Il cinema romeno ha colpito ancora

Un film amaro, con un finale spiazzante e forse liberatorio, che tratta di libertà, di giustizia e di democrazia e delle difficoltà nel metterle in pratica quando manca un linguaggio comune. “Bad Luck Banging or Loony Porn” di Radu Jude ha vinto l’Orso d’oro del 71° Festival del film di Berlino, conclusosi lo scorso 5 marzo

17/03/2021, Nicola Falcinella -

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Una scena del film “Bad Luck Banging or Loony Porn” di Radu Jude

Il cinema romeno ha colpito ancora. “Bad Luck Banging or Loony Porn” di Radu Jude, che era uno dei grandi favoriti della vigilia, ha vinto l’Orso d’oro del 71° Festival del film di Berlino. Un premio meritato che suggella la prima parte di un’edizione anomala della rassegna, quella riservata ai giornalisti e agli addetti ai lavori, mentre il pubblico berlinese vedrà i film in sala dal 9 al 20 giugno. È la terza vittoria alla Berlinale negli ultimi dieci anni (dopo “Il caso Kerenes” di Peter Calin Netzer nel 2013 e “Ognuno ha diritto ad amare” di Adina Pintilie nel 2018) per la Romania che si conferma una delle cinematografie più originali e ricche degli anni 2000, vincitrice di riconoscimenti importanti in tutti i festival tranne, curiosamente, la Mostra di Venezia.

La pandemia da coronavirus ha imposto un cambio di formula rispetto alle consuetudini, ma non ha fermato la manifestazione: solamente cinque giorni intensi di proiezioni in streaming e una selezione più ridotta numericamente ma di buon livello, con pochi grandi nomi in lizza e opere più che valide e stimolanti. E ancora una volta si sono messi in evidenza i paesi dai Balcani al Caucaso.

Tra le 15 pellicole della competizione internazionale, dalla quale erano assenti gli italiani, ha trionfato meritatamente il regista già in gara a Berlino con “Aferim!” e tra i più importanti esponenti della scuola di Bucarest, finalmente riconosciuto con un premio importante. Un lavoro che si è visto appiccicare l’etichetta di film scandalo dal momento che contiene un paio di scene di sesso esplicito, come nell’inizio piuttosto forte. Si tratta di una scelta provocatoria e coraggiosa da parte di Jude, ma funzionale al film, che si propone di sfidare lo spettatore per spingerlo a ragionare e mettersi in discussione.

La protagonista Emilia è un’insegnante messa all’indice, perché un video che la riprende con il marito è caricato su internet da sconosciuti, e da vittima si trova sotto accusa. Anziché una violazione della sua sfera privata, per alcuni genitori della sua classe diventa lo strumento per screditare e processare una docente sempre apprezzata e benvoluta dagli studenti. Così Jude mostra all’inizio frammenti del filmato incriminato, che sarà poi mostrato e commentato in maniera morbosa durante l’assemblea dei familiari. Il film è molto attuale perché la riunione si svolge all’aperto nel cortile, con i partecipanti distanziati e in mascherina nonostante le proteste di complottisti e negazionisti del Covid-19. Tra negare il virus e giudicare il privato dell’insegnante, ma pure uscirsene con frasi contro gli ebrei e i rom o nostalgiche delle dittature, il passo è breve e il regista mostra bene certi atteggiamenti e modi di ragionare, se di ragionare si può parlare.

“Bad Luck Banging or Loony Porn” sottolinea, mentre la protagonista attraversa a piedi Bucarest per raggiungere la scuola, il contrasto tra avidità e lusso e abbandono e povertà, per poi raffigurare una borghesia ipocrita che guarda solo l’apparenza. Il gruppo dei genitori è il microcosmo dove l’abbrutimento è evidente, l’egoismo palese, il complottismo e il moralismo dilaganti. Se la prima parte e quella conclusiva della pellicola seguono Emilia, tutta la sezione centrale è dedicata a un dizionario di termini, lettera per lettera, con descrizioni ed esempi ed immagini. Con ironia graffiante e amara, Jude fa un elenco spiazzante, operando spesso con paradossi, insistendo sulle deportazioni di rom ed ebrei, sulle dittature e sulle storture della società. Ne risulta un film amaro e pessimista, con un finale spiazzante e forse liberatorio, che tratta di libertà, di giustizia e di democrazia e delle difficoltà nel metterle in pratica quando mancano una base e un linguaggio comuni. Un’opera molto bella, attualissima, che scuote e che dividerà, così come divide il caso della protagonista, che si trova suo malgrado al centro di uno scandalo e difende la libertà di essere se stessa nel suo privato rispetto alle nuove possibilità delle tecnologie e al moralismo altrui.

