Sguardi adriatici: in bici, da Muggia a Capodistria

"Ti dove ti và? Con quest’aria giaza". Da porti industriali con gru marziane ad antichi lazzareti che portano a riflessioni che mescolano passato e presente. Il tutto su due ruote. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna

21/02/2020, Fabio Fiori -

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Muggia (© Lamiavistadelmondo/Shutterstock)

C’è un Adriatico da navigare e uno da camminare; ma ce n’è anche uno da pedalare, magari fuori stagione nei giorni feriali, quando i lungomari sono deserti e silenziosi. Lungomari, riviere, costiere, nomi bellissimi per strade costruite per viandanti, cavalieri e carrettieri, poi ridisegnate o ampliate nel dopoguerra ad uso motoristico. Oggi da ripensare e riscoprire andando in bicicletta, nell’ebbrezza doppia che dà il pedalare al cospetto del mare.

Così irresistibile diventa la voglia di ripercorrere la Slovenska obala o semplicemente l’Obala, da Punta Grossa a Capo Salvore, da Muggia a Sicciole, dal borgo peschereccio italiano al paesino salinaro sloveno, passando per Capodistria, Isola e Pirano. Una pedalata di una quarantina di chilometri, lungo la costa dell’Istria grigio-gialla, quella che i geologi chiamano arenaceo-marnosa, la stessa pietra di tante chiese e palazzi, non impreziositi dalla più nota, monumentale, bianca Pietra d’Istria. Una pedalata con dislivelli minimi e bellezze massime, senza dimenticare però i travagli di una storia e di una contemporaneità complicata. Una realtà carica di contraddizioni che dalle panchine di Muggia si concretizza nell’immagine delle ciminiere portuali di Trieste. Una vicenda tortuosa e difficile che nella piazza di Muggia è raffigurata nel libro chiuso che tiene in mano il Leone di San Marco, scolpito nella pietra.

"È una storia antica questa. Anche di conflitti", mi dice in dialetto un vecchio che mi vede fotografare la lapide, in una gelida, luminosissima, mattina d’inverno. Trieste è in vista, ma qui già tutto racconta Venezia, dall’architettura alla lingua, dal mandracchio al mujesan. Muggia è storicamente avamporto e avamposto istroveneto; "un grosso borgo di aspetto affatto veneziano", si legge nella mia vecchia guida rossa del Touring.

"Anche mi son sempre andato in bici", continua, "Ti dove ti và? Con quest’aria giaza".

"Buongiorno. Farò una pedalata verso Capodistria. Piano piano".

"Prima prendiamoci un caffè", ordina senza appello.

"In piedi però, che devo andare".

Qualche minuto, sufficiente comunque a condensare cinque secoli di storia, a partire dalla metà del Quattrocento, quando Muggia entrò nella Repubblica Serenissima, fino alla sua caduta nel 1797; per arrivare ai fatti complicati del dopoguerra.

Sono le nove e salgo in sella, per andare verso Punta Sottile; cinque chilometri di strada che fiancheggia l’ultimo tratto del vallone di Muggia. In lontananza il profilo di Trieste, della sua facciata industriale, meno nota, grigia e operosa. Un’enorme portacontainer della COSCO, acronimo della China Ocean Shipping Company, mi ricorda che questo è l’ultimo scalo della nuova Via della Seta Marittima, che sta riportando al centro dell’attenzione internazionale l’Adriatico, la più settentrionale delle vie d’acqua che insinuano il Mittelmeer nel cuore della Mitteleuropa.

Chissà se come un tempo anche queste navi devono alzare bandiera gialla? Lettera Q, Quebec, che significa nel linguaggio internazionale del mare: "La mia nave è indenne e chiedo libera pratica". Perché in questi giorni tutti i media danno notizie molto preoccupanti, drammatiche per numero di morti e pericolosità, sul virus di Wuhan, o più scientificamente 2019-n-CoV, un codice che rimanda a scenari apocalittici. Passato e presente che improvvisamente si mescolano, paure e fobie che improvvisamente si ripresentano.

