Sguardi adriatici: Majella, da Ortona al Valico della Forchetta

Le montagne che circondano le sponde dell’Adriatico sono tutt’altro che uno sfondo paesaggistico. I marinai lo sanno. Ed è per questo che per esplorare il Mare che accomuna abbiamo pedalato nel cuore della Majella. La prima di tre puntate

04/09/2020, Fabio Fiori -

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Majella, veduta aerea (© Massimax/Shutterstock)

“Il Mediterraneo non è forse, anzitutto, un mare tra montagne?… I geologi lo sanno e lo spiegano”, scrive Fernand Braudel. E, aggiungo io, i marinai, soprattutto quelli adriatici, lo sperimentano quotidianamente. Perché da Alpi, Appennini e Balcani scendono venti docili o tempestosi, fiumi portuosi o importuosi, a seconda delle circostanze. Perché l’Adriatico, tra tutti i mediterranei, è quello più montuoso, stretto da alte catene, a occidente con vertiginose vette a quasi tremila metri a cinquanta chilometri dal mare, Corno Grande e Monte Amaro, o sul versante orientale a meno di dieci chilometri s’alzano il Vaganski Vrh 1.757 metri e il Monte Lovćen 1.749 metri. Oggi come un tempo, con aria tersa, chi veleggia in Adriatico può traguardare vette innevate da ottobre a maggio. Le nevi permanenti arrivavano sino al cuore dell’estate e “danno fresco agli occhi”, ha scritto un viaggiatore nel Settecento.

Ma le montagne mediterranee non sono solo un affascinante carattere paesaggistico, uno sfondo della storia del mare. Perché i tratti geografici concorrono anche alla storia e alla cultura. Sempre riprendendo le parole del grande cantore del Mediterraneo cinquecentesco, “La montagna, per solito, è un mondo a parte della civiltà, creazioni delle città e delle pianure”, quel mondo a parte ha comunque una relazione strettissima con economie, socialità e culture. Perciò, se la civiltà adriatica s’è costruita di certo nelle piazze di Trieste, Venezia, Zara, Spalato, Ragusa, Bari, Durazzo e altri cento piccoli e grandi porti, non dimentichiamo che tutte sono state pavimentate con pietre dolomitiche, lessine, murgiane, bebie, dinariche, grazie all’abile lavoro di maestranze montanare. Per non dire dell’altra grande ricchezza della montagna, imprescindibile per millenni alla navigazione: il legname. E allora, ancora oggi, per conoscere meglio il mare ogni tanto è necessario ormeggiare la barca, lasciare la riva, girargli le spalle e mettersi in cammino o in sella. Se un tempo per ampliare gli orizzonti ci si metteva in viaggio a dorso d’asino o di cavallo, oggi possiamo farlo in bicicletta, che dell’animale ha il ritmo, regalando gioie e dolori connaturati al viaggio, che dell’animale ha i tempi necessari a una visione utile alla conoscenza.

