Albin Kurti: ciò che conta siamo noi, gli albanesi
Kosovo. Alle elezioni del 12 dicembre il movimento Vetëvendosje, guidato da Albin Kurti si presenta alle urne con un programma nazionalista: unione tra Kosovo e Albania, no ai negoziati con la Serbia, contrazione di Eulex e nazionalizzazione delle risorse. Nostra intervista
Qual è il programma di Vetëvendosje?
Ci impegniamo a fare del Kosovo un normale paese democratico. Oggi il Kosovo non è indipendente, perché senza sovranità. L’acquisizione dell’indipendenza non si è basata sul principio di autodeterminazione, e finora è acquisita solo a livello formale. Vogliamo raggiungere la sovranità sostanziale. Siamo poi contro pessime idee come le privatizzazioni neoliberali del settore pubblico o i negoziati cronici con la Serbia.
Perché?
La costituzione serba ribadisce che il Kosovo è parte della Serbia, e Belgrado finanzia continuamente le strutture parallele dei serbi del Kosovo. Non ha chiesto perdono per i crimini di guerra, non ha pagato i danni né consegnato i criminali, non ha restituito i corpi di 1800 vittime. Prima di risolvere questi problemi non si può negoziare con la Serbia. Ora invece, paradossalmente, la Serbia sta diventando un partner con cui negoziare.
Quale futuro hanno i rapporti con la Serbia? Nonostante il peso del passato, il Kosovo dovrà sempre fare i conti con questo paese…
Noi vogliamo rapporti corretti che si basino sulla reciprocità. La Serbia oggi non riconosce le autorità kosovare, e respinge i prodotti kosovari. Quando Pristina ha fatto gesti di apertura, la situazione è soltanto peggiorata.
Lei ha avuto problemi con la legge in passato. Come ha fatto a far accettare la sua candidatura dalla commissione elettorale, per le elezioni del 12 dicembre?
La sentenza del tribunale sul caso Eulex non era esplicita, e la costituzione prevede che solo una sentenza esplicita può impedire a una persona con precedenti penali a partecipare alle elezioni. Il fatto poi che siano state raccolte ben 175 mila firme per la chiusura del processo contro di me, naturalmente, ha avuto la sua importanza.
Quali sono i problemi che hanno ispirato il vostro programma politico?
Crediamo che la presenza internazionale vada ridefinita. Questa deve essere d’ausilio e consulenza alle strutture kosovare, ma non deve controllarle, come fa oggi. La presenza internazionale in Kosovo è una struttura complessa, formale e informale. Se il Kosovo vuole diventare democratico, deve sbarazzarsi di tutto questo. Il sistema funziona come un protettorato internazionale, ma il Kosovo è stato abbandonato all’anarchia, e la presenza internazionale si perpetua e autoriproduce. Dobbiamo riappropriarci delle nostre risorse naturali: per farlo, dobbiamo mettere un freno alle voglie dei fondamentalisti neoliberali. Dobbiamo fare in modo che in Kosovo scompaiano le strutture parallele della Serbia ed evitare la “bosnizzazione” del Kosovo. A livello internazionale chiediamo che Bruxelles e Washington non ci associno più ad Afghanistan e all’Iraq. Devono paragonarci ai paesi normali, poiché vogliamo diventare un paese normale. Dobbiamo mirare non alla stabilità, ma allo sviluppo. Ci hanno segregato trai paesi in crisi e non hanno intenzione di tirarci fuori da lì.
Lei pensa che il Kosovo possa oggi reggersi sui propri piedi?
Sì. Gli internazionali pensano solo al peggio. Ci hanno definito come un paese che può esplodere, e sono qui per impedire che ciò accada. Questa logica del fare, o meglio del non fare, fa sì che non facciano piani di nessun tipo, ma solo improvvisazioni ad hoc per impedire la crisi, costringendoci perennemente in questo limbo che definiscono “calm but tense”.
Quindi non lo fanno nell’interesse del Kosovo?
No. Nuocciono al futuro del paese.
La presenza internazionale in Kosovo è una struttura estremamente costosa. Qual è l’interesse nel protrarla così a lungo?
I funzionari internazionali in Kosovo sono strapagati. Un’esperienza in Kosovo li aiuta a fare carriera e nessuno è responsabile delle decisioni prese. Spesso si dice che la transizione è stata troppo lunga, io invece penso ch in Kosovo non abbiamo mai avuto una transizione. Siamo passati dal socialismo al capitalismo neoliberale in modo drastico. Non è stato graduale, è stata la sostituzione radicale di un sistema con un altro. D’altra parte qui non abbiamo a che fare con una transizione bensì con un paese di transito. Qui infatti si investe solo sulle strade, sulle infrastrutture, e sull’energia, ma non sull’industria e sullo sviluppo.
Le infrastrutture, le strade, l’energia non sono funzionali allo sviluppo?
No, lo sviluppo viene da produzione e industria. Qui si mira soltanto a far circolare il capitale, che invece deve essere accumulato, attraverso lo sviluppo, l’industria, la produzione. Non si vuole consolidare il Kosovo come uno stato sovrano, unitario, con pieno controllo del territorio, ma strutturarlo come uno spazio di transito.
L’asse Durazzo- Kukes, la cosiddetta via della nazione, inaugurata un anno fa il premier albanese Sali Berisha, va vista in quest’ottica?
