Spunti per un’analisi di medio periodo sull’invasione dell’Ucraina da parte della Russia

La rielaborazione di alcuni spunti di riflessione presentati in eventi pubblici in questi mesi di guerra da Giorgio Comai, ricercatore ad OBC Transeuropa/CCI che da oltre vent’anni frequenta e studia l’area post-sovietica

10/05/2022, Giorgio Comai -

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 © Worrawoot.s/Shutterstock

In questa riflessione, non parlerò delle dinamiche immediate del conflitto, della tragedia umana e umanitaria in corso, né tratterò di soluzioni per il breve periodo. Piuttosto, cercherò di offrire alcuni spunti per comprendere e interpretare quanto sta avvenendo, ragionando sul perché si è arrivati a questa guerra, su cosa le dinamiche che hanno portato all’inizio di questa guerra ci possono dire riguardo ai prossimi mesi, e sugli aspetti che trovo preoccupanti cercando di immaginare scenari di medio periodo.

In questo percorso, parlerò più della Russia che dell’Ucraina. Perché se è vero che la guerra si sta combattendo sul suolo ucraino e a scapito della popolazione ucraina, è a Mosca che si è deciso di iniziare la guerra. Ed è da qui che voglio iniziare: dagli obiettivi che la parte russa si è prefissata fin dall’inizio dell’intervento militare in Ucraina.

Tra gli obiettivi diretti più espliciti, evidenzio in particolare la “denazificazione” dell’Ucraina (questo il termine utilizzato da Mosca), la demilitarizzazione dell’Ucraina, e la difesa della popolazione del Donbas. Mi limito agli obiettivi diretti, e non approfondisco motivazioni politiche più ampie addotte nei mesi scorsi dal Cremlino, come ad esempio l’idea di contrastare l’avanzamento della Nato in Europa centro-orientale, anche perché sostanzialmente incompatibili con il percorso interventista scelto: a maggior ragione se l’invasione si fosse rivelata il grande successo auspicato da Mosca, sembra ovvio che questa avrebbe portato a un rafforzamento della Nato nei paesi limitrofi, non certo a una demilitarizzazione della regione. L’eventualità di un riarmo della Nato sul fronte orientale era presumibilmente ritenuta un effetto collaterale accettabile in cambio di un intervento di successo in Ucraina.

Nei primi giorni dell’invasione, la tutela della popolazione del Donbas era regolarmente presentata come motivazione principale dell’intervento sui principali canali televisivi russi. Si parlava infatti costantemente di “operazione militare speciale per la difesa della popolazione del Donbas” e la retorica dominante era quella da “guerra umanitaria”. Nonostante il grande sforzo mediatico dedicato a promuovere questo aspetto, anche solo considerando il fatto che gran parte dell’avanzata militare russa nelle prime settimane ha avuto luogo a centinaia di chilometri di distanza dal Donbas, pare poco credibile che questo fosse effettivamente il principale obiettivo diretto dell’invasione.

Il secondo obiettivo dichiarato è quello di più difficile interpretazione visto da fuori della Russia, ma è quello che secondo me si può ritenere a tutti gli effetti l’obiettivo diretto principale che ha portato all’invasione, ovvero, la “denazificazione” dell’Ucraina, con tutto ciò che questo comporta.

Immagine della presa di Berlino da parte delle truppe sovietiche - Mosca, Museo della Grande Guerra Patriottica © Igor Lushchay/Shutterstock

Immagine della presa di Berlino da parte delle truppe sovietiche – Mosca, Museo della Grande Guerra Patriottica © Igor Lushchay/Shutterstock

Chi sono i “nazisti”?

