Peja/Peć, la çarshija e la guerra

A Peja/Peć, cittadina del Kosovo occidentale, del bazar tradizionale è rimasto poco o niente. Soprattutto a causa del conflitto del 1999. Sebbene le autorità locali confidino in una sua valorizzazione in chiave turistica sembra difficile possa avvenire

14/01/2011, Marjola Rukaj - Peja/Peć

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Peja/Peć - foto di Marjola Rukaj

Poco rimane della čaršija * di Peja/Peć, città del Kosovo occidentale. Secondo gli storici era una delle più importanti in Kosovo, poiché la città era capoluogo della regione del Dukagjin. Un luogo che univa cittadini e montanari, serbi e albanesi, rom e ashkali, ora divenuto un quartiere commerciale poco distinguibile dagli altri. Solo qualche edificio di inizio ‘900, introdotto nella çarshija ai tempi della prima Jugoslavia, conserva ancora pezzi di storia, il resto è nuovo, costruito o ricostruito recentemente.

Delle attività del passato è sopravvissuto solo qualche fabbro e qualche sarto che produce costumi tradizionali, che in questa zona vengono usati perlopiù ai matrimoni. Peja/Peć è storicamente famosa per la lavorazione del tessile, ma ora la qualità e la varietà dell’offerta lasciano molto a desiderare. Rimane inoltre un unico artigiano dello shajak, il materiale con cui vengono prodotti i cappelli tradizionali albanesi, ma il cui lavoro si riduce di giorno in giorno. “Perché la gente si modernizza, nessuno porta più il plis, e gli anziani muoiono”. Per il resto la çarshija è il luogo per comperare prodotti a buon mercato provenienti dalla Turchia e dalla Cina.

Dopo la pioggia

I negozianti che popolano la čaršija sono tutti albanesi. Nonostante Peja/Peć fosse una delle città con la maggior presenza di serbi in Kosovo, di loro non è rimasto nulla, oltre il bilinguismo delle insegne stradali secondo i dettami del politicamente corretto imposto dalla presenza internazionale.

I serbi sono comunque una presenza costante nella çarshiija: vengono menzionati di continuo dai commercianti, dai clienti e dai passanti. Soprattutto quando parlano della storia della čaršija e della sua attuale situazione di disgrazia. Nel ’99, con gli albanesi costretti ad abbandonare la città per rifugiarsi in Albania o in Macedonia, i serbi – che qui vengono chiamati solo ed esclusivamente con il dispregiativo, shkja (termine riconducibile alla parola "schiavo") – incendiarono tutto. La çarshija venne gravemente danneggiata, sopravvissero solo i negozi dei serbi e in seguito i soldati dell’UCK – a detta degli stessi abitanti di Peja/Peć – ripulirono ciò che rimase dell’incendio.

La ricostruzione del dopoguerra è stata poi spontanea, casuale e i criteri architettonici adottati l’ultima delle preoccupazioni. Ad intervallare ciò che è stato ricostruito vi sono ancora alcuni edifici incendiati, decrepiti, abbandonati. Sono dei serbi che se ne sono andati e che probabilmente non ritorneranno più.

 Per le autorità competenti, il problema non esiste: “Gli shkja ci sono, vengono a far la spesa tutte le mattine, indisturbati. Li conosciamo, nessuno li tocca. Se vogliono possono tornare, nessuno glielo impedisce”. Al contrario, per i commercianti della čaršija, pare che i serbi siano tutt’altro che benvenuti.

“Come fanno a tornare? Con quale faccia, dopo tutto quello che hanno fatto?” dice un lavoratore dello shajak. Visto l’interesse dell’argomento diversi passanti si fermano e si introducono nella conversazione. Le opinioni sono simili: “Sono stati loro che ci hanno incendiato i negozi. Erano nostri amici, nostri colleghi, ci conoscevano bene, chi li ha portati i soldati se non loro?”. E’ assurdo come è cambiato tutto, eravamo amici, e poi un bel giorno non ci salutavamo più”. E l’atteggiamento consigliato: “Con i serbi bisogna fare così, bisogna ignorarli, io non parlo più alla gente con cui ero amico prima della guerra. Non ho intenzione di ucciderli, basta fingere che non ci siano, ignorarli. E loro se ne vanno”.

Sono passati più di 10 anni dal conflitto, il Kosovo è ormai indipendente, ma i traumi del conflitto si fanno sentire forti e disarmanti, persino in una città come questa dove serbi e albanesi convivevano in rapporti molto più stretti rispetto ad altre zone.

Progetti ambiziosi

Peja/Peć, nonostante i buoni propositi degli internazionali in missione in Kosovo, ha perso il suo carattere multietnico. Come la città anche la čaršija difficilmente riuscirà a recuperare la sua multietnicità. Ma la mancanza di multietnicità non è l’unico problema che ha fatto perdere il suo carattere tradizionale.

L’abusivismo, l’inurbamento e la modernità, l’hanno trasformata irrimediabilmente. Solo qualche facciata è stata ricostruita con il sostegno di Ong internazionali. Sono infatti in programma alcuni progetti che intendono valorizzarli. Tra i donatori il governo italiano, la tedesca GTZ, Muslim Aid ed altri. “La çarshija presenta un enorme potenziale turistico per la città”, afferma Avdyl Hoxha, assessore al turismo di Peja/Peć. “Il nostro scopo – continua – è fare della čaršija un luogo di interesse turistico, che possa salvaguardare le tradizioni e i mestieri antichi”.

Per restituire la propria identità alla çarshija è previsto anche un iter particolare di concessione dei permessi per l’avvio delle attività commerciali. Come in molte altre čaršije, tutto dovrebbe passare sotto il controllo di una commissione di esperti di urbanistica. Procedure però poco rispettate. Numerosi edifici abusivi si ergono disarmonici tra i negozi bassi di uno o due piani. La loro demolizione – se mai avverrà – sarà un processo difficile.

In base ad un progetto per la valorizzazione di questa parte della città, stilato nel 2004 dalle autorità di Pristina e quelle di Tirana, con la collaborazione di Emin Riza, un urbanista esperto di çarshije, la čaršija di Peja/Peć ritornerà ad essere fedele al suo passato, persino nella costruzione di caffè in cui vigerà il divieto dell’alcol, come tradizione vuole. Le conseguenze del conflitto sono però così evidenti, che è difficile credere questo possa avvenire veramente.

* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione ‘bchs’ (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull’Albania, l’ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.

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