Margo Rejmer: Bucarest, polvere e sangue
Un libro sul passato e presente di Bucarest, dove si intrecciano destini e vissuti dolorosi di una società che ancora non è riuscita a fare i conti con il trascorso comunista. Un’intervista
“Bucarest, polvere e sangue” della scrittrice polacca Margo Rejmer – edito da Keller Editore – è un viaggio nella capitale delle contraddizioni, dove si vaga costantemente tra il caos urbano, l’anarchia delle auto in movimento e l’incontrollabile energia di chi la abita. Le cronache che compongono questo lungo reportage offrono al lettore una città in continua transizione, passando attraverso luoghi fisici, ideologia politica e destini incrociati. La fluida narrazione di Rejmer permette di comprendere le circostanze storiche, le conseguenze dei dettati assurdi del regime di Ceaușescu, i traumi inflitti sulla popolazione e la lenta lacerazione del tessuto sociale.
Cosa rappresenta Bucarest agli occhi di una scrittrice polacca?
Ho l’impressione che le persone che vivono a Varsavia, una città che è stata spazzata via durante la seconda guerra mondiale, idealizzino l’immagine della città perduta, la città che le è stata sottratta. Questa nuova, ricostruita Varsavia è una ragazza poco attraente, ordinata, con un grembiule pulito, che si sforza molto: lucida le poche risorse che ha, pensa in modo pragmatico solo per avere una vita decente senza grandi aspirazioni. Bucarest è per certi versi l’opposto di Varsavia: è anziana ma al tempo bellissima, amara ma ancora piena di fantasia. Varsavia mi sembra a volte noiosa e razionale, Bucarest è sgargiante e imprevedibile. Un brio e un coraggio architettonico, un eccesso di stili: Bisanzio e Gaudì orientale, postmodernismo totalitario e Oriente. A prima vista, nulla vi si adatta, e la bellezza è nascosta dietro le pareti. Rispetto a quella polacca, l’architettura comunista romena è ridimensionata, sproporzionata, travolgente nelle sue aspirazioni, persino brutale. Ma per capire Bucarest, bisogna vedere tutti i suoi strati. A "Bucarest" la complicata storia della Romania si riflette nella straordinaria diversità architettonica della città.
Il libro è ricco di cronache di vita sotto l’era di Ceaușescu, lei ha dato voce ad esperienze che non avevano voce. È stato difficile ottenere la fiducia dei suoi interlocutori e raccoglierne i ricordi?
La ricerca in Romania è stata molto più facile rispetto al mio successivo lavoro in Albania. Nonostante i romeni abbiano una storia traumatica e la frase "per favore non citi il mio nome" era il ritornello di molte conversazioni, ho avuto l’impressione che mi abbiano accolto con benevolenza. Come se fossero pronti a raccontare le loro storie e aspettassero solo che qualcuno li ascoltasse. Ho trovato facilmente personaggi interessanti e ho creato nuove cerchie di amici. Quando sono arrivata in Romania, mi è sembrato di capire la realtà in modo intuitivo. Nel caso dell’Albania, il primo anno ho girato a vuoto, rimbalzando su muri. Nessuno voleva parlarmi del passato. Dovevo imparare a pensare come gli albanesi per capire la portata della loro sfiducia nella società.
Rompere il legame tra i cittadini istigando dubbi e paure era una pratica ricorrente durante il comunismo nei paesi dell’Europa orientale. Quali conseguenze hanno lasciato queste cicatrici sull’evoluzione della società romena di oggi?
La Romania non ha mai fatto i conti con il proprio passato. Dal 1989, le istituzioni sono state controllate da gruppi eredi dei comunisti o associati al sistema precedente, quindi non c’è alcuna pressione da parte delle élite per fare i conti con il passato. La Securitate, la polizia segreta, aveva una grande influenza sulla vita delle persone, eppure non è mai stata chiamata a rispondere delle sue attività. La mancanza di conoscenze storiche e di discussioni istituzionali sul passato favoriscono la mitizzazione del comunismo e la profonda disillusione nei confronti dei politici porta all’inaspettata popolarità del mito di Nicolae Ceaușescu. Oggi, più del 60 percento dei romeni ritiene che Ceaușescu sia stato il miglior presidente della storia della Romania. "Avrà anche commesso degli []i, ma almeno dava lavoro e dignità alla gente. E adesso? Anche se siamo parte dell’Unione Europea cinque milioni di persone hanno lasciato il paese: è questa la vita migliore?". Il 52 percento dei romeni concorda con l’affermazione che la Romania ha bisogno di un uomo forte che non guardi al parlamento quando governa il paese.
Nel libro c’è un passaggio in cui si dice che “la libertà è come l’aria: quando ce l’hai non senti di averne bisogno, ma quando ti manca cominci a soffocare”. Cosa significa la libertà per le nuove generazioni di romeni?
Oggi la libertà ha aspetti pragmatici, è associata ad un senso di autorealizzazione, al diritto di decidere per sé stessi e all’influenza della società civile sulla vita politica. Fino a che punto una persona comune è in grado di fermare o limitare le patologie del potere scendendo in piazza? Dal 2013, enormi proteste di piazza, con centinaia di migliaia di persone, hanno attraversato la Romania, contro la corruzione, la degenerazione dei politici e contro chi depredava il paese. La società civile è riuscita a salvare la regione di Rosia Montana dallo sfruttamento e dalla distruzione e, dopo l’incendio del club Colectiv, le proteste di massa hanno dato il via a una grande discussione sulla corruzione e sulle patologie del servizio sanitario. Ma ora l’opinione pubblica è profondamente stanca. I nuovi politici entrati nel governo sull’onda delle proteste sociali non si sono rivelati efficaci come ci si aspettava, e anche intorno a loro ci sono state accuse di corruzione. I romeni non si fidano né del presidente, né del parlamento, né del governo. Per molti, libertà significa il diritto di lasciare il proprio paese per trovare un posto migliore in cui vivere.
Quali sono i suoi prossimi progetti per i lettori italiani? Qualche nuova pubblicazione a breve?
Keller Editore è prossimo a pubblicare il mio libro di saggistica sull’Albania comunista, “Fango più dolce del miele”. Al momento sto lavorando a una raccolta di brevi racconti sui Balcani e, una volta terminata, tornerò a scrivere un altro reportage sull’Albania contemporanea, “Ditë të bukura na presin” (Belle giornate ci aspettando, n.d.)