Una scena tratta da "Tabija – The White Fortress" di Igor Drijaca

Una scena tratta da "Tabija – The White Fortress" di Igor Drijaca

Tra i film migliori inclusi nella Competizione, rimasto fuori dai riconoscimenti ufficiali, ma insignito premio Fipresci della stampa internazionale, c’è il georgiano “What Do We See When We Look at the Sky?” di Alexandre Koberidze (già autore di “Let The Summer Never Come Again” del 2017). Siamo nella cittadina di Kutaisi e la studentessa di medicina Lisa e il calciatore Giorgi si conoscono per caso: molto bella la scena dell’incontro fortuito davanti a una scuola che li lascia quasi completamente fuori campo. I due si danno appuntamento per il sabato seguente al bar vicino al ponte sul fiume Rioni. Un maleficio è però in agguato e trasforma entrambi, rendendoli irriconoscibili, oltre a perdere il loro migliore talento. Entrambi si presentano all’orario convenuto, ma non si riconoscono. Finiranno con il cambiare attività e a lavorare in due locali vicini, mentre sono in corso i Mondiali di calcio. Intanto c’è l’assistente di due registi che sta percorrendo le strade alla ricerca di coppie adatte a un film in preparazione. Tra le mani di Koberidze è come se il cinema di Eric Rohmer incontrasse quello di Otar Ioseliani, raccontando l’amore impossibile, il destino, il caso, con un’atmosfera sospesa e leggera e un senso di magico (e la magia del cinema pronta ad agire). Si respira, per una volta, anche un senso di plurale: i protagonisti non sono soli, vivono circondati da storie (e da ragazzi e ragazze che giocano a pallone per puro divertimento sulle note di “Notti magiche”, finché la palla rotola nel fiume), sottolineate nei tanti intermezzi della vicenda principale, piccole sottolineature che possono sembrare superflue e invece donano il tono generale. E molto azzeccata la trovata del narratore che istruisce lo spettatore in vista del passaggio chiave.

Koberidze era anche presente come interprete nel tedesco “Blutsauger – The Bloodsucker” di Julian Radlmaier, presentato nella sezione Encounters, una surreale commedia marxista di vampiri ambientata in Germania nel 1928. La giovane nobile Octavia ospita Ljowuschka, che si spaccia come barone russo mentre è in realtà un aspirante attore, intorno a loro l’alta società della Repubblica di Weimar tra la paura del comunismo e l’ascesa dei fascismi, mentre gli amori si scontrano con le differenze di classe.

Nella sezione Panorama l’unico premio assegnato è stato quello Fipresci, andato al turco-romeno "Brother‘s Keeper“ di Ferit Karahan. Nella stessa sezione era molto atteso il serbo “Kelti – Celts” dell’esordiente Milica Tomović, che ha confermato le aspettative. Siamo nei primi mesi del 1993 e lo si intuisce da pochi elementi, da notizie che si ascoltano alla radio: la guerra in Bosnia, Al Pacino nominato all’Oscar per “Profumo di donna” e Boutros-Ghali segretario dell’Onu. A Borča, periferia di Belgrado, Minja compie otto anni e si prepara a festeggiare, ma l’inizio della giornata non è promettente anche se la festeggiata non lo sa. Uscendo dalla doccia, il padre osserva che la moglie Marijana si sta masturbando dentro il letto e fa finta di nulla. È il segnale della crisi di una relazione e pure il sintomo di un disagio più generale che vedremo emergere. Per il resto sembra tutto normale, la scuola, il lavoro, le commissioni, i preparativi, poi arriva il momento della festa. Minja indossa orgogliosa il suo costume da ninja e via via giungono gli altri bambini, i parenti, gli amici di famiglia; si crea un’atmosfera rumorosa dalla quale cercano di tirarsi fuori la sorella maggiore e contestatrice Tamara e il fratellino minore Fiča. Questi se ne sta per conto suo, vede tutto o quasi (e in questo diventa un po’ il punto di vista del film) senza farsi notare, si arrangia da solo anche nel combinare piccoli danni. Nel gruppo di sono sloveni, croati, gay, una coppia di lesbiche che vogliono fare ingelosire la ex, teatranti insoddisfatti, un anarchico, chi si lamenta dell’arrivo dei profughi bosniaci in città: insomma un microcosmo della società e dell’ex Jugoslavia. All’improvviso, la padrona di casa se ne va senza dire nulla e, come prevedibile, la festa si rivela un disastro. “Kelti” è un film corale nel quale gli adulti escono malissimo a tutti i livelli. L’espediente di riunire in una casa tante tipologie di persone per raccontare gli anni ’90 non è nuovo (uno degli ultimi casi è il buon “Focus Grandma” del bosniaco Pjer Žalica), ma la debuttante Tomović lo sa sfruttare in maniera diversa, non c’è nostalgia per il passato o per la Jugoslavia, bensì un’aria di fallimento e impotenza generale.