Commentando l’idea di “denazificazione”, o della presenza di “nazisti” al governo in Ucraina – questa l’accusa russa – la reazione tipica è quella di cercare di ragionare sulle forze di estrema destra o sull’antisemitismo in Ucraina. C’è ad esempio chi sottolinea che con l’eccezione di una breve fase successiva alla guerra del 2014, l’estrema destra in Ucraina non è mai stata eccezionalmente influente, e da tanti punti di vista è più marginalizzata che in tanti paesi d’Europa. Oppure si dibatte di figure storiche problematiche, come Stepan Bandera, spesso più celebrate che condannate nell’Ucraina di oggi. Si tratta di dibattiti legittimi, ma, nel contesto dell’invasione, effettivamente irrilevanti, perché partono da un fraintendimento su cosa effettivamente voglia dire “nazista” in Russia oggi, un fraintendimento che scaturisce da una diversa memoria della Seconda guerra mondiale e da una diversa interpretazione di cosa rappresenta la fine di quella guerra.

In Russia, la Seconda guerra mondiale, ricordata come “grande guerra patria”, non è ricordata principalmente per l’Olocausto o per le politiche repressive di fascisti e nazisti, ma prima di tutto come una guerra contro l’Unione sovietica, contro la Russia. In Russia, la Seconda guerra mondiale non è stata quindi prima di tutto una guerra contro il totalitarismo (e come potrebbe esserlo, visto che la vittoriosa URSS era guidata da Stalin), o una guerra che ha avuto tra le vittime più riconoscibili gli ebrei d’Europa… prima di tutto, è stata una guerra contro l’URSS. Se nella storiografia sovietica si insisteva anche sull’elemento ideologico (una guerra contro il comunismo), questa tendenza è evidentemente andata a sparire nel periodo post-sovietico. A differenza di come è ricordata in gran parte d’Europa, la Seconda guerra mondiale in Russia, ovvero, la “grande guerra patria” è iniziata nel 1941: ad oggi, è raccontata come una guerra contro l’URSS, contro i russi, per distruggere la Russia.

“Nazista” oggi significa quindi in primo luogo “anti-russo”, in una linea interpretativa che evidenzia orgogliosamente la continuità tra URSS e Russia, insistendo in particolare sulla Russia come forza principale che ha sconfitto il nazismo in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Se ci sia o non ci sia l’estrema destra in Ucraina non è rilevante da parte russa, anzi, come è noto, la vicinanza politica tra la leadership russa e varie espressioni di forze di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti è stata in passato del tutto esplicita, e parzialmente rinnegata da noti esponenti di partiti di estrema destra solo molto recentemente. Una certa sintonia su varie questioni evidentemente rimane.

Un altro termine percepito come contiguo, anche per assonanza, è quella tra “nazi” e “nazionalista”. Sulle televisioni russe, ad esempio, in riferimento alla leadership o all’esercito ucraino si utilizzano espressioni come “bande di nazionalisti”. Ma da parte russa, il nazionalismo ucraino è problematico solo nella misura in cui è percepito come “anti-russo”: non è infatti problematica la destra nazionalista di Orbán in Ungheria, né quella di Le Pen in Francia. Ciò che è rilevante è la misura in cui queste forze nazionaliste siano percepite come “anti-russe”.

Cosa vuol dire essere “anti-russo”? Nella logica avanzata da Putin nei suoi recenti interventi a tema storico, immaginare una nazione ucraina separata dalla Russia vuol dire essere “anti-russo”, vuol dire voler spezzare la presunta unità dei popoli slavi legati alla Rus’ storica: russi, bielorussi, e ucraini. In questa chiave di lettura, “anti-russo”, e quindi “nazi”, non è solo chi si potrebbe definire un nazionalista in Ucraina, ma in sostanza chiunque creda che l’Ucraina – come stato e come popolo che vi abita – non sia parte indissolubile della Russia, non sia parte del popolo russo. Con queste premesse è possibile capire perché da parte russa si insista su come il governo ucraino sia in mano a nazisti e che l’Ucraina sia piena di nazisti e abbia bisogno di essere “denazificata”.

Questa narrativa, e più in generale la presunta onnipresenza di nazisti in Ucraina, suscita certo perplessità anche tra la popolazione russa. Secondo un’inchiesta pubblicata dal media investigativo russo Proekt infatti, sondaggi effettuati su richiesta del Cremlino nell’aprile di quest’anno per verificare l’efficacia della comunicazione sulla guerra avrebbero rivelato che l’insistenza sulla “denazificazione” era fonte di incomprensione nel pubblico russo. Il termine è quindi ora meno utilizzato nei media russi, ma rimane nondimeno espressione diretta delle fondamenta ideologiche che hanno portato a questa guerra.

