello scorso anno. Il “soft power” dell’Unione europea sembra funzionare a patto che Bruxelles sia effettivamente in grado di mantenere le promesse. Si chiude, così, per la Serbia una porta alle spalle ma se ne spalanca un’altra di fronte che dà su un lungo corridoio che porta a locali più adeguati e confortevoli. Sui tempi di percorrenza, però, è meglio non fare troppo affidamento.

All’angolo fra via Miloševa e via Nemanijna gli edifici che una volta ospitavano il ministero della Difesa ricordano, per chi se ne fosse dimenticato, i bombardamenti selettivi della Nato del 1999. Sono, forse, l’unico segno evidente rimasto in città dell’ultima guerra balcanica. Ci sbatto contro con l’occhio in tutti gli spostamenti fra parlamento, hotel e palazzi governativi. Simbolo della modernità jugoslava e orgoglio della città le intelaiature sventrate di cemento armato hanno resistito stupidamente all’intelligenza delle bombe dell’Alleanza Atlantica. I danni, però, sono talmente gravi e le strutture talmente deformate che andrebbero rasi al suolo e ricostruiti ma la Serbia di oggi non ha i soldi per farlo. C’è anche chi ha proposto di cederli per far posto a qualche hotel a quattro stelle ma gli investitori hanno individuato aree più a buon mercato con operazioni molto meno costose. Intanto sopravvivono emergendo dalle transenne come una presenza ingombrante e spettrale che si ostina a non volere abbandonare la capitale. Meno interessante e più scontato nelle linee architettoniche è l’imponente edificio semirettangolare che ospita buona parte degli uffici governativi. Qui ci aspetta il Primo ministro Mirko Cvetković che non fa mistero delle ambizioni europee del suo paese. “L’adesione all’Unione – attacca – è per il mio governo la priorità assoluta”. Ulrike Lunacek fa presente che senza una pace duratura in Kosovo, che comporta il riconoscimento reciproco e relazioni di buon vicinato, questo non sarà possibile. “Quello che noi vogliamo – ribatte Cvetković – è una soluzione del conflitto accettabile per entrambe le parti dove nessuno si senta sconfitto e tutti abbiano qualcosa da guadagnare”. E’ il refrain che da tempo vanno ripetendo gli esponenti del governo serbo in visita a Bruxelles. Come, se e quando questo possa realizzarsi è, però, un rompicapo che nemmeno il più scaltro e navigato dei diplomatici è in grado di decifrare.

Un vento insistente spazza Belgrado. Non è freddo ma singhiozza fastidioso. Jelko Kačin, un eurodeputato sloveno della delegazione, mi fa presente che è il tipico vento autunnale che da queste parti chiamano “košava”. Il vento di košava, però, dovrebbe sgombrare il cielo dalle nubi ed invece continua a piovere. Sarà la dimestichezza perduta dagli sloveni nei confronti delle consuetudini serbe o uno dei tanti scherzi del tempo impazzito, ma le nuvole sono sempre più gonfie e non smette di piovere. La Serbia è cambiata o sta cambiando anche se l’antico orgoglio nazionalista resiste e recalcitra scomposto. E’ una metamorfosi difficile e complicata, sperando che dalla crisalide nasca una farfalla agile e leggera capace, finalmente, di volare in alto.

*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo

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