Non-guerra, in-decisioni e l’invasione dell’Ucraina
Quali sono state le dinamiche che hanno reso possibile ciò che è avvenuto nel Donbass tra il 2014 e il 2022? E che cosa è effettivamente successo? L’ultimo libro di Anna Arutunyan è un’eccellente analisi che fornisce alcune risposte
Il 24 febbraio 2022 la Russia ha lanciato un’invasione su vasta scala dell’Ucraina, con il dispiegamento ufficiale di tutte le sue forze militari e un discorso incoerente di Putin che dichiarava in modo altisonante… una non guerra. Il presidente russo ha infatti lanciato una "operazione militare speciale". Sembrava che stesse affermando con coraggio i suoi obiettivi, ma questi erano espressi usando concetti confusi – come "denazificazione" – che non hanno portato a molta chiarezza su che cosa la leadership russa sperasse effettivamente di ottenere con l’invasione. Ancora una volta, anche in questo momento risolutivo, il presidente russo ha svelato un tratto fondamentale del suo processo decisionale: a Vladimir Putin piace prendere le decisioni il più tardi possibile, e comunque formularle in modo da lasciare margine di manovra per adattarne il corso e spostare la responsabilità della loro attuazione su sottoposti sacrificabili.
Leggendo l’ultimo libro di Anna Arutunyan (“Hybrid Warriors. Proxy, freelance e la lotta di Mosca per l’Ucraina”) ho avuto la netta sensazione che questo peculiare processo decisionale, o meglio, la riluttanza a fare scelte ben definite, sia diventato un fattore determinante del corso degli eventi quasi quanto le effettive preferenze del Cremlino, qualunque esse siano.
In breve, il processo decisionale pare essere il seguente. Dopo molto nervosismo e senza consultazioni significative al di fuori di una ristretta cerchia di associati, alla fine viene presa una grande decisione: ad esempio, nel 2014 di annettere la Crimea, nel 2022 di lanciare un’invasione su vasta scala. E poi il solito schema: il Cremlino annuncia obiettivi confusi e rinnegabili, mentre i sottoposti si affannano a dar loro un senso e si ritrovano impegnati a lavorare su obiettivi politici apparentemente incoerenti. Come è avvenuto nel Donbass nella primavera del 2014, le api operaie desiderose o convinte di implementare la volontà del Cremlino si fanno in quattro per cercare di dare un senso a dichiarazioni pubbliche spesso contrastanti tra loro o riferimenti tutti da interpretare, in attesa di ordini, istruzioni o azioni chiare dall’alto che, si spera, diano significato e direzione agli eventi. Spesso però non arriva nulla del genere.
Leggendo il resoconto degli eventi di Arutunyan, ho notato due dinamiche che derivano evidentemente da questo schema. La prima è una verità ben nota ai procrastinatori cronici, vale a dire che ritardare le decisioni spesso riduce lo spazio di manovra e limita le opzioni, costringendo alla fine a scelte più spiacevoli e portando a risultati indesiderati che avrebbero potuto essere facilmente prevenuti con scelte chiare e tempestive.
La seconda conduce ad una delle idee centrali del libro di Arutunyan. La confusione con cui vengono espresse le preferenze, gli eccessivi ritardi nelle decisioni e la pluralità di attori coinvolti creano uno spazio forse inaspettato per l’iniziativa di singoli individui o piccoli gruppi di persone con opinioni forti e che non sono chiaramente in contrasto con quelle del Cremlino. È quando il Cremlino non può decidere se una linea d’azione sia auspicabile o meno, né ufficialmente sanzionata né esplicitamente condannata, che questo spazio di azione può crescere a dismisura.
In che modo la confusione del Cremlino crea spazi inaspettati per l’iniziativa individuale
Proprio questo sembra essere successo quando Igor Girkin, alias Strelkov, è entrato in Ucraina accompagnato da 52 uomini armati e si è messo a sequestrare edifici governativi a Slovyansk. Nel libro di Arutunyan, Girkin può essere molte cose (incluso un criminale di guerra per il suo coinvolgimento nell’abbattimento del volo MH17), ma è anche un uomo che crede in una missione, certo di agire per il bene della Russia, pronto a fare ciò che i leader russi non erano abbastanza coraggiosi da fare, ma anche convinto che a tempo debito il Cremlino sarebbe venuto in suo sostegno, riconoscendo la rettitudine della sua causa.
Questa dinamica non si applica solo a Strelkov. Mentre la ribellione nel Donbass andava avanti, il Cremlino non ha dato segnali univoci sugli eventi, lasciando un vuoto che ha permesso ad altri di agire. Personaggi come l’uomo d’affari nazionalista Konstantin Malofeyev o Sergei Glazyev, consigliere dell’amministrazione presidenziale, hanno potuto sfruttare al massimo la propria posizione finanziando e sostenendo i ribelli locali attraverso le proprie connessioni e risorse. Forse il Cremlino ha approvato le loro azioni, ma è rimasto in silenzio per mantenere un certo grado di negabilità e prevenire nuove sanzioni. O forse, seguendo uno schema prestabilito, Putin ha semplicemente adottato un approccio attendista, evitando di prendere una decisione il più a lungo possibile.
Ad ogni modo, la mancanza di una posizione chiara da parte del Cremlino è stata straziante per molte delle persone coinvolte, inclusi coloro che credevano di agire nel migliore interesse della Russia.
In una delle scene più memorabili raccontate nel libro, Arutunyan descrive in dettaglio come sia finita inavvertitamente nella stessa stanza in cui, nel maggio 2014, un gruppo di deputati a Donetsk stava discutendo se procedere con i piani per indire un referendum sull’indipendenza e su come interpretare una recente dichiarazione di Vladimir Putin, che chiedeva pubblicamente di rinviare il referendum, apparentemente per dare una possibilità al dialogo. Dalle sue osservazioni dirette, le persone che stavano decidendo se tenere o meno il referendum non avevano nessuna indicazione chiara a riguardo da parte del Cremlino. Il coordinamento tra il Cremlino e i funzionari sul campo era visibile ovunque in Crimea solo un paio di mesi prima, ma non, in quel momento, a Donetsk. Per inciso, qui sta anche una differenza fondamentale rispetto al 2022: quando è stato il momento di organizzare qualcosa che avesse le vaghe sembianze di un referendum nelle regioni dell’Ucraina appena occupate, il Cremlino lo ha detto chiaramente, e i suoi tirapiedi hanno debitamente obbedito.
Non prendendo una posizione chiara su ciò che sarebbe accaduto nel Donbass nella primavera del 2014, Putin stava tenendo aperte tutte le porte per approfittare di ciò che sarebbe accaduto? O stava lasciando che gli eventi andassero in una direzione che effettivamente chiudeva le porte e lasciava il Cremlino senza buone opzioni politiche? Una situazione in cui, come afferma Arutunyan, "non poteva né portare avanti né abbandonare il progetto Donbass" (p. 140)?
Alla fine, mentre l’Ucraina avanzava nell’estate del 2014 e minacciava di smantellare completamente DNR e LNR, alla fine di agosto la Russia intraprese azioni più decisive, inviando migliaia di militari (circa 6.500 all’interno dell’Ucraina con 42.000 truppe a ruotare vicino al confine) e armi pesanti, cambiando di fatto le sorti della guerra e creando le condizioni che portarono al primo accordo di Minsk nel settembre di quell’anno.
A corto di buone opzioni
Arutunyan sostiene che, a quel punto, Putin aveva effettivamente poca scelta e che, se si fosse mosso per fermare il movimento separatista, "avrebbe ammesso di aver commesso una serie di errori catastrofici e avrebbe potuto presto trovarsi di fronte ad una propria giunta nazionalista" (pag. 144); che "Mosca non poteva rischiare la debacle politica interna che ne sarebbe derivata, se avesse permesso che i separatisti che aveva sostenuto nello spirito fossero sconfitti dalle forze ucraine" (pag. 172); che alla fine "l’unico modo per porre fine all’intensificarsi dei combattimenti sembrava essere quello di inviare truppe in modo che i ribelli potessero finalmente vincere" (pag. 187); che fare un passo indietro "sarebbe costato a Putin il potere in patria" (pag. 187).