Mi sono dilungato su questo aspetto, per evidenziare come alcune delle dinamiche che hanno portato a questa guerra abbiano bisogno di una traduzione concettuale, più che letterale. Partendo da queste premesse, possiamo però capire come l’Ucraina, l’identità ucraina, l’esistenza di un’identità ucraina, sia effettivamente la questione principale diretta che ha portato a questa guerra. Dal punto di vista del Cremlino, nell’ottica di questa guerra, Nato e Unione europea sono un problema principalmente perché rappresentano strade che portano ad un’Ucraina meno “russa”, meno parte del mondo russo. La minaccia non è quindi evidentemente militare – anche nell’immaginario più paranoico, è difficile ritenere che le repubbliche baltiche o la stessa Ucraina possano un giorno decidere di invadere la Russia – ma in primo luogo identitaria.

C’è ovviamente spazio per ragionamenti più ampi sull’architettura della sicurezza europea, e certo anche per criticare alcune delle politiche dei governi occidentali, l’allargamento della NATO, cose fatte o dette, l’ipocrisia, le mezze promesse, ma tutto questo è, di per sé, poco utile per spiegare o capire gli eventi di questi mesi.

Se ci sono responsabilità di lungo periodo da parte occidentale, ritengo che queste siano di carattere meno diretto e riguardino in particolare gli eventi che hanno portato al fallimento della transizione economica e politica negli anni Novanta in Russia, nonché alcune delle dinamiche che hanno portato al rafforzamento di un regime autoritario in Russia negli anni successivi. Si può anche ricordare il ruolo che vari attori in Europa – in modo più evidente il Regno Unito, ma non solo – hanno avuto nel favorire il reinvestimento in Europa di grandi capitali emersi da corruzione e clientelismo in Russia: un’appropriazione criminale su ampia scala effettuata con il favoreggiamento di entità europee che ha contribuito ha solidificare il sistema di governo di Putin e a impoverire il paese.

Su questi aspetti torno tra poco.

Prima di procedere, voglio però condividere qualche riflessione sul ruolo del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin.

Vladimir Putin parla alla tv, 22 febbraio 2022 © Rokas Tenys/Shutterstock

Vladimir Putin parla alla tv, 22 febbraio 2022 © Rokas Tenys/Shutterstock

Putin, e perché l’invasione era necessaria e urgente

Per tanti anni, chi si occupa di Russia si è ritrovato ad insistere sull’importanza di pensare alla Federazione russa senza concentrarsi sempre e solo su Putin, oggetto di un’ossessione mediatica straordinaria. Eppure, in questa fase, è innegabile il ruolo determinante del presidente russo, e più in generale il fatto che l’invasione dell’Ucraina sia stata pensata e fortemente voluta da Putin stesso.

Si è molto parlato dell’isolamento di Putin anche dai suoi alleati più stretti in quest’ultimo paio d’anni, in particolare a partire dall’inizio della pandemia. C’è chi dice che Putin non sappia davvero cosa accade, perché si è circondato di persone che vogliono solo assecondarlo, ed in parte probabilmente è vero. Clientelismo, corruzione, e repressione, non sono certo gli ingredienti migliori per avere un processo decisionale funzionale o informazioni oneste sullo stato delle cose.

Ma non è solo questo il problema. Come ha ripetutamente dichiarato lui stesso, Putin è ricorso a misure estreme perché è convinto di dover salvare la nazione russa da una minaccia imminente e di tipo esistenziale. Già nel 2021 spiegava in un suo intervento come “la formazione di uno stato ucraino etnicamente puro, aggressivo nei confronti della Russia, è comparabile nelle sue conseguenze all’impiego di armi di distruzione di massa contro di noi”. Esternazioni di questo tenore sono apparse di nuovo nei giorni che hanno segnato l’inizio dell’invasione.

