Macedonia del Nord, l’Europa è più di un campo di calcio

La Macedonia del Nord è oggi pienamente Europa solo nel calcio. Il paese è condannato ad una lunga attesa che mette in risalto tutte le contraddizioni della strategia di allargamento ai Balcani occidentali dell’Unione europea. Un commento

30/06/2021, Francesco Martino -

Macedonia-del-Nord-l-Europa-e-piu-di-un-campo-di-calcio

La nazionale di calcio della Macedonia del Nord - © Igor Panevski/Shutterstock

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sulla rivista de "Il Mulino"

La Macedonia del Nord è stata eliminata in fretta da “Euro 2020”, uscendo già nella fase a gironi dei campionati europei di calcio attualmente in corso dopo aver perso tutte le partite contro Olanda, Ucraina e Austria. La prematura eliminazione, però, non è stata troppo amara: l’importante, mai come ora, era esserci, soprattutto considerato che la nazionale del piccolo stato balcanico è riuscita a qualificarsi per la prima volta ad un grande torneo continentale da quando ha ottenuto l’indipendenza nel 1991.

Ma se a livello calcistico e sportivo i macedoni hanno finalmente potuto sentirsi pienamente europei a quello politico hanno dovuto invece raccogliere l’ennesima amara delusione: durante il Consiglio affari generali dell’UE, tenuto il 22 giugno in Lussemburgo, la Macedonia del Nord ha dovuto incassare un nuovo veto da parte della Bulgaria all’apertura dei negoziati per l’integrazione all’Unione. Un “no” che blocca di riflesso anche il percorso europeo dell’Albania, che come la Macedonia del Nord, attende da un anno la conferenza intergovernativa che avvia il processo.

Lo scontro con la Bulgaria

Una decisione largamente attesa, ma non per questo meno sofferta. A dividere Sofia e Skopje c’è una complessa rete di rivendicazioni storiche, condita dall’attuale instabilità politica in Bulgaria, che si riflette pesantemente sui rapporti bilaterali. Dal punto di vista di Sofia, l’attuale Macedonia del Nord ha fatto pienamente parte della nazione bulgara almeno fino alla Seconda guerra mondiale, mentre la nuova “identità macedone” sarebbe stata imposta con la forza dal governo comunista jugoslavo.

Ecco perché la Bulgaria, pur essendo stata il primo stato a riconoscere l’indipendenza dello stato macedone nel 1991, non ne ha mai riconosciuto la lingua (che considera, di fatto, un dialetto bulgaro) né la nazione, e diverge in molti aspetti nell’interpretazione del passato.

Nel 2017 le due parti avevano raggiunto uno “storico” accordo di buon vicinato, che prevede una commissione bilaterale per chiarire le discordie di carattere storico, celebrazioni comuni di eroi e figure del passato contesi, la rinuncia da parte macedone a rivendicare una sua minoranza in Bulgaria, e il supporto di Sofia al percorso di avvicinamento europeo della Macedonia del nord.

I (pochi) progressi fatti da allora, però, non soddisfano la Bulgaria, che ha deciso di portare la questione a livello europeo, dove in quanto stato membro dal 2007 può far valere il diritto di veto. Sofia insiste che il trattato bilaterale venga inserito nel quadro negoziale di accesso all’UE, come capitolo aggiuntivo. In caso contrario, minaccia di insistere nel suo ostruzionismo a tempo indeterminato.

Un percorso a ostacoli

Lo scontro con la Bulgaria è però solo l’ultimo episodio di un percorso di avvicinamento all’UE trasformatosi negli anni in una lunga odissea, e che ha portato il paese alla decisione sofferta di modificare il proprio nome costituzionale.

Candidata ufficialmente a stato membro già dal 2005, la Macedonia del Nord è rimasta bloccata per anni dal muro contro muro con un altro paese membro dell’UE, la Grecia, su un altro conflitto di carattere storico e simbolico, la cosiddetta “questione del nome”.

Per Atene il nome costituzionale del proprio vicino settentrionale (all’epoca semplicemente “Macedonia”) fa parte dell’eredità culturale e storica ellenica, e il suo utilizzo da parte di Skopje poteva nascondere una velata minaccia irredentista verso la confinante provincia greca che porta lo stesso nome.

Lo scontro si è trascinato fino al 2018, quando l’attuale premier macedone Zoran Zaev e l’ex primo ministro greco Alexis Tsipras hanno firmato gli accordi di Prespa. Con l’intesa, la Macedonia ha accettato di aggiungere una specifica geografica al proprio nome (“del Nord”, appunto) in cambio del supporto greco alla sua integrazione euro-atlantica.

Il lungo atteso compromesso, raggiunto sotto la pressante spinta di Bruxelles, che prometteva l’immediata apertura dei negoziati di adesione in caso di esito positivo, non ha portato però i risultati attesi. Prima nel giugno, e poi nell’ottobre del 2019, le speranze di aprire i negoziati sono naufragate di fronte all’ostruzionismo della Francia, uno dei paesi UE più scettici rispetto ad ulteriori allargamenti.

Quando il presidente Macron ha ritirato il suo “no” , sono subentrate le riserve della Bulgaria. Qui il tema dei rapporti con la Macedonia del Nord è tornato bollente negli ultimi mesi anche a causa dell’instabilità politica interna, con le forze politiche locali che – in un ciclo di ripetute elezioni anticipate – lottano per consenso battendo sulla grancassa del nazionalismo.

Un fallimento europeo

La decisione bulgara di utilizzare ancora una volta il veto durante l’ultimo Consiglio affari generali dell’UE ha provocato forte malcontento a livello europeo. Come prevedibile, critiche esplicite sono arrivate dalla Germania, il paese oggi più apertamente impegnato a portare a termine il faticoso processo di inclusione dei Balcani occidentali nell’UE.

Il ministro agli Affari europei Michael Roth ha parlato di “nessuna comprensione” per la posizione bulgara, che porta a livello europeo conflitti di natura bilaterale, e blocca Macedonia del Nord ed Albania nonostante siano pronte ad aprire il negoziato.

Le forze politiche bulgare, che si preparano a nuove consultazioni il prossimo 11 luglio, non sono però in vena di concessioni. “Non ci faremo legare le mani”, ha affermato il presidente Rumen Radev, sintetizzando una posizione largamente condivisa. Specularmente, il premier macedone Zoran Zaev ha sollevato il fantasma di euro-scetticismo ed influenze russe e cinesi in crescita a causa dell’incapacità europea di imporre la sua leadership nell’area, e ha rilanciato la strategia alternativa di una più forte cooperazione con gli Stati Uniti.

Lacerata da interessi divergenti, l’UE rischia di essere la vera sconfitta, insieme ai frustrati sogni di adesione della Macedonia del Nord. Le responsabilità, naturalmente, sono di volta in volta relative a questo o quel governo, dalla Bulgaria all’Olanda, dalla Grecia alla Francia, ma quello che emerge è un sostanziale fallimento europeo.

L’UE ha promesso ai Balcani occidentali che un giorno saranno parte dell’architettura politica europea. Non per retorico altruismo, ma con la consapevolezza che l’inclusione della regione sia nell’interesse politico, strategico e di sicurezza dell’Unione. L’incapacità di portare avanti quella visione d’insieme rischia di portare con sé frutti avvelenati, esportando instabilità nel cuore dello spazio europeo.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta