Cosa rimane
Dieci anni dopo la campagna aerea della Nato, Serbia e Kosovo devono ancora fare i conti con la pesante eredità di 78 giorni di bombe. Inquinamento ambientale, cluster bombs, proiettili all’uranio. Un nostro articolo sulla situazione attuale
Il 24 marzo 1999 alle 18 e 15 minuti decollano dalla base militare di Aviano due F 116. L’operazione "Determined Force" della Nato prendeva avvio e l’Ansa da lì a pochi minuti avrebbe lanciato in prima mondiale la notizia. Ancora non si sapeva che si sarebbero usati proiettili all’uranio impoverito, bombe a grappolo (cluster bomb) o che sarebbero state colpite fabbriche che trattavano composti chimici altamente tossici.
Il caso della Fiat serba e della "città morta"
Non sono pochi i complessi industriali colpiti nei 78 giorni della campagna aerea della Nato, ma vale la pena parlare di almeno due casi emblematici. Gli stabilimenti della Zastava, grande colosso dell’industria automobilistica della ex Jugoslavia, sono situati a 130 km da Belgrado, nella città di Kragujevac. Furono colpiti pesantemente: il primo attacco missilistico che li distrusse in gran parte avvenne all’alba del 9 aprile mentre tre giorni dopo caddero gli ultimi 14 missili che diedero il colpo di grazia. 176 operai risultarono feriti ma il conto più salato venne pagato anni dopo da chi era impegnato nell’operazione di pulizia della fabbrica dalle macerie.
Il 15 aprile del 2004 Radio B92 intervistò Dragan Stojanović, responsabile di una delle équipe che realizzarono il risanamento strutturale dell’azienda. Stojanović raccontò in quell’occasione che a suo avviso la fabbrica era stata colpita da proiettili all’uranio impoverito. "Altrimenti non ci si spiega l’alto numero di colleghi deceduti. Le foto di malati di carcinoma e gli annunci funerari nella bacheca posta all’ingresso dell’azienda, sono divenuti cosa di tutti i giorni". Raccontò inoltre che all’inizio del risanamento era stato promesso uno screening sanitario costante per i 1260 operai coinvolti nella bonifica. Promessa non mantenuta.
Fulvio Perini, della CGIL Torino, è da anni coinvolto in un progetto a sostegno degli operai della fabbrica serba. "Venuti a conoscenza di storie di operai che si ammalavano di cancro o che erano deceduti, segnalammo il caso all’ultima Commissione d’indagine del Senato sull’uranio impoverito e la presidente, Lidia Brisca Menapace, accolse con favore la proposta di realizzare una ricerca", afferma. "Utilizzando un metodo specifico in uso all’Istituto Superiore di Sanità italiano, prendendo però in considerazione anche il rischio da esposizione alle nano-particelle rilasciate nell’aria con lo scoppio dei proiettili all’uranio impoverito, si sarebbe potuto realizzare uno studio importante. Perché si avevano precisi dati per ciascun operaio: identificazione del soggetto, ricostruzione della storia lavorativa durante la bonifica, dati epidemilogici della malattia e numero dei decessi. Tutti dati recepibili presso il poliambulatorio della fabbrica stessa". Ma la Commissione d’indagine italiana chiuse i battenti nel marzo del 2008 a causa della crisi di Governo, e il progetto epidemiologico rimase nel cassetto.
Le bombe piovute sulla città di Kragujevac colpirono anche tre centrali di trasformazione elettrica che utilizzavano Piralen (Policroruro di fenile – PCB) un olio altamente cancerogeno usato per il sistema di raffreddamento. Secondo Branko Jovanović, della Protezione civile di Kragujevac, dai dati ufficiali dell’Ufficio Ispettivo Nazionale per la tutela dell’ambiente del 2001 risultava che se ne erano riversati sul territorio della città più di 2 tonnellate.
