Lo strano caso di Anvar Sharipov

Anvar è un uomo di 35 anni. È stato fermato il sei gennaio scorso, senza documenti, alla stazione di Venezia Mestre e subito trasferito al Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca, in provincia di Gorizia. A prima vista un caso come tanti di immigrazione illegale. A prima vista

09/02/2011, Giorgio Comai -

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Un treno in partenza da Mestre (atropo8 /flickr)

A fine gennaio infatti alcune agenzie di stampa e quotidiani locali e internazionali hanno iniziato a parlare della vicenda. In modo inizialmente confuso. Secondo i primi lanci d’agenzia infatti l’uomo fermato a Mestre sarebbe stato il fratello di Doku Umarov, un nome che qui in Italia dice poco, nell’area russa invece molto di più. Umarov infatti è noto per aver rivendicato numerosi attentati in Russia e per voler costituire, nel Caucaso del Nord un “Emirato Caucasico” basato sulla legge coranica della Sharia.

Il 31 gennaio però le agenzie correggevano il tiro. Non si trattava del fratello di Umarov ma bensì di un non meglio precisato cittadino del Tajikistan. Infine, è stata resa pubblica la notizia che l’uomo era un cittadino russo originario del Daghestan e che il suo nome era Anvar Sharipov.

Non tutto era però sbagliato nelle notizie trapelate inizialmente. Sharipov non aveva legami di sangue con l’”emiro” del Caucaso del Nord ma è il fratello di una delle due donne che si sono fatte esplodere lo scorso 29 marzo nella metropolitana di Mosca, causando 40 vittime. E pare che le autorità italiane sapessero fin dall’inizio con chi avevano a che fare.

“Mi trovavo sul diretto Venezia-Parigi in possesso di regolare biglietto ferroviario, ma senza passaporto”, racconta Anvar Sharipov da noi raggiunto telefonicamente presso il Centro di identificazione di Gradisca, “sono arrivati i carabinieri, avevano in mano la mia fotografia e sapevano il mio nome e cognome, mi hanno trovato a colpo sicuro”. Così iniziano le vicissitudini in Italia di Anvar, arrivato nel Belpaese dopo un lungo viaggio che inizia qualche anno fa, in Daghestan, nel Caucaso del nord.

Una lunga storia

Daghestan, in evidenza Makhachkala e Balakhani - mappa di Osservatorio Balcani e Caucaso

Daghestan, in evidenza Makhachkala e Balakhani – mappa di Osservatorio Balcani e Caucaso

Anvar Sharipov è originario di Balakhani, un piccolo centro abitato situato in un distretto montano del Daghestan in una zona dove il movimento ribelle alle autorità di Mosca è particolarmente forte. “Le autorità daghestane parlano di Balakhani come di un paese ‘wahabita’”, racconta al telefono Irina Gordienko, giornalista del quotidiano russo Novaja Gazeta che vi è stata recentemente. “Di per sé potrebbe sembrare un paese tranquillo, come tutti i paesini di montagna. Ma ripetutamente le forze dell’ordine vi hanno condotto azioni speciali con grande dispiegamento di uomini e mezzi, controllando tutte le case senza dire chiaramente cosa vanno cercando”.

Il precedente presidente del Daghestan Mukhu Aliev nel 2007 aveva dichiarato, riferendosi proprio a Balakhani: “Come si può vivere in un paese del genere? Da voi si nascondono tutti coloro che sono ricercati dalla polizia, e ancora osate criticare il comportamento delle forze dell’ordine?”

Anche Sharipov si sarebbe rifugiato nel suo villaggio natale dopo un fatto accaduto nel 2004, a Makhachkala, capitale del Daghestan. “Nel 2004 mi hanno catturato mentre ero in città con un amico, mi hanno picchiato, caricato in macchina, e per due giorni mi hanno torturato in un luogo lontano dalla città,” racconta Anvar dal Cie di Gradisca, “hanno minacciato di uccidermi, volevano che mi prendessi la colpa di una serie di crimini per cui non avevano trovato colpevoli, ma appena mi hanno liberato sono scappato a Balakhani, dove mi sono nascosto per tre anni, perché nel frattempo ero diventato un ricercato… in montagna quando arrivano le forze dell’ordine le vediamo dieci chilometri in anticipo, c’è tutto il tempo per andare a nascondersi.”

Nel 2007 Sharipov approfitta di un’amnistia per i ricercati che “non avevano le mani sporche di sangue” (una formula che l’attuale presidente del Daghestan Magomedsalam Magomedov sta cercando di riproporre proprio in questi mesi) e, rientrato nella legalità, decide di trasferirsi a Mosca per lasciare nel sud della Russia tutti i suoi problemi.

