Le fabbriche agli operai, un’utopia possibile?
"Le fabbriche agli operai" è il titolo del documentario del regista croato Srđan Kovačević, vincitore al Dokufest di Prizren del premio per il miglior documentario nei Balcani. Il film ripercorre la storica battaglia degli operai per l’autogestione della fabbrica ITAS, fino alla attuale difficile sopravvivenza della fabbrica stessa
(Originariamente pubblicato dal portale Kosovo 2.0 )
Il documentario Tvornice radnicima [Le fabbriche agli operai] del regista croato Srđan Kovačević raggiunge il suo acme emotivo nella scena in cui Dragutin Varga, leader degli operai di vecchia generazione, assume l’incarico di direttore della fabbrica di macchine utensili ITAS , situata nella città di Ivanec, nel nord della Croazia. Rivolgendosi ai suoi colleghi in veste di nuovo direttore, Varga promette agli operai scontenti che, qualora non dovesse riuscire a garantire un flusso di ricavi stabile e un pagamento regolare degli stipendi, avvierà uno sciopero della fame per chiedere un aiuto allo stato. Grazie al suo comportamento integro e alla reputazione che si è guadagnato nel tempo, Varga riesce a convincere gli operai a ritornare al lavoro per mantenere attiva la produzione.
Varga non è certo estraneo agli scioperi e altre forme di protesta, avendo iniziato a lavorare nella fabbrica ITAS nel 1973, quando era ancora studente delle superiori. Trentadue anni dopo, nel 2005, aveva guidato l’occupazione operaia della fabbrica, con lo scopo di impedirne la privatizzazione. Quello dell’ITAS è l’unico caso di appropriazione di una fabbrica da parte degli operai in tutta la ex Jugoslavia, una storia diventata fonte di ispirazione, alimentando sogni ambiziosi sulla possibilità di realizzare un’utopia operaia.
Quando nel 2015, quindi dieci anni dopo l’occupazione della fabbrica, il regista Srđan Kovačević vi si recò per documentare la battaglia degli operai per salvaguardare l’ITAS come modello di autogestione, si imbatté in una situazione complessa in cui il lavoro quotidiano e i disaccordi tra gli operai di vecchia e nuova generazione si intrecciavano con processi politici e sociali più ampi. Nonostante gli operai fossero riusciti ad appropriarsi dei mezzi di produzione, la malagestione, i macchinari obsoleti e un mercato neoliberista fortemente competitivo avevano reso quasi impossibile la sopravvivenza della fabbrica.
Al Dokufest di Prizren di quest’anno il film Tvornice radnicima ha vinto il premio Best Balkan Dox come miglior documentario nei Balcani per la sua capacità – come si legge nella motivazione della giuria – “di mettere in luce le complesse dinamiche universali che caratterizzano un microcosmo in cui la solidarietà umana viene messa alla prova dalle brutali forze sociali, utilizzando un approccio sensibile e una tecnica di ripresa cinematografica basata su un’osservazione attenta”.
Al termine della prima proiezione del film Tvornice radnicima al festival di Prizren, K2.0 ha incontrato il regista Srđan Kovačević per parlare del cinema impegnato, del concetto di collettività e molto altro ancora.
Come è venuto a conoscenza della storia degli operai della fabbrica ITAS e cosa l’ha spinta a seguire la loro lotta? Come si sono svolte le riprese nella fabbrica? Gli operai come l’hanno accolta?
Rimasi incuriosito da questa storia nel 2012, dopo aver letto una lunga intervista pubblicata sul portale di sinistra Slobodni Filosofski (Libera [Facoltà di] Filosofia). Si tratta di un portale nato come parte integrante della battaglia per l’istruzione gratuita in Croazia, una battaglia partita nel 2009 dalla Facoltà di Filosofia di Zagabria.
Slobodni filozofski pubblicò una conversazione piuttosto lunga e molto interessante con Dragutin Varga, protagonista del mio film e leader di quella rivolta scoppiata nel 2005 [che portò all’occupazione della fabbrica ITAS da parte degli operai]. Quello dell’ITAS è l’unico caso in Croazia – se non addirittura nell’intera ex Jugoslavia – di un’occupazione operaia ben riuscita. Pensai che sarebbe stato interessante andare a vedere cosa stava accadendo nella fabbrica. Quale modello di proprietà avevano introdotto? Come funzionava in pratica? Come venivano prese le decisioni?