Forse la "responsabilità" internazionale di questa conseguenza ha inciso nell’avvio del progetto di bonifica dai numerosi depositi di piralen ancora esistenti, iniziato a seguito della firma da parte della Serbia della Convenzione di Stoccolma nel 2002. L’allora ministra per l’Ambiente, Andjelka Mihajlov, dichiarò che non si possedevano dati precisi sulla quantità nel paese di questo olio tossico: le stime del ministero parlavano di circa 500 tonnellate. Non avendo la Serbia siti dove poterlo distruggere, nel 2002 si avviò il suo trasferimento all’estero: da una raffineria di Novi Sad partirono 31 tonnellate per la Germania, mentre 250 tonnellate di piralen della Zastava di Kragujevac vennero incenerite in Svizzera. Il piralen però si utilizza ancora. Lo scorso febbraio nella città di Zrenjanin in Vojvodina, un grande incendio della fabbrica "Radijator" provocò rilascio di piralen nell’ambiente.
Altro caso emblematico quello della città di Pančevo, oggi chiamata "mrtav grad", città morta. Quest’ultima possiede nelle immediate vicinanze dell’abitato, una zona industriale composta da tre fabbriche chimiche: una raffineria petrolifera, un’industria di concimi chimici azotati e un complesso petrolchimico. Tutte e tre erano dei grandi inquinatori di per sé. E tutte e tre nel ’99 vennero colpite ripetutamente. Nel 2000 l’UNEP, agenzia delle Nazioni Unite per la tutela ambientale approvò un programma di risanamento delle aree bombardate. L’organizzazione non disponeva però di propri mezzi finanziari e raccolse solo 11,5 milioni dei 20 milioni di dollari necessari per portare a termine i 27 progetti messi in cantiere e così si dovette chiudere il programma a metà del lavoro.
Da allora nella cittadina di Pančevo si è mossa, se non altro, la cittadinanza. In questo ha inciso l’installazione in città di 4 centraline di rilevamento, su iniziativa della Provincia di Ravenna, per misurare il livello di inquinamento dell’aria provocato dalle fabbriche obsolete e rappezzate alla meglio dopo il bombardamento. "Grazie alle centraline Ravenna ci ha offerto dati e argomentazioni concrete per sostenere le proteste… E l’atteggiamento del ministero verso Pančevo ha cominciato a cambiare", racconta il sindaco della città, Vesna Martinović. Un interesse che nei prossimi giorni porterà il neo-ministro serbo per l’Ambiente – Oliver Dulić – a partecipare ad un tavolo di concertazione con le autorità locali della città.
Bombe a grappolo
"Si stima che delle migliaia di cluster bomb sganciate dalla Nato sulla Serbia, ad oggi siano 2.500 quelle inesplose, per la maggior parte concentrate nel sud del paese, su di una estensione di 15 chilometri quadrati in un territorio in cui vivono circa 160.000 persone". Lo si afferma in un servizio giornalistico andato in onda recentemente su RadioTV B92 a seguito della conferenza stampa tenuta a Belgrado il 10 marzo scorso dalla CMC (Cluster Munition Coalition) organismo che riunisce oltre 200 associazioni e organizzazioni non governative – di cui nove serbe – che si battono per il bando di questi ordigni.
Quella delle bombe a grappolo è una questione che la Serbia cominciò ad affrontare solo un anno e mezzo fa, dopo aver ottenuto dai vertici Nato le coordinate dei territori bombardati, grazie alla pressione politica di molti paesi. L’allora ambasciatore serbo presso la Nato, Branko Milinković, ritirò a Bruxelles le mappe dei 219 siti colpiti con questo tipo di ordigni, otto anni dopo i bombardamenti.
"Se si continua a sminare i siti colpiti con il sistema attuale, si stima che ci vorranno 20 anni e 30 milioni di euro per completare il lavoro", ricorda Thomas Nash del CMC. Le cluster bomb sono ordigni di grandi dimensioni in grado di rilasciare nell’aria bombe più piccole, chiamate bomblet, che si disperdono su un’area ampia quanto 2-3 campi di calcio. Inoltre, possono rimanere attive per anni contaminando il terreno al pari delle mine anti-uomo, bandite in tutto il mondo dell’entrata in vigore della Convenzione di Ottawa nel 1999. La pericolosità delle cluster bomb ha portato nel dicembre 2008 a Oslo alla firma della Convenzione per la loro totale messa al bando da parte di molti paesi. Ad oggi i firmatari sono 94 e i processi di ratifica necessari alla sua applicazione sono tuttora in corso, ma la Serbia – assieme al Kosovo – rimane al momento l’unico paese del sud est Europa che non l’ha ancora siglato. Un comportamento definito da Thomas Nash controproducente, oltre che politicamente grave, perché se venisse firmato sarebbe più facile accedere a finanziamenti internazionali per lo sminamento dando un taglio alle conseguenze socio-economiche provocate nel paese fino ad oggi.
