I giorni della rivoluzione
Ioan Savu lavorava in una fabbrica di detersivi di Timişoara. Il 16 dicembre dell’89 scese in piazza con migliaia di suoi concittadini. Quattro giorni dopo si trovò di fronte ad un incredulo primo ministro rumeno, per chiedere elezioni libere e dimissioni di Ceauşescu
Ioan Savu è uno degli "eroi per caso" della rivoluzione romena del 1989. Ai tempi del regime comunista, Savu era impiegato in una fabbrica di detersivi di Timişoara. Nel corso della sanguinosa rivolta in città che nel dicembre 1989 ha dato avvio alla caduta di Ceauşescu, si è trovato a giocare, quasi per caso, un ruolo di primo piano. Entrato nella delegazione popolare che rappresentava la folla, redasse di suo pugno la lista di richieste che i rivoluzionari di Timişoara consegnarono all’allora primo ministro Constantin Dăscălescu, inviato in città da Ceauşescu per negoziare con gli insorti. A vent’anni da quei drammatici eventi lo abbiamo incontrato nella città dove fu protagonista di quelle vicende e dove ancora abita. I suoi ricordi, le emozioni, le riflessioni su quei giorni che cambiarono la sua vita, e quella di tutti i rumeni. La voce su una rivoluzione che secondo Savu "non è finita, e lavora ancora dentro di noi".
L’alba
Per me la rivoluzione e iniziata alla fine del 1987, dopo la rivolta di Braşov del 15 novembre quando decine di migliaia di lavoratori si ribellarono alla politica economica restrittiva del regime, con proteste di piazza che portarono a centinaia di arresti. Da allora in poi ho sempre pensato che qualcosa sarebbe successo, ed ero pronto. C’era uno stato d’animo a Timişoara, prima della rivoluzione, che mi dava la convinzione che potevamo essere distrutti, sterminati, ma non sconfitti. Tutto è avvenuto con calma, la gente non si è lasciata prendere dall’emotività, tutt’altro! La gente era calma ed estremamente decisa.
16 dicembre
Un vicino di casa ad un certo punto mi ha chiamato: "Vieni che hanno iniziato … sono dieci, cento, migliaia, milioni di uomini…Vieni!". E io sono uscito di casa. Ho vissuto momenti difficili, sino a tarda notte.
Abbiamo attraversato tutta la città in un ordine perfetto. Non è stata calpestata neppure l’erba nelle aiuole. In Piazza Opera vi sono ampie aiuole con i fiori, quel dicembre a Timişoara non c’era ancora la neve, faceva caldo, e dalle immagini dall’alto si vede come la gente ha preso la forma del parco, non calpestandole.
Rappresentavamo un vero e proprio muro. Per questa convinzione a Timişoara siamo riusciti a prendere il potere per una settimana, una settimana in cui la città è stata sola. Si sperava che il resto del paese ci avrebbe seguiti, ma non potevamo esserne sicuri. A prescindere da cosa sarebbe successo, però, sono convinto saremmo andati avanti.
C’era un’espressione in quei giorni: il comunismo è nato sulla Neva ed è morto sul Bega il fiume che bagna Timişoara.
C’erano vari gruppi in diverse zone della città. Non era una folla di migliaia di persone, erano gruppi dai dieci ai cento uomini ciascuno. Dopo gli scontri in Piazza Maria si sono diretti in tutte le zone di Timişoara. Vi sono stati scontri anche presso il Consiglio della Contea.
Quel giorno io non ho sofferto direttamente, non sono rimasto ferito. Certo ho provato emozioni forti durante la notte, ma sono cose poco importanti. Il giorno dopo, il 17, tutto è ricominciato e la protesta era ancora più vigorosa.
17, 18 dicembre
Il 17 i miei figli erano usciti a fare la spesa. Mia moglie vedendo che non erano tornati è uscita come una leonessa per portarli a casa. Quel giorno, all’angolo della nostra strada – era una domenica mattina – una macchina militare non ci faceva passare. Io ho dato uno spintone ai due ufficiali, poco distante i miei figli tornavano dandosi la mano.
In quei giorni a Timişoara la gente sentiva il bisogno di coesione. Volevamo essere assieme, tutta la gente era assieme. Nella nostra città non sono poche tensioni interetniche e di scarso rilievo. Non ha importanza che il mio amico si chiami Miodrag o Ianos… quello che conta è che sia mio vicino di casa, o mio amico, che sia uomo.
