La de-ideologia
Una delle firme più rinomate del giornalismo rumeno, Cristian Tudor Popescu, a ruota libera su media, libertà d’espressione e sulle prossime elezioni presidenziali in Romania. "Ogni combinazione è possibile, in un mondo ormai de-ideologizzato". Una nostra intervista
Cristian Tudor Popescu è uno dei più stimati intellettuali della Romania contemporanea. Saggista, giornalista, analista politico, critico cinematografico, ex presidente del Club della stampa rumena. Ha condotto talk show per varie stazioni televisive e ha collaborato a varie testate in qualità di critico letterario e traduttore. Popescu è stato capo redattore del quotidiano Adevărul prima di fondare il giornale Gândul nel 2005, di cui è ora senior editor.
Che effetti ha avuto la crisi finanziaria globale sull’ambiente giornalistico in Romania?
La crisi nel giornalismo rumeno ha avuto inizio prima che arrivasse la crisi finanziaria. Questo settore ha già sofferto significativi cambiamenti in negativo negli anni recenti. La crisi finanziaria ha solo enfatizzato la debolezza della categoria dei giornalisti. Attualmente in Romania essere giornalista è una professione sempre più vicina ad una semplice fornitura di servizi; ha perso l’aura che aveva qualche anno fa, quella di un mestiere speciale, nobile, con ogni sorta di implicazioni etiche. Oggi per i giornalisti "deontologia" è diventato sinonimo di "vergogna". E in questo scenario naturalmente pesano anche gli esuberi, sia nei media cartacei che nella televisione. Ma è soprattutto la carta stampata ad essere colpita dalla crisi. Normalmente la gente trova rifugio in Internet, mentre molti giornalisti hanno abbandonato il lavoro di cronaca e sono usciti dal settore. Alcuni si sono trasformati – tristemente – da veterani del giornalismo d’inchiesta in portavoce per magnati di più o meno dubbia reputazione.
In uno dei suoi ultimi editoriali lei ha scritto che ora ogni cosa ruota attorno all’avere soprattutto dei buoni indici di gradimento. I media in Romania si sono sempre comportati in questo modo, o questo è un effetto collaterale della crisi, un modo per assicurarsi un pubblico?
Negli ultimi anni questo comportamento giornalistico si è enfatizzato, specialmente in televisione, dove pesano gli indici di ascolto: cercare pubblico ad ogni costo. Per ottenere questo fine, niente è vietato: si possono portare in studio guaritori, cadaveri, domatori di canguri… Se capita un terremoto, ci riempie di gioia, e sapere che nessuno è morto ci riempie di tristezza. Il terremoto che ha colpito la Romania alla fine di aprile è stato di soli 5 gradi Richter e nessun edificio è crollato. Nonostante l’insistenza dei conduttori televisivi, i sismologi non erano in grado di fornire il desiderato scenario apocalittico. Questa è una attitudine distorta. E così, neanche la qualità del pubblico interessa più: ciò che interessa è solo il numero degli spettatori. Dove arriveremo di questo passo, è difficile prevederlo. Ad ogni modo la qualità del pubblico che si rivolge ai media è in costante calo, e altrettanto in calo è la qualità dei giornalisti.
C’è una soluzione a questa situazione, possiamo fare qualcosa al riguardo?
No. Siamo in un ambiente mediatico libero, dove esistono stazioni televisive commerciali, che fanno ciascuna quello che ritiene più opportuno. Io non credo in questo momento a regolamentazioni forzate, leggi passate dal parlamento e imposte alla stampa. Una soluzione sarebbe l’autoregolamentazione. Questo sarebbe un modo. Un altro modo è la saturazione naturale, che ci si può aspettare. Così, a un certo livello di colorate aberrazioni televisive, è possibile ci sia un limite naturale oltre il quale non si può andare, e ci potrebbe essere un passo indietro. Altrimenti, io non credo che leggi molto severe potrebbero regolamentare il giornalismo.
Quale pensa sia il ruolo dei media indipendenti, i "blog"? Fino a che punto questi sono sviluppati?
I blog non sono giornalismo, diciamolo molto chiaramente. Per me questa distinzione deve sempre essere fatta. Essi sono una creatura dell’ambiente giornalistico. Sono emersi in questo contesto, molto buono, della libera circolazione dell’informazione, dei manifesti per la libertà d’informazione, così sono fenomeni reali. Bisogna tener presente che essi possono essere molto utili in momenti di grande crisi, come quello che si è avuto in Moldavia all’inizio di aprile: quando i canali ufficiali e semi-ufficiali per la trasmissione delle informazioni sono stati bloccati, questi blog continuavano a funzionare. È importante, perché sappiamo che l’informazione non può essere bloccata da nessun sistema dittatoriale, finché questi blog sono su Internet. Ma non possono sostituire il giornalismo professionale.
Lei ha menzionato la dittatura. In questi tempi di crisi è più alto il rischio che s’instauri un sistema di questo tipo, o un sistema autoritario?
No, in nessun caso possiamo avere un qualche tipo di regime Ceausescu, un regime autoritario o dittatoriale. Ma ora ci sono metodi più sofisticati per costruire una dittatura. Una dittatura che non è più così visibile, costruita con mezzi elettronici. Certe libertà possono essere tagliate, senza attriti. A questo riguardo Internet resta l’arma principale, come possibilità per la libera comunicazione. Negli anni ’20 e’30, quando sono state possibili le grandi dittature in Europa, il mezzo di comunicazione più sofisticato era la radio, dato che non c’era la televisione. Le grandi dittature del ventesimo secolo furono costruite con i quotidiani, i volantini e la radio. Ecco perché esse riuscivano a tenere sotto controllo milioni e milioni di persone, nelle cui teste veniva inculcata una realtà parallela. Ora non è più possibile individuare, selezionare e distorcere le informazioni per rendere gli uomini controllabili in una dittatura.