E poi c’è il Kosovo. Nell’ultimo rapporto del Landmine Monitor, datato 2008, si scrive che nello stato da poco indipendente non sono certi né l’estensione dell’area contaminata né il numero di vittime provocate nei primi otto anni dai bombardamenti. Secondo alcune istituzioni intrnazionali di stanza in Kosovo, quali il Mine Action Coordination Center (MACC) dell’UNMIK, tra giugno ’99 e fine 2007 risultano essere rimaste vittime di materiali inseplosi 436 persone di cui 111 in maniera mortale. Landmine Monitor sottolinea che, secondo gli ultimi dati forniti dall’OKPCC (Office of the Kosovo Protection Corps Coordinator) responsabile per le azioni di sminamento e bonifica da ordigni inesplosi, all’agosto del 2008 la maggior parte dei siti – conosciuti – di mine anti-uomo e cluster bomb inesplose risultavano bonificati, mentre si prevedevano anni per liberare il paese da quelle che definisce "ERW – explosive remnants of war", perché non sarebbe ancora precisa la conoscenza dell’estensione del territorio contaminato.
Uranio impoverito
Si parla di contaminazione anche nel caso delle bombe all’uranio impoverito, usate dalla Nato su Serbia e Kosovo nel 1999 ma per altro già lanciate in numero di 10.800 – a totale insaputa dell’opinione pubblica – sul territorio della Bosnia Erzegovina nel 1995. L’uranio impoverito (Depleted Uranium) deriva da materiale di scarto delle centrali nucleari e viene usato per fini bellici per il suo alto peso specifico e la sua capacità di perforazione. Quando un proiettile al DU colpisce un bunker o un carro armato, vi entra senza incontrare alcuna resistenza e allla sua esplosione ad altissima temperatura rilascia nell’ambiente nano-particelle di metalli pesanti. Ad oggi, viene confermato dalla ricerca scientifica che questi proiettili sono pericolosi sia per la loro radioattività emanata sia per la polvere tossica che rilasciano nell’ambiente.
Secondo un rapporto redatto nel novembre 2000 dall’UNEP (United Nations Enviroment Programme) a seguito della prima missione post-conflitto realizzata in Kosovo, tra il 16 aprile e il 28 maggio 1999 risultano 113 i siti colpiti, per un totale di circa 31.000 proiettili con punte di 1.000 proiettili in un giorno su di un unico sito. L’area più colpita risulta quella occidentale, al confine con l’Albania, dove tra l’altro venne subito stanziato gran parte del contingente italiano KFOR.
In merito al territorio della Serbia, i dati forniti dalla Nato riferiscono che sono state circa 2.500 le bombe al DU lanciate nel 1999, tutte nel sud del Paese e concentrate su quattro siti: Pljackovica presso Vranje, Borovac vicino a Medvedje, Bratoselce vicino alla città di Bujanovac e Reljan, situato a pochi chilometri da Preševo.
Purtroppo la guerra dei numeri si fa ancor’oggi sui presunti civili e militari ammalatisi e deceduti a causa del DU, sia in Serbia e Kosovo sia nei paesi da cui provengono i militari delle missioni internazionali. Per parte italiana, dopo nove anni di proteste pubbliche, ricorsi in tribunali penali e civili e due Commissioni d’indagine parlamentare, si è raggiunto un primo risultato: "Abbiamo approvato un provvedimento che prevede in tre anni lo stanziamento di 30 milioni di euro per risarcire le vittime dell’uranio impoverito e delle nano-particelle". Sono le dichiarazioni fatte dal ministro La Russa lo scorso 19 dicembre. Si è arrivati al provvedimento anche grazie al fatto che l’ultima Commissione d’indagine, non potendo confermare per ora – ma neanche escludere – un legame certo tra le malattie oggetto dell’indagine e l’esposizione al DU, ha sostituito al "nesso di causalità", il "criterio di probabilità". In pratica, il fatto stesso che la malattia si sia verificata costituisce di per sé, a prescindere dalla dimostrazione del nesso diretto, motivo sufficiente per riconoscere i risarcimenti.