“Facevo il tassista di notte, si guadagna bene a Mosca”, racconta Anvar, “insomma, avevo una vita tranquilla… ma tutto è cambiato il 3 aprile 2010”. Solo il 3 aprile infatti, sarebbe venuto a sapere che la sorella Marjam Sharipova era una delle donne che si era fatta esplodere in metropolitana il 29 marzo. “All’inizio ero incredulo, ma ho poi ho visto le foto diffuse su internet, ho subito riconosciuto mia sorella,” prosegue Anvar. “Amici mi hanno convinto che sarei dovuto scappare subito, se non volevo fare una brutta fine. Dopo tutto quello è successo, non potevo fidarmi delle forze di polizia russe.” Anvar compare presto nella lista degli indagati, e i media russi lo presentano come uno dei possibili collaboratori alla realizzazione degli attentati alla metropolitana.

Appena saputo del coinvolgimento della sorella negli attentati, Anvar dice di aver preso un autobus per Minsk, in Bielorussia, e di essere partito prima di sera in aereo per Istanbul dove amici lo aspettano. Vive lì fino all’autunno, ma dopo che le forze di polizia lo vengono a cercare a casa, decide di abbandonare la Turchia e di porre fine a questo periodo di semi-legalità per chiedere asilo politico in Europa. Consigliato da amici, sceglie la Francia come destinazione finale.

Tra i paesi notoriamente più bendisposti nei confronti delle richieste di asilo di persone provenienti dal Caucaso la Finlandia sembra troppo difficile da raggiungere, l’Austria troppo pericolosa (dopo l’uccisione del rifugiato Umar Ismailov a Vienna nel gennaio 2009), la Francia sembra invece ideale.

Non potendo ottenere un visto per un paese Ue, prende un volo per Dubai, e da lì prende un biglietto con destinazione Havana e scalo a Parigi (i cittadini russi non hanno bisogno di visto per Cuba), pronto a consegnarsi alla polizia locale non appena atterrato in suolo francese. Le cose vanno però storte, non gli viene permesso l’imbarco da Dubai. Anvar riesce infine a volare a Sarajevo, da dove cerca di riprendere il suo viaggio verso la Francia. Riesce ad entrare in Austria, da Graz raggiunge Venezia in treno. Ha il biglietto per Paris Bercy, ha già preso posto in carrozza. È il 6 gennaio 2011. Il viaggio di Anvar non finisce però a Parigi, ma al Cie di Gradisca.

Dopo il fermo Sharipov inoltra domanda di asilo politico. Che viene però rigettata con una decisione della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Gorizia datata 27 gennaio 2011. A questo punto, anche grazie all’intervento dell’associazione ICS-Ufficio Rifugiati di Trieste, Anvar Sharipov contatta un avvocato con il quale decide di fare appello alla decisione della Commissione.

Le anomalie

La vicenda che vede coinvolto Sharipov è molto articolata ed emergono a detta di chi abbiamo contattato e intervistato in questi giorni molte anomalie. A partire dal fermo sul treno alla stazione di Mestre. “Se non vi è nessun mandato di cattura internazionale, se quest’uomo non è ricercato dall’Interpol, chi ha dato alle forze dell’ordine italiane quel nome e quella fotografia?”, si chiede Gianfranco Schiavone di ICS-Ufficio Rifugiati. “E su quali basi un richiedente asilo è stato mandato al Cie e non al Cara di Gradisca?”, aggiunge.

Le perplessità di Schiavone sembrano legittime. Lo stesso sito del ministero degli Interni spiega chiaramente che i Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo (Cara) sono destinati allo “straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera” (appunto il caso di Anvar), mentre i Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie, per intendersi, gli ex-Cpt), sono “strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all’espulsione”.

L’avvocato Gianfranco Carbone, incaricato del caso, pone un’ulteriore questione. “È evidente che vi siano state delle pressioni da parte dei servizi segreti, che qualcuno abbia detto che si tratta di un sospetto terrorista. Altrimenti perché mai dei carabinieri avrebbero dovuto girare con la sua fotografia in mano? Peraltro pur mantenendo formalmente una procedura ordinaria sembra si sia fatto di tutto per accelerare un procedimento che si è concluso in meno di tre settimane, mentre di solito passano almeno 3-4 mesi.”

