Sguardi adriatici: Romagna a tavola
Un territorio raccontato attraverso i piatti realizzati con erbe spontanee. A partire da un libro, “Agli erbi dla Rumagna cuntadena. Le erbe spontanee di campagna nella tradizione alimentare contadina romagnola”, di Roberto Giorgetti, Maria Manuzzi e Stefano Tellarini
“Romagna solatia dolce paese”, è un verso di Giovanni Pascoli scritto alla fine dell’Ottocento, che è diventato nell’ultimo secolo anche uno slogan turistico. Così come sono diventate icone pop/food la piada e il sangiovese, il pane e il vino di una terra “cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta”. Ma i mangiari di Romagna, come si diceva un tempo, erano anche tanti altri, legati alle quotidiane povere abitudini di contadini e pescatori. Piatti di terra e di mare, raccontati in maniera contemporanea forse per la prima volta da Aldo Spallicci nell’articolo “Mangiari di Romagna” del 1931 e poi in maniera più ampia e dettagliata, nel libro sempre con lo stesso titolo del 1960 di Gianni Quondamatteo, Luigi Pasquini e Marcello Caminiti, più volte ristampato. Nella edizione del 1974 in copertina c’è un quadro di Alberto Sughi, dove una bocca spalancata sembra divorare non solo un boccone di romagnolissime tagliatelle, ma anche l’ordinato, produttivo, paesaggio agrario che fa da sfondo.
Un quadro che sintetizza, alla maniera degli espressionisti, una relazione antica e in divenire, quella tra il paesaggio e il cibo. Una scelta editoriale ripresa in modo altrettanto riuscito dal libro, da poco pubblicato in abbinamento con il quotidiano Corriere Romagna: “Agli erbi dla Rumagna cuntadena. Le erbe spontanee di campagna nella tradizione alimentare contadina romagnola”, di Roberto Giorgetti, Maria Manuzzi e Stefano Tellarini.
Qui in copertina c’è una natura morta, un olio su tela del 1922 del pittore sordomuto romagnolo Fortunato Teodorani. Se la piada, in quarti ben disposti in verticale, chiarisce subito la geografia pittorica, brocca e bicchiere di vino, uve bianche e nere e salame rimandano a un più generale mondo contadino italiano. Ma l’attenzione, indirizzata già dal titolo del libro, va al piatto d’erbe con due mezze uova soda che restituisce una cultura e una prassi antichissima, quella dell’uomo raccoglitore o del foraging, per usare una parola rilanciata negli ultimi anni dai foodgrammer. Un parallelo che gli autori vogliono subito escludere, ma che inevitabilmente sta nella naturale evoluzione della relazione tra i paesaggi, gli alimenti e le pratiche umane. A meno che non si voglia ridurre una cultura, quella dell’alimurgia, cioè della raccolta delle erbe selvatiche a fini alimentari e salutistici, a fatto esclusivamente letterario e/o antropologico e/o museale. No! dico e pratico io da anni. “L ‘andar per erbe” dei nostri avi, quello che ho avuto la fortuna di imparare da mia nonna e dalle mie zie, può e dovrebbe essere pratica quotidiana, in evoluzione, ma comunque ben radicata in un passato recente, ma con origini antichissime.
Perché “l’andar per erbe” degli ominidi raccoglitori è precedente alle abitudini alimentari di cacciatori e pescatori, sapendo per esperienza che è più semplice raccogliere un radicchio o una mora che non cacciare una quaglia o una lepre, che non pescare una trota o un branzino. Perciò raccogliamo alla vecchia maniera erbe selvatiche buonissime, continuando a studiare e sperimentare anche in cucina, ma raccogliamo anche suggerimenti e suggestioni letterarie, rinnovando pratiche antiche. Erbe selvatiche, con nomi dialettali che vogliamo continuare a usare: burazni, scarpègn, radecc, urtiga, sprainli, lasni e rosli (borragine, crespingni, radicchi, ortiche, aspraggini, senapi e rosolacci). Azioni selvatiche che pratico ma di cui ho scoperto il verbo dialettale solo leggendo questo libro: adongiare, ossia d’arsi d’attorno, impegnarsi al massimo. Adongiare per cercare e raccogliere erbe mangerecce, da maritare magari con le uova sode, piada e vino come ben raccontato nel quadro di Teodorani.
Gli autori di questo vademecum officinale hanno biografie molto differenti, Roberto Giorgetti più noto come Gianola, nato nell’immediato dopoguerra, è cuoco e cultore della gastronomia della bassa Romagna, legata agli orti domestici e alla pesca costiera. Maria Manuzzi è sua madre, un’azdora, cioè una donna forte e capace, che dalla stesura del testo alla sua pubblicazione “è andata da un’altra parte”. Stefano Tallarini è agronomo e ha raccolto le loro testimonianze nella loro lingua madre, il dialetto di Bellaria, traducendole in italiano e organizzandole in questo libro.
Diviso in quattro parti, dedicate alle erbe spontanee inserite nella tradizione alimentare rurale romagnola a cui seguono le preparazioni e una trattazione puntuale sulle erbe più comuni. Il libro si arricchisce di foto a colori di vari autori e da un utile indice alfabetico trilingue: romagnolo, italiano e scientifico. Un racconto che va dalla celebrazione della forse più gustosa delle pietanze romagnole, il cassone con le rosole alle minestre vedove, ormai dimenticate che vanno riscoperte per i sapori, ma anche per salubrità e sostenibilità. Minestre vedove, perché rigorosamente (per necessità!) senza carne, cucinate esclusivamente (sempre per necessità!) solo con erbe selvatiche. Erano quindi le più povere ma diciamo noi oggi, che viviamo in un mondo di eccessi alimentari proteici di origine animale, anche assolutamente sane. Queste diventavano minestre matte quando si usava il lardo e magari legumi, patate bollite, farina di mais. Nelle minestre vedove o matte, si usava quando possibile cuocere i tajadlot, cioè la pasta all’uovo. Minestre che una volta erano la biada dell’uomo, riprendendo le parole di Piero Camporesi. Minestre di cui Pellegrino Artusi scrive ben 100 ricette, tra in brodo, asciutte e di magro, sul totale di 790, comprensive di dolci, siroppi, conserve, liquori, gelati, cose diverse (caffè, the, ribes, ponce, mostarda, spezie, ecc.). Ma rimanendo “agli erbi boni”, tutte quelle selvatiche e saporite, si va dai comuni e ottimi scarpègn, che si raccolgono da ottobre ad aprile e che sopravvivono anche alle fredde giornate d’inverno schiacciandosi a terra e facendo la foglia rossa, ai più rari e ricercati asperz selvatich e raponsol, asparagi selvatici e raperonzoli. Per concludere, se un tempo per rimarcare la povertà si diceva “u n’à gnénca l’uli da cundoi i scarpègn”, non ha neanche l’olio per condire i crespigni, oggi potremmo al contrario dire che la vera ricchezza è di chi ha conoscenza e tempo “per coi e magnè i scarpègn”, per raccogliere e mangiare i crespigni.
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