Così vi andai, senza un soldo in tasca, inventando un sistema che mi permise di realizzare autonomamente le riprese video e audio. Girai l’intero film con una di quelle videocamere economiche, una Canon 6D, senza alcun copione. Il processo durò cinque anni, con 180 giorni di riprese effettive. Di solito mi recavo alla fabbrica una volta alla settimana.
A Varga piacque molto l’idea del film. Mi disse: “Sì, non ti preoccupare! Vai e fai quello che vuoi”. Gli operai però non sono una massa omogenea, bensì un insieme di persone diverse tra loro. Quindi, alcuni si dimostrarono pienamente disposti a parlare e instaurare un rapporto con me, altri invece no. Alcuni operai avevano paura della videocamera, ed è un comportamento del tutto comprensibile. Tuttavia, con il passare del tempo, in qualche modo riuscii a trovare il mio posto nella fabbrica. Alla maggior parte degli operai non dava fastidio il fatto che io facessi delle riprese. Inoltre, Varga e il direttore della fabbrica esaudirono la mia richiesta di poter seguire gli operai all’interno della fabbrica, consentendomi di filmare tutto quello che volevo.
Ho l’impressione che il suo film da un lato racconti la storia di una vittoria e, al contempo, dell’utopia operaia e dall’altro la storia delle sconfitte, della disperazione e delle difficoltà economiche con cui gli operai devono fare i conti. Com’è riuscito a collegare diversi strati della storia?
La storia si sviluppò spontaneamente davanti a me. Mi recavo alla fabbrica senza un’idea precisa di cosa avrei filmato. Fu una sorta di ricerca. Poi durante il montaggio semplicemente lasciai scorrere le cose così com’erano accadute. Nel corso dell’intero processo non dovemmo inventare nulla.
Avevamo una mole di materiale davvero impressionante, quindi semplicemente selezionammo le scene ben riuscite, costruendo così la storia che, a mio avviso, è sincera e corrisponde alla verità.
Nonostante gli operai non ne parlino esplicitamente nel film, sullo sfondo della storia sembra emergere una critica perspicace del processo di privatizzazione…
Certo. Ovunque volgiamo lo sguardo, il mondo intorno a noi sta cadendo a pezzi. Credo che i processi economici costituiscano le fondamenta di una società. Nel caso della fabbrica ITAS, alcune persone hanno tentato di far funzionare le cose in modo diverso, di condividere il capitale della fabbrica e di compiere un piccolo passo in avanti verso un mondo migliore, verso una società migliore. È chiaro però che il capitalismo non vuole correre alcun rischio. Si cerca in tutti i modi di distruggere quanto costruito dagli operai: lo stato, la comunità locale e le élite politiche stanno facendo tutto il possibile per ostacolare il funzionamento della fabbrica.
Dragutin Varga è una persona molto intrigante, incarna la lotta per la sopravvivenza della fabbrica. Come ha influito la figura di Varga sul modo in cui lei ha costruito il racconto?
Nel film ho voluto raccontare il microcosmo della fabbrica su più livelli. Un livello è rappresentato da Varga, che ancora oggi, in un certo senso, è il capo della fabbrica. Poi c’è il direttore che ha idee imprenditoriali, ossia economiche ben precise e ogni giorno deve fare i conti con vari problemi. Infine, ci sono gli operai con le loro istanze – rivendicano innanzitutto un aumento dei salari.
Quindi, Varga aveva certamente influito sull’evolvere della storia. In fin dei conti, fu lui a licenziare il direttore della fabbrica. Questo evento – che francamente non mi aspettavo accadesse – funse da contrappunto, scombussolando totalmente le cose. Così la storia prese un’altra piega e questa dinamica – che da regista trovai molto interessante – conferì al film una dimensione narrativa. Se ciò non fosse accaduto, non so come avremmo sviluppato la trama.
Da alcune discussioni tra gli operai emerge la jugonostalgia. Come viene raccontato questo sentimento nel film?
Ho voluto fortemente mettere in risalto questo aspetto. Essendo vicino alle idee socialiste, mi ero accorto che nella fabbrica erano ancora vivi i ricordi del socialismo jugoslavo. Un quarto, forse anche un terzo degli operai di una certa età sarebbe disposto a difendere le idee propugnate nel periodo socialista. La maggior parte degli operai è disillusa dall’attuale situazione e molti non ricordano gli eventi accaduti trenta, quaranta o cinquant’anni fa. Tuttavia, la memoria del socialismo è ancora viva nella fabbrica e ho voluto mettere in luce questo aspetto. Se non c’è memoria del passato, delle idee che diedero vita alla fabbrica, non si può parlare di un futuro collettivo.