Noi guardiamo con favore alla via della Nazione, ma l’infrastruttura non è tutto. Le strade rendono possibile lo sviluppo, ma se gli albanesi non avranno industrie, serviranno solo a sviluppare l’economia di Serbia e Grecia. Il Kosovo sta portando la Serbia in Albania, e l’Albania sta portando la Grecia in Kosovo. Mentre tra il Kosovo e l’Albania circolano solo i “turisti patriottici”. Il mondo sta ritornando ai tempi del congresso di Vienna. Stanno ritornando i confini dei vecchi imperi: al posto dell’Austria-Ungheria c’è oggi l’UE, la Russia dei Romanov è oggi la Russia di Putin, l’impero Ottomano rimane sfasciato oggi come allora. Lo spazio balcanico, intanto, resta indefinito.
Dove si colloca politicamente Vetëvendosje?
Siamo contro il neoliberalismo, contro il premoderno e il postmoderno. Preferiamo l’universale al particolare, la solidarietà alla tolleranza. La multietnicità è realizzabile solo se si ha l’universalità come punto di riferimento. Quando sono arrivati gli internazionali in Kosovo, non c’erano medici, insegnanti, pittori, operai, ma solo albanesi, serbi, e altri. Se le categorie saranno quelle etniche, non ci sarà mai multietnicità. Io penso che la multietnicità non deve essere un obiettivo. Se si costruisce una fabbrica in cui lavorano serbi e albanesi insieme, per via della comunanza di interessi ci sarà anche solidarietà, e questo porterà poi la multietnicità. Ora invece gli internazionali prendono dei serbi e degli albanesi, li portano a Belfast in un albergo a cinque stelle, gli insegnano paroloni su gestione del conflitto e convivenza, e poi li rispediscono in Kosovo, dove non hanno né pane né latte per sfamarsi. E questo , dagli internazionali, viene considerato un passo avanti.
Perché Vetëvendosje ha deciso di entrare in politica? Stare dalla parte della società civile non era più sufficiente?
Abbiamo deciso di entrare in politica dopo un lungo dibattito perché vogliamo avere accesso agli strumenti istituzionali, per poter mettere a freno il male che viene dalla politica kosovara. I nostri politici, corrotti come sono, potrebbero anche concedere l’autonomia a Mitrovica nord, e privatizzare tutto, portando alla “bosnizzazione” del Kosovo. Alla democrazia partecipativa bisogna aggiungere la democrazia rappresentativa. Vogliamo anche aumentare la democrazia diretta attraverso consultazioni referendarie.
Come è finanziata Vetëvendosje? La campagna elettorale costa, così come la partecipazione ai talk show di Tirana…
Noi non paghiamo per apparire nei talk show di Tirana. Non abbiamo mai pagato. Vetëvendosje è una struttura autofinanziata. Gli attivisti pagano 50 euro al mese, i poveri non pagano, e poi ci sono donazioni da parte di uomini d’affari. E’ un’esistenza minimalista, cerchiamo di essere creativi per farcela.
Quanti voti riuscirà a raccogliere Vetëvendosje nelle prossime elezioni?
Ci sono vari sondaggi, ma preferiamo non pensarci troppo. Siamo ottimisti perché vediamo che il movimento cresce di giorno in giorno. Ma il voto spetta solo ai cittadini.
Nel vostro programma figura l’unione del Kosovo all’Albania. Mirate alla realizzazione della Grande Albania? Come preferite chiamarla, Grande Albania, Albania Etnica, o Albania Naturale?
Etnica è esclusiva, e quindi esclude i non albanesi che vivono nelle nostre terre. Noi vogliamo costruire uno stato-nazione nel senso moderno del termine. L’etnico è qualcosa di postmoderno. Non può essere chiamata naturale, perché suggerisce qualcosa di primitivo, molto vicino alla biologia, e non ci riteniamo così primitivi. Quindi per noi quella che lei chiama grande Albania, etnica, o naturale, è semplicemente Albania.
Come pensate di raggiungere questo obiettivo?
Con l’impegno politico istituzionale e non istituzionale, per poi sottoporre la questione a una consultazione referendaria in Kosovo e in Albania. L’unione del Kosovo all’Albania porterà pace e stabilità nei Balcani, una stabilità a lungo termine. E’ la volontà degli albanesi, è nel loro interesse economico e strategico.
A livello internazionale questo è un fantasma che fa paura. Si rischia di ripetere il caso dell’autoproclamata federazione di qualche anno fa tra la Serbia e la Republika Srpska…
No, perché la Serbia e la Republika Srpska non hanno mai formalizzato quel passo. E soprattutto non bisogna mai paragonare il Kosovo alla Republika Srpska, perché in quel territorio si trova Srebrenica, dove ha avuto luogo il massacro più grave delle guerre degli anni ’90.
Ma ha senso oggi parlare di altri cambiamenti di confini, col rischio di un nuovo conflitto, mentre questi stanno perdendo significato in Europa? Non basterebbe aumentare la coesione culturale ed economica tra il Kosovo e l’Albania?
Non è vero che il confine è un concetto che sta perdendo senso. Al contrario i confini si stanno rafforzando sempre di più. In Kosovo e Albania dobbiamo avere lo stesso sistema scolastico, lo stesso sistema energetico, lo stesso mercato, la stesso leadership. Dobbiamo unire il nostro potenziale. Dobbiamo fare come le due Germanie.
Che tipo di sostegno ha Vetëvendosje in Albania? L’idea dell’unione con il Kosovo, non è mai stata presa sul serio in Albania, e una buona fetta della popolazione è addirittura contraria.
Siamo crescendo, e ci siamo agganciati al centro di studi Antonio Gramsci di Tirana, che ci sta aiutando molto.
Come pensa che gli internazionali reagirebbero a questa unione?
Non saranno unanimi. Ma ciò che conta siamo noi, gli albanesi.