Anche se non l’ha detto esplicitamente, pare evidente che sia convinto di essere l’unica persona in grado di salvare la nazione russa da questa minaccia, e che senta di non potersi fidare neppure delle persone del suo entourage, tra cui si annoverano a suo avviso ingenui affascinati dall’Occidente o persone che non hanno il coraggio di fare ciò di cui vi è bisogno. In definitiva persone che in buona parte non sentono l’urgenza e la dimensione storica del rischio, o che non lo percepiscono come esistenziale. Non si rendono conto che la Russia sta perdendo l’Ucraina, e che l’unità del popolo russo è quindi fondamentalmente minacciata.

Chi ha deciso “bisogna invadere ora”, è stato Vladimir Putin. E l’ha deciso, sapendo che la maggior parte delle persone intorno a lui non la consideravano neppure come un’opzione. Fino a pochi giorni prima dell’invasione, non solo membri del governo, ma come è poi emerso da intercettazioni, anche gran parte dell’esercito stesso non era conscia che stava effettivamente per entrare in guerra. È stata preferita la segretezza alla preparazione – come è emerso anche nelle prime settimane di guerra, quando è apparsa impietosamente evidente l’impreparazione logistica dell’esercito russo.

È anche perché sa di avere attorno a sé persone che non sentono l’urgenza di questa sua missione che Putin si ritiene insostituibile, e che ritiene di avere una missione storica da completare prima che sia troppo tardi. Per ragionare e concentrarsi sul suo lascito storico in questi ultimi anni Putin ha in buona parte trascurato la gestione di dinamiche interne, che a quanto pare sempre meno lo interessavano – in netto contrasto con i primi anni della sua presidenza.

In pratica, ed a prescindere degli sviluppi dei prossimi mesi, è chiaro che le azioni di queste settimane ottengono l’esatto contrario di ciò che si proponevano di fare: un’identità nazionale ucraina più forte, basata ora sì, plausibilmente, su basi più esplicitamente anti-russe; una rimilitarizzazione dell’Europa centro-occidentale, che torna a vedere ad est la minaccia più immediata, in parte rivedendo politiche di difesa che erano sempre più mirate al terrorismo internazionale; una rinnovata legittimazione della Nato; infine, un crollo economico in Russia che, da molti punti di vista, elimina quello che storicamente è stato il più grande elemento di legittimazione interna di Putin: il superamento della miseria economica e sociale degli anni Novanta, e la sua presunta capacità di offrire stabilità e progressiva crescita economica.

Al di là del fallimento delle politiche di Putin – non solo negli ultimi mesi, ma almeno nell’ultimo decennio, comunque le si voglia misurare – se si accettano le premesse di cui sopra, probabilmente gli eventi di queste settimane rafforzano più che smentire le convinzioni di Putin: davvero c’era urgenza di intervenire, e anzi, quanto avvenuto in queste settimane dimostra che effettivamente era già troppo tardi. Davvero l’Occidente era intento a spaccare e indebolire la nazione russa, utilizzando strumentalmente l’Ucraina a questo scopo.

Delineo queste premesse, per quanto insostenibili, perché purtroppo credo siano parte importante del perché c’è questa guerra, e del perché rimane difficile, quasi impossibile, immaginare negoziati funzionali a partire da queste premesse. E perché evidenziano una causa ancor più diretta della guerra in Ucraina, quella che a tutti gli effetti ritengo la causa principale di questa guerra: l’autoritarismo in Russia.

Una Russia anche solo un po’ meno autoritaria del paese che ha Putin per presidente nel 2022 non avrebbe lanciato un’invasione dell’Ucraina.

Autoritarismo in Russia e responsabilità dell’Occidente

Se la causa principale di questa guerra è l’autoritarismo in Russia, è quindi a maggior ragione importante capire come si è arrivati all’attuale livello di autoritarismo in Russia, e quali sono gli elementi di legittimità che hanno permesso a Putin di consolidare il suo potere, permettendo che quello che era un sistema ibrido durante gli anni 2000 diventasse sempre più un sistema semi-autoritario, e poi pienamente autoritario.