Sì, ma ci sono ancora leggi che possono essere modificate, apparati legislativi da riscrivere.
No, ci sono dei limiti, perché siamo membri dell’Unione Europea, della NATO. Se approvassimo misure di questo tipo, la reazione degli organi di Bruxelles sarebbe immediata. Ciò che si può fare, si può nascondere, ma non con leggi esplicite che proibiscano commenti offensivi per lo Stato. Per esempio, se in questo preciso momento venisse introdotta una legge del genere, con pene da 5 a 10 anni di prigione per offesa verso le autorità, la reazione di tutti gli organismi internazionali, delle agenzie di stampa, delle istituzioni di Bruxelles sarebbe immediata. Ci sono ancora certi diritti umani che devono essere rispettati.
Le faccio questa domanda perché il governo di Sofia recentemente ha presentato una bozza di legge per proibire le manifestazioni di protesta nei pressi degli edifici pubblici, governativi e militari, degli ospedali e delle strade nazionali.
In situazioni di questo tipo bisogna alzare la voce. In Romania una simile legge non sarebbe possibile. In Romania hanno tentato di attaccare la stampa attraverso emendamenti del codice civile che fondamentalmente limitano la libertà di stampa, e la reazione è stata netta, sia da parte dei giornalisti che delle organizzazioni non-governative. Sono arrivati fin dal presidente a protestare; si sono appellati alle organizzazioni internazionali. Così, prima di tutto bisogna avere questa reazione della società civile.
A proposito del presidente, potrebbe dirmi qualcosa rispetto alle prossime elezioni presidenziali che si terranno quest’autunno? Traian Basescu ha diritto ad un altro mandato. Le aspettative sono che egli venga rieletto?
Al momento sì, stando agli ultimi sondaggi. Se le elezioni si tenessero domani, Basescu vincerebbe il primo turno. Ma è difficile dire cosa accadrebbe nel secondo turno.
Qualcosa cambierebbe in modo significativo se egli fosse rieletto?
No, questo non produrrebbe cambiamenti fondamentali in Romania, indipendentemente dalla persona che sarà eletta presidente in autunno. In questo momento in Romania vi sono certe forze politiche, la cui configurazione non può essere alterata per alcuni anni a venire. Così, ipotizziamo che abbandoni il governo uno dei partiti politici attualmente al potere, i socialdemocratici (PSD) o i liberal-democratici (PD-L): bene, i nazional-liberali o l’Unione democratica degli ungheresi in Romania prenderanno il suo posto e questo non cambierà le cose in modo decisivo.
Come potrebbe accadere questo?
Tramite accordi tra i partiti, attraverso una mozione di fiducia in parlamento. La composizione del parlamento rimarrebbe la stessa, ma quella del governo potrebbe cambiare a seconda dell’esito delle elezioni presidenziali. Ciò che è essenziale è quali saranno le percentuali dei singoli candidati nel primo turno. Perché se dopo il primo turno i due candidati che vengono dietro al leader avranno raccolto, insieme, un numero di voti sensibilmente più alto di quelli ottenuti da Basescu, al secondo turno ci sarà inevitabilmente un accordo tra i due, e Basescu probabilmente perderà. Sarebbe un caso molto simile a quello di Ion Iliescu nel 1996, quando egli vinse il primo turno, ma al ballottaggio i due che lo seguivano, Emil Constantinescu e Petre Roman, fecero un accordo e Ion Iliescu perse le elezioni a favore di Constantinescu.
C’è oggi un nuovo Emil Constantinescu, qualcuno che possa battere l’establishment, come accadde nel 1996? Uno dei candidati, il liberale Crin Antonescu, per esempio?
Il paragone con Emil Constantinescu non è appropriato. Crin Antonescu è diverso. Constantinescu è arrivato ad essere presidente sulla base di altre considerazioni: c’erano considerazioni politiche, si guardava al passato della Romania; si aveva memoria dei partiti storici. Ora questi sono stati dimenticati. Certo, Crin Antonescu e l’altro principale candidato, Mircea Geoana, hanno entrambi la possibilità di raccogliere una percentuale di voti potenzialmente importante. Io non penso che essi riusciranno ad aver la meglio su Traian Basescu al primo turno. Ancora, tutto dipende molto dalla somma totale dei loro voti e dai calcoli che possono esser fatti dopo.
Così la politica ora è fatta puramente di calcolo e interesse. Non c’è nulla di ideologico?
Assolutamente no. La politica rumena è completamente de-ideologizzata; nessuno è più interessato a dottrine, piattaforme o niente del genere. Qualsiasi accoppiata è possibile. Negli anni ’90 c’erano barriere dottrinali, che cosa inconcepibile! E così era nella stampa: i giornali si davano battaglia come da dietro le trincee, la gente non lasciava un giornale per andare ad un altro, perché tra di essi c’era una lotta ideologica. Ora i giornalisti migrano dove c’è lavoro. Non interessa loro se lavorano per questa o per quell’altra testata. Uno che fino a ieri scriveva editoriali e conduceva coraggiose inchieste contro un particolare magnate, il giorno dopo lo ritroveremo, senza alcun problema, impiegato nei media di proprietà di quello stesso magnate, con una remunerazione considerevolmente più alta. E così ora è anche in politica: qualsiasi combinazione è possibile, se porta voti e permette di accedere al potere. E se porta soldi.