La strada provinciale 14 all’Obelisco di Punta Sottile piega bruscamente di 90 gradi verso sud e inaspettato m’appare un altro fantasma: il Lazzaretto di San Bartolomeo. Il terzo della serie triestina, costruito dagli Asburgo a partire dal 1867, anno d’inaugurazione del Canale di Suez che rilanciò ulteriormente il traffico del porto di Trieste. Gioie e dolori, dell’eterno andare e venire di uomini e merci. Il colera, in quegli anni, era il pericolo principale, che ciclicamente faceva in città miglia di morti. In questa mattina d’inverno il luogo è immerso in una pace immemore. Scendo al porticciolo e mi fermo qualche minuto a scaldarmi un po’ al sole, seduto a terra nel sottovento del muro perimetrale del Lazzaretto, mangiando un’arancia. Il confine dista trecento metri e, per paradosso, le strutture dismesse sono in questi tempi un memento necessario, ai deliranti sussulti nazionalisti. La strada sale, diventa cesta e l’Adriatico Jadransko, mentre il vino rimane vino. Quello prodotto dalle curatissime vigne che coprono tutta Punta Grossa. Cabernet sauvignon, malvasia, merlot, syrah sono solo alcune delle meraviglie di questa antica e preziosa anfora vinaria adriatica. La strada poi scende verso Ancarano, mentre verso ponente la vista si apre sul proto e sulla città di Capodistria.

In bici non bisogna seguire le indicazioni stradali per Koper, ma svoltare a destra fuori dal paese nella Železniška cesta, che attraversa la zona bonificata, dove è sorto il nuovo grande porto. Sviluppato nel dopoguerra, è oggi non solo il più importante della Slovenia, ma compete e collabora con gli altri grandi scali nord adriatici. Qui come altrove le navi sono cosmiche, le gru sono marziane, i container sono alieni. Uno straniamento stemperato solo dall’odore del mare, portato da una brezza d’imbatto.

Con la bici si entra in città, veloci e liberi come antichi cavalieri. Koper oggi, Capodistria ieri e ancor prima Caput Istriae, Justinopolis in onore di Giustino II imperatore di Costantinopoli, Capraea Istriae per i romani, Egida per i primi coloni greci, nipoti dei mitici argonauti. La bonifica ottocentesca e l’urbanizzazione recente hanno nascosto l’originaria insularità, che ancora affascina guardando le stampe antiche o passeggiando lungo le rive che la circondano sull’ex-perimetro d’età veneziana. Riva San Pietro, Riva Sant’Anna, Riva del Dosso, Riva di Vetraia, Riva dei Cantieri, Riva Nazario Sauro, Riva Castel Leone, leggo sulla mia vecchia guida percorrendo tutto l’anello stradale che va in senso antiorario, partendo dalla Porta della Muda, l’unica sopravvissuta delle dodici esistenti. È una piccola mappa, a corredo della guida del 1920, in cui Capodistria era ancora immersa in un azzurrino pallido come il cielo di questo mezzogiorno d’inverno. Ma era l’azzurrino Adriatico che la circondava per i tre quarti, mentre a sud le acque si riducevano a un canale che separava la città dalle saline. Non solo le porte sono scomparse, ma anche i tanti mandracchi che erano affollati di barche e di vele: San Pietro, Sant’Andrea, Isolana, Tintoria, Porporella, Bossedraga, testimoni di una antica consuetudine d’arti marinaresche.

Lascio le rive per andare in quella che era piazza del Duomo e ora è Tito Trg, toponomastica che ha resistito anche ai rivolgimenti post jugoslavi. I leoni marciani, le croci cattoliche, le stelle partigiane, le bandiere slovena, europea e italiana, sono i tanti simboli che s’accalcano sulla piazza, oggi semideserta, di questa piccola-grande capitale istriana. Mangio un burek balcanico e bevo una pivo slovena, al Pekarna Europa Panificio, che nel nome e nell’offerta è un perfetto concentrato di saporiti sincretismi contemporanei. “Dobar apetit!”, mi dice sorridendo a bocca piena un bambino che esce felice dal forno con la sua pizza.

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