Romania in crisi: la prova del nove

Il piano di austerità (targato FMI) approvato da Bucarest è il più duro in Europa. Lunedì prossimo, il primo sciopero generale convocato in Romania dai tempi di Ceauşescu metterà alla prova non solo il piano, ma la tenuta complessiva del sistema socio-politico rumeno. Un’analisi

28/05/2010, Cornel Ban -

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Crisi (Tomás Rotger /flickr)

 

Non c’è dubbio: il piano di austerità economica approvato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), che il governo rumeno è deciso a voler applicare, è il più duro in Europa, e rischia di far impallidire quello greco. E’ un vero e proprio esperimento di “terapia shock” di seconda generazione, ma anche un esercizio di ingiustizia sociale. La misera paga di un insegnante che lavora in una zona rurale (200 euro al mese) e il lauto stipendio di un funzionario delle agenzie governative di Bucarest (1000 euro) saranno entrambi tagliati del 25%. Percentuale applicata anche su pensioni e assegni familiari. E’ un classico esempio della logica “prima le donne e i bambini”, applicata però al contrario.

Niente zucchero, poi, per indorare la pillola amara, se non le dichiarazioni del premier Emil Boc che ha parlato di misure temporanee, che dovrebbero essere ritirate nel momento in cui l’economia dovesse rimettersi in moto, l’anno prossimo. Visto che le previsioni di Boc sono legate a fantasmagoriche teorie, che vorrebbero una crescita economica stimolata da politiche deflazionistiche, possiamo concludere che anche quel poco zucchero risulterà piuttosto amaro al palato dei cittadini rumeni. Alcuni economisti, a dirla tutta, sono convinti che la terapia consigliata ucciderà il paziente, azzerando la domanda in un sistema economico già colpito da profonda recessione.

Tradizionalmente la somministrazione di “pillole amare” socio-economiche viene considerata la specialità del FMI e di altre istituzioni finanziarie internazionali che predicano l’ortodossia finanziaria. Si tratta di un quadro semplificato, ma non lontano dalla realtà, soprattutto quando i “pazienti” sono paesi in via di sviluppo. Le politiche promosse dal Fondo, comunque, hanno dovuto sempre fare i conti con le resistenze dei governi interessati, che hanno spesso solo simulato di applicare le misure raccomandate, arrivando a manipolare i termini degli accordi a proprio vantaggio. Agli occhi del FMI il mondo si è rivelato pieno di soggetti recalcitranti e facili alla contestazione. La Romania, da questo punto di vista, è stata un caso esemplare, tanto che dal 1990 uno solo dei molti accordi fatti da Bucarest col fondo è stato pienamente rispettato. Quello raggiunto in questi mesi, però, rispetto alla tradizione contiene un elemento davvero originale.

Il FMI novello Robin Hood?

Secondo il cliché corrente, mentre lo spietato FMI obbliga paesi poveri e indifesi ad applicare senza pietà politiche economiche di austerità i governi locali (sensibili alle voci che si levano dai diseredati, e con un occhio ai costi elettorali di tali politiche) resistono eroicamente alle pressioni alla ricerca di un compromesso “più umano”.

I recenti negoziati tra FMI e governo rumeno hanno però rovesciato il quadro. Il Fondo ha chiesto a Bucarest di tagliare il deficit crescente con un mix di tagli di spesa e aumento di imposte per le fasce di reddito più alte. Il direttore Dominique Strauss-Kahn ha affermato pubblicamente che il FMI vuole che il governo rumeno prenda in considerazione l’applicazione di un sistema di tassazione più progressivo, prima di tagliare pensioni e redditi bassi. Parlando alla tv francese, lo stesso Strauss-Kahn ha aggiunto che il Fondo si è spinto a chiedere che le riforme in Romania vengano rese socialmente più accettabili “tassando i ricchi”.

In risposta, il governo di Bucarest ha deciso di non toccare l’attuale sistema, mentre alcuni esponenti dell’esecutivo hanno attaccato le “dichiarazioni ideologizzate” fatte da Strauss-Kahn, accusandolo di guardare alle proprie ambizioni politiche nella sinistra francese. Anche se il Fondo si è dichiarato disponibile a rivedere i termini dell’accordo raggiunto, Bucarest ne ha chiesto il pieno rispetto, difendendo a spada tratta la regola base del proprio sistema di tassazione. Oggi, in Romania, chiunque percepisce uno stipendio, dai direttori generali delle multinazionali ai lavoratori che ricevono il minimo sindacale, deve pagare una “flat tax” del 16%. La norma ha fatto sì che dal boom economico degli anni scorsi abbiano tratto vantaggio non tanto i salari, quanto i dividendi delle aziende e le transazioni del settore immobiliare.

Rimane comunque il fatto che alcune centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti hanno un livello salariale dieci volte superiore al minimo: questa fascia potrebbe sopportare un aumento di tasse molto più facilmente di chi è meno fortunato. Anche i vari milionari e miliardari del paese godono del regime di “flat tax”. Chi rientra in queste categorie può essere senza dubbio definito “ricco”, ma il governo non sembra intenzionato ad aumentare loro le tasse. Perché?