Come accennato poco fa, la promessa di superare la miseria economica e sociale degli anni Novanta e di garantire stabilità e progressiva crescita economica, è stato il principale elemento che ha fornito legittimità al governo di Putin, e che continua ad essere utilizzato anche ad oltre vent’anni di distanza da quegli anni che hanno così profondamente caratterizzato la narrativa dominante sugli sviluppi della Russia post-sovietica.

In quale misura il relativo benessere degli anni 2000 sia effettivamente attribuibile a Putin è oggetto di discussione, anche considerando il fatto che le risorse economiche che hanno determinato quella fase di crescita sono emerse da dinamiche congiunturali relative al prezzo degli idrocarburi che hanno ben poco a che fare con chi sedeva al Cremlino. Ciò che è certo, è che effettivamente gli anni Novanta sono stati anni di grande miseria in Russia, anni durante i quali l’aspettativa di vita è crollata bruscamente e la parte di popolazione che viveva in povertà estrema si è moltiplicata. Anni in cui l’Occidente ha sostanzialmente sostenuto e promosso le politiche che hanno determinato questi sviluppi.

In molti infatti credevano davvero che la cosa più urgente ed importante fosse introdurre un’economia di mercato, non importa a quale costo, perché un’economia di mercato avrebbe impedito il ritorno del Partito comunista al potere, e, nel lungo periodo, avrebbe portato inevitabilmente alla democrazia. Altri probabilmente erano lieti di vedere una Russia indebolita, e quindi apparentemente meno minacciosa. Ad altri ancora, semplicemente, la questione non pareva urgente: l’Urss era finita, e la Russia non era più un problema.

Questo però ha avuto conseguenze. Perché il fallimento della transizione economica ha contribuito in modo determinante al fallimento della transizione politica. I “democratici”/“europeisti”/“filo-occidentali” sono rimasti associati alla miseria e alle umiliazioni degli anni Novanta. Si è quindi lasciato che la Russia, il più grande paese europeo, cadesse in rovina, creando il contesto per un revanscismo anti-occidentale e autoritario di cui vediamo oggi le tragiche conseguenze. Non era un processo inevitabile, ma a questo si è arrivati. Se vogliamo quindi ragionare su responsabilità occidentali di lungo periodo – e magari cercare nel passato recente spunti di riflessione per il futuro – ritengo che questa sia la più importante: non impegnarsi negli anni Novanta perché la Russia potesse avere una transizione economica e sociale dignitosa.

Scenari e prospettive

Riparto da questo aspetto per tornare al presente. Ho delineato quali ritengo siano le principali cause dirette e indirette dell’attuale guerra. Da una parte, un’ossessione identitaria nel Cremlino che vede Ucraina (e Bielorussia) come parte inseparabile della nazione russa, e che individua nell’Occidente un nemico che sostiene determinate politiche in Ucraina (e Bielorussia) con il principale scopo di indebolire la Russia stessa. In questo senso la Russia, la nazione russa, in prospettiva storica, sarebbe vittima di un attacco di tipo esistenziale: per questo la Russia era minacciata, non si poteva attendere oltre, e quindi non c’era alternativa alla guerra.

In secondo luogo, l’autoritarismo in Russia, emerso e consolidatosi in parte in reazione a diffusa miseria e malessere sociale degli anni Novanta, rafforzatosi sulla base di un’equivalenza tra umiliazione personale e nazionale, e sull’identificazione dell’Occidente come principale causa sia della miseria che dell’umiliazione, riprendendo quindi un immaginario radicato anche in epoca sovietica per cui l’Occidente è costantemente intento a indebolire, se non proprio a distruggere, la Russia. I connotati ideologici di questo scontro sono nel frattempo spariti, solo in parte sostituiti da una retorica “conservatrice” e omofoba che presenta la Russia come un baluardo contro un Occidente depravato.