Domenico Leggero, fondatore dell’Osservatorio Militare che in questi anni ha sostenuto i militari nelle loro battaglie, lo considera un risultato significativo ma definisce lo stanziamento già insufficiente: "A noi risulta che i casi di militari che hanno contratto una malattia siano adesso (ndr: al 24 marzo 2009) 2.558, mentre il numero di deceduti sia salito a quota 171".
E in Serbia e Kosovo? E’ proprio il caso italiano, che viene seguito dalla stampa locale fin dal 2001, a far pensare che l’aumento dell’incidenza delle malattie tumorali riscontrato negli ultimi anni in Serbia e Kosovo sia legato alla "Sindrome dei Balcani". Legame che però non può ancora essere considerato al pari del "criterio di probabilità" in base al quale si è deciso il provvedimento italiano. In Serbia e in Kosovo non sono stati mai avviati studi epidemiologici ad hoc. Eppure lo scorso 2 febbraio in un suo dossier, il rinomato quotidiano belgradese Politika titolava: "Kosmet je mala Hiroshima" (Il Kosovo è una piccola Hiroshima). Si cita il libro di Mirjana Andjelković-Lukić, esperta in armi ed esplosivi al Centro tecnico-scientifico dell’esercito serbo. Da esso risulta che alti ufficiali dell’esercito serbo sono morti di cancro dopo aver effettuato nel 2000 delle ricerche sul terreno e che, secondo i dati raccolti, il livello di radiazioni gamma e beta risultarono due volte superiori alla norma.
Secondo un’altra ricerca, avviata sette anni fa in Kosovo e realizzata dal team dell’internista-cardiologo Nebojša Srbljak – fondatore dell’organizzazione non governativa "Milosrdni andjeo" (Angelo misericordioso) di Mitrovica, si tratterebbe di una vera e propria epidemia: "Nel territorio di Kosovska Mitrovica rispetto a prima dei bombardamenti l’aumento delle affezioni di natura maligna tra i civili raggiunge punte del 200%". Srbljak confronta dati del 2007 con quelli raccolti nel periodo tra il 1998 e il 2002 e si lamenta del fatto che le autorità serbe e kosovare non si stanno in alcun modo muovendo per sondare il caso e tutelare e assistere i propri cittadini.
La partita relativa ai civili rimane tutta da giocare anche in Italia. Nella relazione finale dell’ultima Commissione di indagine presso il Senato, precocemente chiusa nel febbraio 2008, oltre a raccomandare il completamento della raccolta e dell’analisi epidemiologica dei dati sanitari dei militari, si sottolinea: "Una nuova attenzione si è concentrata sul personale civile delle organizzazioni non governative che nel corso degli anni hanno prestato la loro attività volontaristica nei teatri di guerra e nel cui ambito sono pure segnalati casi anomali di malattie (…). In proposito, la Commissione ha avviato a gennaio 2008 uno specifico progetto di ricerca, che la scadenza del mandato ha impedito di proseguire".
C’è da sperare che le ultime interrogazioni presentate al Parlamento italiano da due gruppi di senatori, per l’istituzione di una nuova Commissione d’indagine, vadano in porto e che tale Commissione possa ottenere da subito gli strumenti per operare. C’è da sperare che l’Unione Europea si muova per finanziare e sostenere politicamente un’approfondita e definitiva indagine nei territori dei Balcani, ascoltando gli appelli fatti finora da alcuni – pochi – deputati europei. C’è da sperare che venga raccolto l’appello del Parlamento europeo lanciato nel maggio 2008 affinché si arrivi al bando delle armi all’uranio impoverito, usato nei Balcani ma anche in Somalia, Iraq, Afghanistan… ed in ultimo nella Striscia di Gaza. C’è da sperare.