L’avvocato Carbone esprime perplessità anche riguardo alla competenza stessa dell’Italia a giudicare sul caso. “Se come sembra evidente Anvar Sharipov è entrato in Italia dall’Austria, secondo gli accordi Ue vigenti le autorità italiane avrebbero dovuto interpellare l’Austria, che in quanto stato di ingresso sarebbe competente a giudicare sul caso.”

Le motivazioni

Anche le motivazioni del rifiuto della richiesta d’asilo sottoscritte dalla Commissione danno adito a qualche perplessità, soprattutto se confrontate con i dossier e i report pubblicati dalle principali organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani che si occupano di Russia. Ad esempio, nelle motivazioni si legge che “non possono essere ritenute plausibili […] le asserite torture e violenze […] di cui non rimangono tracce evidenti sul corpo, se non un esito cicatriziale sull’avambraccio sinistro.”

Per quanto sia evidentemente difficile provare a distanza di anni che Anvar Sharipov sia stato vittima di tortura, non vi sono dubbi riguardo al fatto che in ampia parte del Caucaso del nord le forze dell’ordine compiano gravi violazioni dei diritti umani, inclusa la tortura. Facendo specifico riferimento al Daghestan, la regione da cui proviene Anvar, nel World Report 2011 recentemente pubblicato da Human Rights Watch si legge che “la tortura da parte della polizia è endemica anche al di fuori del contesto della lotta illegale ai ribelli”.

Nelle motivazioni del rifiuto della richiesta di asilo si legge inoltre che violazioni dei diritti umani di questo tipo si limitano al solo Caucaso del nord e non coinvolgono altre parti della Russia. Secondo la principale organizzazione per la tutela dei diritti umani russa però, vivere a Mosca o in altre parti della Russia non è garanzia di tranquillità per persone provenienti dal Caucaso del nord; in un dossier pubblicato lo scorso 26 gennaio da Memorial dedicato alla situazione dei diritti umani nella regione, Memorial dedica una sezione di tre pagine a casi di persone provenienti dalle repubbliche del Caucaso del nord che sono vittima di rapimenti in varie parti del territorio della Federazione russa. “Nel corso dell’autunno 2010”, si legge nel report, “la sparizione di abitanti della Kabardino-Balkaria, del Daghestan e dell’Inguscezia in diverse regioni della Russia è diventata sistematica”.

“Vi sono casi di rapimenti anche a Mosca e in altre parti della Russia, non solo in Caucaso del nord”, conferma Irina Gordienko, giornalista di Novaja Gazeta, “Le denunce sporte dai famigliari delle vittime non portano mai ad indagini reali sull’accaduto, nessuno è mai stato punito o condannato per casi simili”.

A giudicare dalla motivazione, non sarebbe neppure un presunto coinvolgimento in azioni terroristiche che spinge la Commissione a rigettare la richiesta di asilo, visto che la commissione minimizza le accuse sottolineando che il richiedente “è sottoposto alla fase delle indagini preliminari e non risulta imminente un provvedimento di carcerazione a suo carico”.

Irina Gordienko ritiene però che Anvar correrebbe sicuramente pericolo se ritornasse in patria.

“Aleksandr Bortnikov, a capo dei servizi segreti russi, dice periodicamente di aver scoperto tutto riguardo agli attentati alla metropolitana di Mosca, ma non vi è mai stato un processo. Semplicemente delle persone sono state uccise nel corso di operazioni speciali in Daghestan ed è stato detto che erano loro gli autori e gli organizzatori dell’attentato. Ma non vi è mai stato un processo, non si sono mai viste le prove e i materiali che dimostrerebbero la colpevolezza delle persone uccise. Se Anvar ritornasse,” sottolinea Irina Gordienko, “potrebbe essere un colpevole molto comodo per concludere definitivamente il caso. In pratica è l’unica persona in vita ancora indagata per questi attentati, e in quanto fratello dell’attentatrice sarebbe facilmente accusabile. Ho parlato di questo anche con membri dei servizi di sicurezza daghestani, che conoscono Anvar e dicono che è stato nelle loro liste di persone tenute sotto controllo, ma escludono che possa aver avuto a che fare con gli attentati alla metropolitana di Mosca.”

Sino ad ora – e questo emerge anche dalle stesse motivazioni della sentenza di diniego dell’asilo – non vi è alcun mandato di cattura internazionale a carico di Sharipov. Al momento però, le autorità italiane devono solo stabilire se il richiedente asilo abbia o meno diritto ad ottenerlo. Su questo punto, come sulle modalità del fermo del daghestano, i punti interrogativi e le anomalie rimangono molte. E vanno chiarite.

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