Partendo da queste considerazioni, condivido qualche riflessione sulle prospettive dei prossimi mesi e anni, e su alcuni aspetti che dovrebbero essere tenuti in considerazione in ottica di medio periodo.

È giusto auspicare che la guerra finisca al più presto, ad un tavolo negoziale, con la firma di un accordo di pace. Purtroppo, non vi è ancora traccia di effettivi negoziati, né è facile immaginarli nel breve periodo. Nei media russi ancora non vi è traccia di uno sforzo per definire un risultato, dal punto di vista politico e territoriale, che possa essere ritenuto soddisfacente; gli obiettivi non sono cambiati, e nella retorica pubblica per ora non si lascia spazio a voci favorevoli a qualsivoglia forma di compromesso. Anche lasciando da parte le richieste iniziali di “denazificazione” da parte russa, ammettendo un’apertura ucraina ad escludere un proprio ingresso nella Nato e – pur senza rinunciarvi formalmente – non esigere come condizione preliminare per un accordo la ritirata russa da Crimea ed aree controllate in Donbas prima dell’inizio delle ostilità nel febbraio di quest’anno, le posizioni continuano ad apparire distanti e inconciliabili.

È difficile immaginare come da parte ucraina si possa concedere sul tavolo negoziale il controllo di ampie aree che la parte russa attualmente non controlla – aree dove vivono milioni di persone – o di ampie parti delle regioni di Kherson e Zaporizhzhia attualmente sotto controllo russo, ma che si trovano ben oltre i territori di Donetsk e Luhansk che sono effettivamente gli unici sui quali da parte russa erano state avanzate delle pretese, seppure indirette.

È difficile immaginare che la Russia decida di ritirarsi completamente, in particolare dalle aree che ha ufficialmente dichiarato come non più parte dell’Ucraina (Crimea, e regioni di Donetsk e Luhansk), ma anche da aree che sta ormai controllando da oltre due mesi.

È difficile immaginare una vittoria militare piena in un senso o nell’altro, anche se in questo momento entrambe le parti credono di poter vincere con le armi più di quanto potrebbero realisticamente ottenere ad un tavolo negoziale.

A partire da queste premesse, lo scenario che pare più probabile è che dopo una fase attiva nelle prossime settimane, la guerra si trasformi un po’ alla volta in una guerra di posizione, e che se un qualche accordo ci sarà, questo rifletterà la situazione ottenuta dalle parti sul campo di battaglia. Non sarà quindi risultato di un compromesso negoziale, ma una constatazione di una situazione di fatto. Un cessate-il-fuoco, quindi, non un accordo di pace.

Anche in questa fase, una localizzazione del conflitto, e un minor coinvolgimento di civili sarebbero certo un passo avanti rispetto alle prime settimane di guerra, ma mostrano comunque uno scenario tragico, in cui un uso esteso di armamenti pesanti rimane molto probabile. Si delinea quindi una situazione di conflitto protratto nel medio periodo con devastanti effetti sulla popolazione civile, con milioni di sfollati e rifugiati, e vite spezzate da un confine de facto lungo una linea del fronte che si potrebbe consolidare.

Se questa è la prospettiva che ritengo più probabile – un conflitto protratto, forse con un cessate-il-fuoco, ma non con un accordo di pace – pare improbabile che le sanzioni imposte nei confronti della Russia possano essere ritirate nel breve e medio periodo. Si rischia in sostanza di avere un conflitto irrisolto tra due tra i più grandi stati europei, Ucraina e Russia, senza una cesura netta che possa fungere da base per una pace duratura.

Si prospetta una difficile ricostruzione in Ucraina, principale vittima di questo conflitto. Un percorso difficile, anche dal punto di vista politico e sociale, per superare la tragedia umana e umanitaria causata da questa guerra. Si prospetta inoltre una crisi economica e un sistema autoritario sempre più consolidato in Russia, il più grande paese europeo, che rischia di essere sempre più isolato dal resto dell’Europa. E infine un paese come la Bielorussia che rischia di seguirne il destino, nonostante le incoraggianti proteste che abbiamo visto negli ultimi anni.