Non sono persuaso da questa logica; in definitiva, la ratio del non prendere posizione apertamente sugli eventi nel Donbass era proprio quella di mantenere l’opzione di negare plausibilmente ogni legame, non solo verso l’esterno per evitare ulteriori sanzioni, ma anche internamente, per essere nella posizione di lasciare i ribelli e i loro sostenitori al loro destino senza la necessità di licenziare alti funzionari governativi o ammettere di aver commesso errori. Posso capire perché "avendo già versato del sangue, molti [nella leadership separatista e tra le milizie] sentivano di non avere davvero altra scelta che continuare a combattere" (pag.142), ma faccio fatica a vedere come questo si applicasse a Putin nell’estate del 2014. A quel tempo, stava ancora cavalcando l’onda del sostegno pubblico all’annessione della Crimea: abbandonare al proprio destino regioni che avevano relativamente poca risonanza per l’abitante russo medio difficilmente poteva essere visto come un peccato mortale.
Anche senza accettare pienamente questa logica, tuttavia, non è facile respingere la persistente sensazione che eventi apparentemente minori avvenuti nel Donbass nella primavera del 2014 abbiano contribuito a preparare il terreno per un pendio scivoloso che alla fine ha portato, in combinazione con altre dinamiche, all’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022.
In ogni caso, non è necessario abbracciare tutte le tesi di Arutunyan per beneficiare della ricchezza di intuizioni che punteggiano il suo libro, scritto con estro giornalistico e arricchito dalla profondità e dall’attenzione ai dettagli dell’analista professionista.
Uno dei suoi contributi chiave è la sintesi di esperienza diretta sul campo come giornalista e analista che lavora da anni in e sull’Ucraina orientale e il Donbass e profonda comprensione della logica che sostiene le dinamiche di potere in Russia e intorno al Cremlino. Emerge quindi sia la familiarità intima con questo sistema più ampio esplorato nel suo libro precedente, "The Putin Mystique", sia il tipo di intuizioni che si trovano in altre pubblicazioni incentrate sul Cremlino come "Tutti gli uomini del Cremlino" di Mikhail Zigar o "Dobbiamo parlare di Putin" di Mark Galeotti.
A shopping di politiche
Come sostiene Arutunyan, è il peculiare sistema di potere del Cremlino di Putin che "è diventato la caratteristica determinante, e più confusa, della sua guerra contro l’Ucraina" (pag. 14). Perché è così difficile capire cosa vuole il Cremlino?
In primo luogo, le decisioni provenienti dal Cremlino “sono plasmate dai suoi cortigiani molto più di quanto ci si aspetterebbe in un sistema autocratico”: al Cremlino possono coesistere contemporaneamente opinioni, preferenze e approcci diversi. In secondo luogo, è sbagliato pensare che "gli obiettivi ultimi del Cremlino sono fissi e possono quindi essere accertati e contrastati" (pag. 195).
Quello che abbiamo visto in molte occasioni è un Cremlino che "provava una politica e cercava di vedere cosa funzionava, ma non era abbastanza sicuro di alcun piano per sostenerlo apertamente e convintamente". Questa costante irresolutezza ed esitazione di fronte a scelte difficili e la disordinata insistenza su mezze misure e obiettivi politici sfocati sono rimaste caratteristiche distintive dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, portando a politiche incoerenti, contraddittorie e poco convinte anche in un momento in cui la pluralità di voci all’interno del Cremlino si è ridotta.
Alcuni potrebbero contestare il fatto che il libro di Arutunyan sia fortemente incentrato sui leader ribelli e su come le loro attività e credenze interagissero e si scontrassero con le dinamiche di potere derivanti dal Cremlino. Non si dovrebbe trattare di più di come gli ucraini vedano questi eventi, o delle esperienze di vita della gente comune coinvolta dalla guerra, ma non coinvolta nella ribellione, o di che cosa ha determinato le scelte di vita dei residenti del Donbass in questi anni difficili? Forse, ma quello sarebbe un altro libro. Inoltre, una maggiore attenzione a questi aspetti non aggiungerebbe molto alla nostra comprensione di ciò che ha portato all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Purtroppo, le preferenze dei residenti di questa regione così centrale per lo sforzo bellico non sono mai sembrate una priorità per il Cremlino, e rimangono quindi sostanzialmente irrilevanti per capire perché Vladimir Putin abbia deciso di ordinare l’invasione dell’Ucraina nel 2022.