Forse un giorno analisti e storici dibatteranno della questione, quando ormai questa non sarà più di attualità. Per trovare una risposta, potrebbe essere utile partire dalle dichiarazioni del ministro delle Finanze Sebastian Vladescu, che ha riassunto brevemente in pubblico quello che, con tutta probabilità, i membri dell’esecutivo si sono detti nelle stanze chiuse del potere. “I ricchi sono quelli che assumono rischi, che innovano e che, in fin dei conti, creano la ricchezza da redistribuire”. Seguendo questo ragionamento, tassarli significa prendere una decisione ingiusta e, in fondo, masochisticamente sbagliata.

Ma quanto è sostenibile questo approccio in termini politici? In teoria, la coalizione oggi al governo a Bucarest ha legittimità sufficiente per portarlo avanti, avendo vinto le elezioni appena sei mesi fa. Mentre questo articolo viene scritto, il governo Boc si sta preparando a chiedere in parlamento il voto di fiducia sul “pacchetto austerità”. Al di là di una diffusa avversione per la figura del presidente Traian Băsescu, padre politico del governo Boc, l’opposizione appare profondamente divisa sulla materia in discussione: i liberali vogliono mantenere la “flat tax”, mentre i socialdemocratici spingono per un sistema progressivo.

Nonostante la debolezza dell’opposizione (e il probabile esito positivo del voto di fiducia), le drammatiche immagini di pensionati che si scontrano con le squadre anti-sommossa della polizia davanti al palazzo della Presidenza lasciano pensare che ci sia poco spazio per l’ottimismo, e che non sarà affatto facile implementare le misure di austerità. Non da ultimo, chi si è affrettato a dire che i sindacati rumeni, storicamente litigiosi, sono ormai fuori dai giochi, stavolta potrebbe rimanere sorpreso

Prova di forza

Negli anni ’90 i sindacati rumeni hanno dovuto digerire varie ondate di riforme verso il sistema di mercato. Le organizzazioni dei minatori riuscirono allora addirittura a far cadere un governo grazie a proteste violente, portando il paese sulla soglia dello stato di emergenza. Oggi i sindacati dei minatori sono solo un pallido spettro di quello che erano un tempo, ma le altre confederazioni hanno mantenuto molta della propria forza, e sanno ancora farsi valere quando si tratta di difendere gli interessi dei propri membri.

Durante il ricco decennio appena trascorso, i sindacati hanno garantito la pace sociale necessaria al processo di integrazione europea, dimostrando capacità di cooperazione con i settori chiave del capitale. Quando però la Banca Mondiale spingeva il governo di Bucarest a sveltire le procedure di assunzione e licenziamento e a ridurre l’ambito della contrattazione collettiva, le minacce di proteste organizzate furono abbastanza credibili da convincere l’allora esecutivo di centro-destra a non toccare il codice del lavoro.

Durante l’attuale crisi, il governo ha inizialmente chiesto ai sindacati di discutere il piano di austerità. Quando però i sindacati non solo hanno fatto resistenza, ma hanno rivendicato il supporto ricevuto da una serie di organizzazioni di datori di lavoro tradizionalmente cooperative con le confederazioni, il governo ha deciso di bypassare le parti sociali e rischiare un voto di fiducia in parlamento.

La mossa è di cruciale importanza per due motivi. Innanzitutto il governo ha messo da parte il principio di concertazione, che fino ad ora si è rivelato di grande importanza per trovare compromessi sostenibili. I sindacati hanno perso fiducia nell’esecutivo, e ci vorranno anni per rimarginare questa ferita, proprio quando un coordinamento istituzionale potrebbe essere decisivo per evitare la catastrofe. In secondo luogo, i sindacati non hanno più incentivi a collaborare, ma vengono spinti a prendere la strada dello scontro.

La settimana scorsa c’è stata una delle proteste di piazza più dure dalla fine del regime di Ceauşescu. E’ stata una manifestazione pacifica e ben organizzata, al contrario delle tempeste sociali degli anni ’90. Le cose potrebbero però presto cambiare. Per lunedì 31 maggio è atteso il primo sciopero generale tenuto nella Romania democratica. Considerato che le aziende potrebbero approfittare dei tagli nel settore pubblico per operare a loro volta decurtazioni di stipendio, le fila degli insoddisfatti pronti alla protesta potrebbero gonfiarsi oltre le aspettative.

La storia recente della Romania conta molte sconfitte dei sindacati. Anche se generalmente ben disposto verso le cause dei lavoratori, il sistema giudiziario ha più volte preso le parti del governo sulle questioni legate alla legalità degli scioperi. Anche la repressione attuata dalla polizia in questi anni si è fatta sentire.

Ora però è la prima volta che il governo prova un braccio di ferro di queste proporzioni con i sindacati, le cui rivendicazioni godono di larga popolarità nella società rumena. Le prossime settimane saranno un test decisivo non soltanto per i piani di austerità, quanto per l’evoluzione complessiva del rapporto stato-società nella democrazia liberale rumena.

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