Oggi c’è una sostanziale ignoranza sul fenomeno delle azioni collettive nelle fabbriche, e nella società in generale. Bisogna insegnare alle persone, educate in un sistema imperniato sul capitalismo liberista, a pensare diversamente. Se tutti dovessimo adottare il pensiero capitalista e liberista, non ci sarebbe alcun futuro per la nostra società e per l’intero pianeta.
Nel film emergono anche i dissidi – qualcuno li definirebbe ideologici – tra gli operai anziani e quelli giovani, dissidi che ad un certo punto iniziano a minare il senso di collettività, mettendo a repentaglio la battaglia per la sopravvivenza della fabbrica…
Non ho una posizione chiara sulla collettività, è un concetto molto complesso. Anche la nazione evoca un’idea di collettività, ma se osserviamo attentamente le relazioni umane, vediamo che ognuno lotta per i propri interessi, anziché per la comunità.
Una situazione simile si riscontra anche nella fabbrica ITAS. Nei momenti difficili, quando il salario non arriva, una parte degli operai cerca di ragionare in un’ottica collettiva, ma non hanno gli strumenti [per mettere in atto un’azione collettiva]. Non sanno come comportarsi, cercano di fare qualcosa, ma in realtà possono fare ben poco.
Forse perché sono impotenti di fronte alle dinamiche strutturali del mercato?
Sì, ma questo aspetto emerge anche all’interno della fabbrica, quando lottano per il salario, [in una scena del film] si vede che tutti hanno paura di parlare al microfono. Ed è per questo ho deciso di inserire questa scena nel film, per riflettere sull’idea della voce collettiva degli operai. In un certo senso bisogna essere impavidi per parlare pubblicamente di certe cose, ma gli operai stentano a farlo, pensano che forse sarebbe meglio stare lontani dai riflettori, per evitare di essere additati.
L’idea di collettività mi lascia perplesso. È un concetto fluido, come anche quello di nazione. Le persone devono comprendere che i loro interessi si riflettono sulla collettività, devono sentirsi parte integrante della collettività.
Il suo film sembra alludere all’idea che quando il presente è precario, si tende a romanticizzare il passato…
È vero. Qualcuno ha detto che da queste parti non si sa mai che fine farà il passato.
Non ci ho pensato molto mentre giravo il film, ma credo che l’idea che lei ha menzionato sia molto diffusa. Pensando al mio prossimo progetto, mi piacerebbe realizzare un film d’archivio sullo sviluppo del socialismo in Jugoslavia.
La domanda fondamentale è: come affrontare un tema così vasto, una quantità così rilevante di materiale storico? Dove sta la verità? Non c’è alcun punto di equilibrio stabile, perché esistono varie interpretazioni di quanto accaduto in passato. Ogni gruppo sociale crede di conoscere la verità e continua a plasmare narrazioni.
Quando di parla di autogestione jugoslava, occorre sottolineare che non mancarono gli aspetti positivi, lo stesso concetto di autogestione operaia è un concetto positivo. Alcune fabbriche riuscirono a implementare il sistema di autogestione con grande successo. L’idea iniziale era quella di implementare l’autogestione prima nelle aziende e nelle fabbriche e poi all’interno del sistema politico, fino alle più alte cariche dello stato. Un’idea che però non venne mai realizzata. Il sistema di autogestione fu implementato solo parzialmente, senza coinvolgere l’apice della piramide, per poi crollare definitivamente. Questo fatto viene raramente menzionato. I discorsi che circolano negli ambienti di sinistra sono solitamente incentrati sul fatto che in Jugoslavia c’era l’autogestione. Certo che c’era, ma ci si era limitati ad applicarla ad un solo livello, contrariamente all’idea iniziale.
Nella fabbrica ITAS attualmente vige un sistema diverso, una sorta di azionariato operaio. Ci sono alcuni aspetti fondamentali per il buon funzionamento di un’azienda di questo tipo. Primo, l’azienda deve essere in grado di portare avanti la produzione e di garantire i salari. Secondo, deve educare politicamente gli operai. Terzo, deve impegnarsi a sviluppare un sistema innovativo. In Croazia attualmente non c’è alcuna azienda interamente posseduta dai lavoratori. Ad oggi nessuno è ancora riuscito a sviluppare un tale sistema. In Slovenia ci sono alcune realtà, ancora in via di sviluppo, basate sul modello cooperativo. In Croazia, invece, non c’è nulla di simile, e nemmeno in Bosnia Erzegovina e in Serbia. Affinché un sistema di gestione operaia dia i suoi frutti è necessario che venga elaborato un buon modello conforme alla legge.
Una volta concluse le riprese del film, ha continuato a seguire le vicende della fabbrica?
So che gli operai stanno ancora facendo i conti con numerose difficoltà, ma la situazione è un po’ migliorata. Nel frattempo Varga ha assunto l’incarico di direttore. Stanno cercando di migliorare la competitività dei loro prodotti, ma anche di compiere un adeguamento al rialzo del costo del lavoro. Gli stipendi arretrati sono stati pagati, ed è una cosa molto positiva. Ora gli stipendi arrivano in tempo.
Durante alcune presentazioni del film in Slovenia e in Croazia abbiamo stabilito un primo contatto con l’Istituto per la democrazia economica di Lubiana, impegnato nell’elaborazione di modelli cooperativi in tutta la Slovenia, che si è dimostrato molto interessato ad una collaborazione con la fabbrica ITAS. Sarebbe ottimo se riuscissero a fare qualcosa di concreto. Resta però da vedere se riusciranno a trovare i soldi necessari e se gli operai si dimostreranno disposti a imparare. È un progetto che dovrebbe essere realizzato nell’arco di uno o due anni. Nel frattempo, la fabbrica è ancora in piedi, impiega 120-130 operai, gli stipendi vengono pagati in tempo.
Il suo film inizia con una breve nota in cui si afferma che tutti i proventi dell’opera verranno ripartiti tra i professionisti impegnati nella sua realizzazione e i protagonisti. Ci può spiegare come funziona in pratica questo accordo?
Con l’aiuto di alcuni avvocati abbiamo elaborato un nuovo accordo, denominato Accordo cinematografico solidale, che prevede che i ricavi del film vengano ripartiti tra la casa di produzione, i protagonisti dell’opera, i professionisti impegnati nella sua realizzazione e l’autore. Ad ognuno di questi soggetti spetta una quota diversa dei proventi.
Dunque, condividiamo i ricavi del film, almeno in teoria, perché è difficile che un documentario generi profitto. Mi è venuta in mente l’idea di elaborare tale accordo perché quando lavoravo sul set dei film di altri registi non avevo mai ricevuto un soldo dai proventi derivanti dallo sfruttamento dell’opera, solo il compenso per il lavoro svolto. Anche molti dei miei colleghi hanno vissuto la stessa esperienza. Quindi, ho pensato che, se un giorno fossi riuscito a realizzare un mio film, avrei fatto le cose diversamente.
Quale sarà il suo prossimo progetto?
Nei miei film esploro i temi che mi interessano particolarmente. Attualmente sto lavorando ad un film su una piccola associazione di Lubiana che presta assistenza ai lavoratori migranti. I membri di questa associazione fanno un lavoro incredibile, considerano ogni caso singolarmente, intervengono in loco, contattano i datori di lavoro chiedendo loro di pagare gli stipendi arretrati, cercano di risolvere ogni problema con cui si confrontano i lavoratori provenienti da paesi come Bosnia, Kosovo, Serbia. Questi migranti arrivano in Slovenia in cerca di un lavoro dignitoso e finiscono per essere trattati come bestie.
Cosa l’ha spinta a partecipare al Dokufest di Prizren?
Ero già venuto al Dokufest dieci anni fa, nel 2012, ma solo come spettatore. Il Dokufest è considerato un festival molto importante, quindi volevamo parteciparvi. Abbiamo contattato Veton Nurkollari [il direttore artistico del Dokufest] e gli abbiamo inviato il film. Dal momento che il film gli è piaciuto, abbiamo deciso di venire.
Non vedevo l’ora di tornare a Prizren, di vedere cosa è cambiato nel frattempo e come sarebbe andata l’edizione del Dokufest di quest’anno, considerando le grosse difficoltà con cui negli ultimi due anni i festival di tutto il mondo hanno dovuto fare i conti.