Il 17 vi erano giovani che volevano dirigersi verso il centro. A quel punto già si sparava in tutta la città. Come paragone avevamo Beirut, vedevamo alla tv cosa succedeva a Beirut … ma a Timişoara c’era più disordine che a Beirut. Le pallottole volavano in tutte le direzioni. Ho detto a quei giovani di stare attenti, che si moriva ovunque in città e che la libertà non la si può guadagnare con una spilla messa sul petto. La gente quel giorno si è recata al lavoro dove ha iniziato a discutere di quanto stava accadendo. Era difficile avere informazioni. Nelle fabbriche si incontrarono persone di vari quartieri. Così avemmo un quadro più completo.
La mattina di quei giorni trascorreva in relativa calma. Poi si usciva per strada nel pomeriggio e durante la notte. Il 17 ma anche il 18 si è sparato molto. Ho visto in centro gente che colpiva col pugno i blindati, non avevano niente con cui opporsi alle forze armate di regime. Ma quanta determinazione, quanta fermezza nel non tirarsi indietro. Ad un certo punto ho incontrato mia figlia che si teneva per mano con un ragazzo, attorno fumogeni e carrarmati. "Ma perché ci sparano papà, siamo solo dei bambini". E non era normale sparare alla gente, spero che dopo l’abbiano capito e che prima o poi ammettano di aver sbagliato.
C’è gente che ancor oggi ritiene di aver fatto bene, di aver agito per il bene del proprio paese. Forse, ma il loro era un paese triste, un paese deve essere il paese di tutti, soprattutto delle giovani generazioni. E’ stata dura.
Gli ultimi spari
Il 19 si è sparato per l’ultima volta. Quel giorno ho parlato con i miei colleghi di lavoro. Ho chiesto loro di prendersi cura di mia moglie e dei miei figli se qualcosa mi fosse accaduto. Poi mi sono chiesto: ma perché sono così coinvolto in tutto questo? In realtà non lo ero più di altri, ma sentivo la necessità di chiedere che proteggessero la mia famiglia e di dimostrare liberamente i miei convincimenti. Solo a posteriori però penso che quelli erano i miei pensieri. In quei momenti non sapevo chiaramente perché dicevo certe cose, perché ho agito in quel modo.
Il 20 tutti quelli che i giorni precedenti avevano discusso sui posti di lavoro ed erano scesi in piazza il pomeriggio e la sera trovarono una certa coesione. Il 20 tutti i lavoratori uscirono uniti dalla zona industriale di Buzias, ritengo ci fossero circa 30mila persone.
Il primo ministro
Quel giorno accadde qualcosa che non mi aspettavo e che non avrei mai immaginato. Eravamo attorno all’edificio del Consiglio della Contea. Dentro vi era il primo ministro Constantin Dăscălescu, arrivato da Bucarest per negoziare con gli insorti. Nel momento in cui è stato richiesto che una o due persone andassero a parlare con il primo ministro, ho pensato che non erano abbastanza. Quando solo poche persone lasciano la folla, quest’ultima perde subito la fiducia in loro, temendo che possano essere comprate o che siano troppo spaventate. E allora ho detto a tutti che dovevano entrare più persone, 8, 13. Se c’è un gruppo, le persone di quel gruppo riescono a sostenersi a vicenda e non si rinuncia ai propri propositi. E poi ritenevo che una o due persone non potessero sintetizzare il ragionamento di una città intera.
In questo gruppo mi sono ritrovato anch’io. Quando sono entrato nell’edificio era pieno di soldati antisommossa, caschetti, armi automatiche. Ci hanno subito detto che se qualcuno forzava l’ingresso ci avrebbero sparato. Dopo una settimana di spari a Timişoara ero sicuro che non scherzassero. Ho allora dovuto organizzare le cose in qualche modo, ho lasciato qualcuno all’interno e sono uscito nuovamente. Lì mi è venuto incontro un avvocato, mi ha chiesto se poteva servire anche lui dentro… Ho capito di essere il capo del gruppo senza volerlo, in modo molto casuale. Ho pensato che avere nel nostro gruppo anche un avvocato poteva andare bene. Non eravamo un gruppo omogeneo, non ci conoscevamo, io non conoscevo nessuno di quelli con cui sono salito.
Non sapevo esattamente cosa fare. E’ difficile. Sentivo una forte pressione sul mio cuore quando mi rendevo conto che ero responsabile per quelli fuori. Se qualcosa succedeva, e se quelli dentro che avevano le armi sparavano, me ne sarei ritenuto colpevole. E pensavo, Dio, aiutami a vedere cosa devo fare.
Mi chiamo Ioan Savu
Al primo ministro sono state poste varie richieste, io sono stato più tagliente di altri, in molti posero invece richieste minime. Mi resi ben presto conto che occorreva mantenere la comunicazione con tutti quelli fuori dall’edificio. Sono andato sul balcone della stanza, dove ho visto che c’era un microfono. Sapevo che la gente per avere fiducia in noi doveva sapere, doveva conoscerci di persona.
Ho preso allora il microfono ed ho detto: "Mi chiamo Ioan Savu, abito in via Negoiului numero 16, appartamento 18, ho tre bambini e lavoro all’Ufficio di Calcolo nella fabbrica di detersivi". In quel momento mi stavo scoprendo, tutta la gente lo sapeva, anche la Securitate sapeva ormai chi ero. Ma quelli di sotto dovevano avere fiducia in noi, e noi in loro.
Sono rientrato ed ho annotato su un’agenda quello che Timişoara desiderava quei giorni: non volevamo più il comunismo, non volevamo più Ceauşescu, non volevamo più il governo di allora, volevamo si trasmettesse alla tv e alla radio quello che stava accadendo in città, volevamo poter stampare dei manifesti, volevamo venissero liberate le persone arrestate nei giorni della rivoluzione, volevamo ricevere indietro i corpi dei defunti e poterli seppellire ed altre richieste.
Ho polarizzato su di me l’attenzione di tutti, anche del primo ministro, che è venuto da me per discutere. Gli ho detto che non eravamo per la legge del taglione, che non volevamo ammazzare le loro famiglie e i loro bambini, che era già scorso troppo sangue ma che assieme dovevamo trovare una soluzione per quello che stava avvenendo a Timişoara e nel paese.
Erano momenti duri e pieni di tensione. Per il primo ministro io ero un signor nessuno, uno tirato su in strada, un insetto senza importanza e ci guardava con disprezzo. Ma non avevamo scelta, noi rappresentavamo la folla lì fuori. Ero sicuro che non sarei uscito vivo di là. Nel frattempo sono uscito nuovamente sul balcone, ho chiesto di circondare l’edificio, e non lasciare scappare nessuno. La presenza di quei funzionari comunisti, bloccati nell’edificio era una garanzia che a Timişoara non si sarebbe sparato ancora. Ho chiesto inoltre che formassero un gruppo di giovani, tra cui qualcuno che parlava serbo, per recarsi al consolato serbo con una lista di quello che i manifestanti richiedevano e con i nomi dei componenti del comitato di negoziazione. Sapevamo che il consolato serbo era l’unico legame di Timişoara con il resto del paese e con il mondo.
Appunti
Ad un certo momento io stavo leggendo le nostre richieste a Dăscălescu e mi sono reso conto che ascoltava, ma non prendeva appunti. E gli ho chiesto perché non lo stesse facendo, che c’era il rischio dimenticasse tutto. Si sono avvicinati a me subito alcuni funzionari comunisti, avrebbero voluto strangolarmi, probabilmente. Nel frattempo il primo ministro era scioccato dalla mia impertinenza, ma con un gesto riflesso ha messo mano al suo taschino per cercare una penna e subito gli altri sono arrivati con una penna e un’agenda per farlo scrivere.
Riparlandone ora sembra comico, se non fosse tremendamente tragico. Io leggevo e il primo ministro a scrivere le richieste di noi rivoluzionari! E’ stato un momento intenso della mia vita. Non desideravo niente per me, ho dimostrato anche successivamente che non ho utilizzato la rivoluzione come opportunità per realizzarmi socialmente o politicamente. Non ho voluto questo. Volevo che le cose andassero bene per il paese, se andava bene per tutti andava bene anche per me. Posso guardare la gente negli occhi, senza avere vergogna e questo è molto importante.
La capitale
Dopo anni di oppressione la gente voleva la libertà, volevano fuggire da Ceauşescu, lui rappresentava il male. Per loro il comunismo era Ceauşescu e eliminando quest’ultimo si eliminava il comunismo. Ma le cose non vanno così. Anch’io, e vi ho ripensato più volte, ho gioito quando è stato fucilato. Ma adesso mi dispiaccio di quei sentimenti. Dovevano giudicarlo e non eliminarlo.
Dopo i giorni di Timişoara sono andato a Bucarest perché volevo prendere contatto anche con altre persone e dire loro cosa volevamo noi di Timişoara. Sono partito il 24 dicembre, in treno. Ma mi sono accorto subito che non ero importante per quelli che stavano lì in capitale, non volevano avere legami con altri, non ero parte del loro gruppo di interessi. Sono stati momenti difficili.