Una gran bella sorpresa, nella sezione Generation rivolta a un pubblico di ragazzi e giovani, è il bosniaco “Tabija – The White Fortress” di Igor Drljaca, che aveva già all’attivo “Krivina” e “The Waiting Room” ma coglie qui il suo risultato più alto. Faruk è un adolescente senza genitori (la madre era pianista) che vive con la nonna a Sarajevo. Aiuta lo zio Mirsad che raccoglie rottami e fa qualche commissione per piccoli delinquenti. Le cose si fanno più pesanti dopo che il ragazzo ha accompagnato la giovane Minela a un appuntamento in una villa fuori città. Intanto in un centro commerciale conosce Mona, figlia di un politico, che si vergogna un po’ della sua famiglia che la vuole mandare in Canada dagli zii. “Tabija” è la storia di un amore adolescenziale nato per caso tra due da mondi molto diversi, che non si sarebbero incontrati altrimenti, e raccontato un po’ come una fiaba, usando bene i controluce sulla fortezza che domina Sarajevo. Un film tenero e poetico, che riesce a raccontare un sentimento e insieme il luogo in cui vivono i protagonisti. Funzionano molto bene i due ragazzi, soprattutto lui (Pavle Cemerikić) ha una bella faccia e la grinta e la delicatezza giuste. E bella la colonna sonora eclettica. La pellicola ricorda un po’ “Summer in the Golden Valley” (2003) di Srdjan Vuletić sia per il racconto di adolescenti (e anche in alcune inquadrature), sia perché chiama “valle dorata” la valle di Sarajevo.

In Forum era presente il documentario georgiano “Taming The Garden” di Salomé Jashi. Un lavoro che si può apprezzare meglio conoscendo le premesse che il film sorvola e non spiega, se non per accenni. Da alcuni anni il miliardario ed ex primo ministro della Georgia, tra il 2012 e il 2013, Bidzina Ivanishvili sta realizzando un giardino di alberi secolari a Ureki, sulla costa del Mar Nero nel sud del paese, trasportandoli da altre località. Alcune immagini di questi trasporti, soprattutto su chiatte via mare, sono rintracciabili in internet e hanno suscitato parecchie proteste contro il politico. La regista sceglie di non partire dalla cronaca o dalla denuncia, bensì dall’osservazione di come queste piante imponenti, di varie specie e in particolare faggi, vengano eradicate da boschi o cortili. Lunghe operazioni per circoscrivere gli alberi senza comprometterne troppo gli apparati radicali per poterli poi rimuovere, anche se a volte nella potatura o nel trasporto se ne danneggiano altri. Senza commenti, lasciando solo i dialoghi degli operai o dei padroni dei cortili spogliati da queste storiche presenze, Jashi vuole suggerire il senso di sradicamento e farne un simbolo delle trasformazioni della società georgiana. È anche la rappresentazione di un mondo in cui la gente comune, magari in cambio di pochi spiccioli, deve soggiacere ai capricci dei potenti.

Infine nella sezione Encounters era incluso il greco “Moon, 66 Questions” di Jacqueline Lentzou, al primo lungometraggio dopo alcuni corti presentati e premiati in diversi festival. Artemis torna ad Atene per assistere il padre Paris, malato di distrofia muscolare e appena uscito dall’ospedale. Tra colloqui con possibili badanti, sedute con la fisioterapista che mostra alla famiglia come aiutare il malato a camminare e giochi a mimare i titoli dei film, emerge un segreto familiare. Un film meno ispirato dei corti precedenti e troppo nel solco del “weird cinema” greco di questi anni sulla scia di Lanthimos. C’è però un abbraccio che è la cosa più vera, intensa e sentita e vale il film.

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