Questo, temo, lo scenario di base. Ma molto può succedere in Russia, in Bielorussia, naturalmente in Ucraina, ma anche in Unione europea per fare in modo che le cose prendano una piega diversa e positiva, che la ricostruzione sia rapida, e che benessere, pace e pluralismo si affermino presto e in modo più duraturo anche in questa parte d’Europa.

Rubli © Maksym Kapliuk/Shutterstock

Rubli © Maksym Kapliuk/Shutterstock

Sanzioni e colpa collettiva

Parto da queste osservazioni su quello che ritengo lo scenario di base per concentrarmi su cosa da parte nostra è importante tener presente per sviluppare politiche e pratiche utili per il medio periodo.

Iniziative di società civile e governi devono iniziare a immaginare un periodo prolungato in cui molte persone che hanno abbandonato l’Ucraina vi vorranno ritornare, ma avranno bisogno di assistenza per poterlo fare in maniera dignitosa. Altri, semplicemente, non potranno tornare, perché non hanno dove tornare o non sono intenzionati ad andare ad abitare in aree controllate dalle autorità russe. Altri ancora decideranno di tornare ad abitare in queste aree, anche se saranno controllate dalla Russia in modo più o meno diretto. Il nostro sostegno, dovrà andare anche a chi farà questa scelta, cercando in ogni modo di rendere il più trasparente possibile un confine de facto che potrebbe andarsi a creare; un aspetto delicato, su cui in passato si sono fatti degli errori, anche in Ucraina.

Senza entrare nei dettagli di tante questioni potenzialmente rilevanti, ci tengo almeno a toccare uno degli aspetti più dibattuti in Europa: quello delle sanzioni.

La storia di come le sanzioni sono diventate un elemento centrale dei contrasti internazionali è ormai lunga e profondamente dibattuta. Si discute dell’efficacia, degli effetti diretti e indiretti, degli effetti collaterali. Nel contesto attuale è dibattuto anche quale sia, in effetti, il reale scopo delle sanzioni: se lo scopo di sanzioni mirate a persone potenti vicine a Putin sia quello di promuovere defezioni interne all’élite, o addirittura un colpo di stato. Oppure se lo scopo di sanzioni diffuse sia quello di suscitare tale malcontento tra la popolazione, da obbligare il Cremlino a cambiare rotta.

È importante sottolineare che nessuno di questi obiettivi, in questa forma, appare realistico. Le sanzioni tendono a rendere le élite economiche e politiche più coese, perché aumentano ulteriormente la loro dipendenza dal principale centro di potere e centro di controllo delle risorse economiche: in questo caso il Cremlino e nello specifico Vladimir Putin. In un contesto di limitato pluralismo mediatico e politico, la colpa per i disagi economici e sociali imposti dalle sanzioni verrà principalmente attribuita a chi le impone, non alla leadership russa.

L’unico realistico obiettivo per le sanzioni è quello di ridurre materialmente la capacità delle autorità russe di continuare il proprio sforzo bellico in Ucraina. Se questo è il principale obiettivo, è importante trovare modalità per ridurne l’impatto sulla popolazione civile, sia per chi rimane in Russia, sia per i russi che abbandonano il proprio paese. È importante mantenere – e anzi favorire – quanti più contatti possibili per la popolazione russa, che vive in un regime autoritario e che non deve essere vittimizzata né tantomeno punita, benché le voci attivamente contrarie all’invasione dell’Ucraina siano sempre rimaste minoritarie. Si può certo parlare di qualche forma di corresponsabilità da parte dei cittadini russi per le scelte del loro governo, ed evidentemente di responsabilità diretta per chi ha implementato quelle scelte commettendo gravi violazioni dei diritti umani. Ma è giusto sottolineare come un principio di colpa (e punizione) collettiva sia del tutto estraneo al nostro ordinamento costituzionale, a principi etici condivisi, e alla natura stessa di diritti umani per come li intendiamo oggi.

Peraltro, e nonostante visibili manifestazioni bellicistiche, in Russia il sostegno effettivo per l’invasione è in buona parte circostanziale

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