Dio
Ad un certo punto ho avuto l’impressione che ce l’avevamo fatta. E poi mi sono detto: Dio esiste! Dio è tornato verso di noi!
Ci ho pensato a lungo. Mi sono chiesto perché Dio tornava verso di noi dopo tanto tempo di assenza. E poi mi sono reso conto che non se ne era mai andato, ma che noi stavamo tornando verso di lui. Dopo quei fatti ho provato a fare mia più intensamente la fede cristiana, essere più buono, avere più pazienza con gli altri, aiutarli. Così possiamo cambiare il mondo, se cambiamo noi stessi.
Timişoara, uno stato dell’anima
Le nostre convinzioni hanno portato benefici anche su altri piani, anche dopo quei giorni. E’ proprio a Timişoara che si sono tenute le prime elezioni libere di un consiglio regionale e di un comune, nel gennaio ’90, poco dopo la rivoluzione. Per la prima volta non solo a Timişoara e nell’intera Romania, ma anche per la prima volta in tutta l’Europa centrale.
E’ qui a Timişoara che ci siamo subito organizzati per dare alla gente dei passaporti. Tutto sembra semplice ora, ma allora ai romeni non era permesso viaggiare. E per noi a Timişoara, essendo vicino al confine, la tv era come una finestra sul mondo: vedevamo infatti i canali ungheresi, quelli serbi, sapevamo cosa avveniva al di là delle nostre mura. Ma non ci bastava, volevamo anche andarci. Qui in città dopo la rivoluzione abbiamo presto informatizzato tutta la procedura di concessione dei passaporti. Siamo passati dai 100-150 rilasci al giorno ai 2000. In questa regione anche la crescita economica è stata spettacolare. E potevamo riuscire a fare anche di più se non vi fosse stato un sistema burocratico farraginoso.
Ci siamo subito attivati su cose concrete, abbiamo mostrato alla gente che si poteva cambiare, che si doveva cambiare. E non era facile. Dopo la rivoluzione nella gente c’era finalmente un orizzonte di prospettive, si voleva il cambiamento, avevamo bisogno di cambiamento, eravamo pronti per esso. E’ per questo che Timişoara è uno stato d’anima, più che una città.
Banane e consumismo
Mi ricordo una storia. A me, anche durante il comunismo, i soldi non mancavano. Si faceva un po’ di tutto per arrangiarsi e io, oltre al lavoro, facevo foto a matrimoni, battesimi, nelle scuole, generalmente a Timişoara o nel Banato. Uno dei miei figli un giorno è venuto a casa raccontando che un suo compagno di classe aveva ricevuto dalla Germania delle banane. Mio figlio non chiedeva mai niente a nessuno. "Mamma – disse in quell’occasione a mia moglie – voglio anch’io un pezzo di banana, ho chiesto al mio compagno di classe di farmela assaggiare, ma non ha voluto". Piangeva ed aveva i brividi. E io pensavo a che tipo di padre fossi, nemmeno capace di procurare al mio bambino una banana. E’ questo quello che accadeva. Non voglio più vivere in un sistema socialista dove succede di tutto e nessuno è responsabile di niente.
Nemmeno adesso la gente è contenta, è ovvio. Ci sono tanti prodotti nei supermercati ma spesso mancano i soldi per comperarli. Vi sono molti eccessi, in molti rubano, vi sono gruppi di pressione che possono essere anche chiamati gruppi mafiosi. Ma è comunque diverso da allora. Allora non si aveva alcun orizzonte.
La rivoluzione
Una volta che esci per strada, una volta che molte persone vengono ammazzate, niente ha più importanza, non si può andare che avanti, ed è successo così. Prima che vi fossero vittime si poteva andare a trattative, ritirarsi. Dopo non più.
La rivoluzione è un fenomeno complesso. Occorre cambiare la mentalità e se questo non è ancora successo, occorre andare avanti, significa che la rivoluzione deve ancora lavorare dentro di noi. In Romania la rivoluzione non è ancora finita, anche se si manifesta in modo meno drammatico e meno violento, ma è solo ora che alcune idee di cambiamento iniziano ad essere capite. E credo che questi cambiamenti debbano avvenire in modo non-violento, con la forza delle idee, senza che la gente muoia per strada.
Noi allora sapevamo quello che non volevamo, però non sapevamo esattamente quello che volevamo. E’ difficile sapere quello che vuoi se non hai termini di paragone. Poi più vai in su più l’orizzonte si allarga, e così sta avvenendo anche per noi.