Riparto dunque, in un nuvoloso sabato d’estate, pedalando sulla strada statale 538, chiamata Marrucina, credo perché attraversi l’antica terra di un piccolo agguerrito popolo italico preromano. La strada corre al fianco della ferrovia abbandonata che collegava Ortona a Crocetta. Vento in poppa, che anche in bici è andatura felice. Perché il corpo si fa vela e la pedalata s’addolcisce. Poco traffico, nel primo pomeriggio. Non c’è né quello lavorativo, né quello festivo, concentrato sulla costa. Pedalata solitaria, ancor più dolce e straniante perché accompagnata dalla voce della regina del fado Amalia Rodriguez che canta “Sant’Antonie a lu deserte”. Un’introduzione musicale e antropologica a un viaggetto di qualche giorno in uno dei cuori appenninici dell’Adriatico: la Majella. Mi trovo così a fischiettare con Amalia: “Buona sera cari amici tutte quante le cristiane / questa sera v’aggiu a dice della festa de dimane / che dimane è Sant’Antonio lu nemice de lu dimonio / Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice de lu dimonio”. Ho lasciato Ortona scossa dalla Tramontana che continua ad accumulare nuvole minacciose sulle vette invisibili che ho di fronte. La strada segue il tacciato del ramo settentrionale della Ferrovia Sangritana, chiuso negli anni Ottanta. La società che la realizzò e la gestì per diversi decenni era la FAA, Ferrovie Appennino Adriatico, un nome che era anche una dichiarazione d’intenti, quello di creare un nuovo solido legame economico tra due mondi, tra la dorsale montuosa e l’aorta marittima. A destra l’ex-sedime è ancora armato, come si dice tecnicamente nella lingua ferroviaria. Binari appaiono e scompaiono tra acacie, ailanti, rovi, tutti audaci incursori vegetali. Tralicci e croci di Sant’Andrea sono rugginose icone di un tempo ferroviario che fu. “ALT ACCERTARSI CHE NON ARRIVI IL TRENO”, m’ammonisce un cartello mentre attraverso la linea per raggiungere un fico che ammicca seducente al pedalatore affamato di dolcezze selvatiche. Questa come tutte le brevi e anguste valli appenniniche restituiscono la confusa operosità artigianale di questi ultimi decenni. Capannoni piccoli e grandi, rinnovati o decadenti, specchio di un Italia d’idraulici, carrozzieri, meccanici, edili, commercianti, fornai, conservieri e di cento altri lavori, brulicanti nelle strette pianure tra mare e montagna. Orsogna è la prima breve tappa; giusto il tempo di un’aranciata in piazza Mazzini in attesa che spiova. Di qui cominciano ad aumentare le pendenze; si dimentica subito il facile pedalare di rive marine e valli fluviali. Guardiagrele, “la città di pietra”, risplende nel sole d’agosto, parafrasando Gabriele D’Annunzio. Guardiagrele città di fondazione antichissima che qualcuno vorrebbe legata ai mitici Pelasgi, popolo del mare. Varcando la bianca Porta San Giovanni entro idealmente nel mondo della dea Maja, colei che arrivò dal mare e risalì la montagna in cerca di medicamentose erbe per curare il figlio ferito nei lontani campi di battaglia della Frigia. Il Giardino della Villa Comunale è il primo degli spettacolari balconi che s’affacciano sull’Adriatico, offerti dal versante orientale della Majella. Un balcone dove scopro i versi di Modesto Della Porta, che accompagnano di maiolica in maiolica il passeggiatore alla scoperta di una lingua e di un mondo antico. Incomprensibile forse ai due fidanzatini che si tengono per mano seduti sulla panchina, ascoltando dallo smartphone il tormentone dell’estate, “A un passo dalla luna”.

Il giorno successivo il sole ha ripreso la scena e le vette si mostrano in tutta la loro selvaggia bellezza. Salgo a Pennapiedimonte, in pellegrinaggio laico alla statua della dea, scolpita dalla pioggia e dal vento, che veglia il borgo antico dall’alto. Un paese bianco appollaiato sotto il costone orientale del Monte Focalone, ripidissimo e boscoso. Mi siedo su una delle cinque panchine delle meraviglie, da cui lo sguardo spazia su colline, valli e decine di chilometri di costa da Vasto a Ortona. È lo scampanare festoso della Chiesa di San Silvestro a incalzare il pedalatore svagato. Un saliscendi semideserto, tra pascoli, coltivi e boscaglia, fino a Fara di San Martino, un paese indissolubilmente legato alla vicenda economica del pastificio De Cecco, il cui grande impianto industriale bianco e azzurro sta come un’astronave amica atterrata tra bosco e uliveto. Quella della De Cecco è una vicenda economica e sociale emblematica delle strettissime relazioni tra antichi e nuovi saperi, tra culture contadine e marinare, di ieri e di oggi. Perché è bene ricordare che le eccellenze gastronomiche italiane dipendono anche da preziosi prodotti agricoli che vengono da lontano, spesso via mare. Breve sosta per un caffè, poi di nuovo in sella. Qualche chilometro sulla provinciale che s’innesta sulla SS84, in direzione Lama dei Peligni, un toponimo legato a un altro antico popolo preromano. L’Adriatico ormai si vede solo girandosi per piccoli frammenti, mentre la montagna a destra si mostra in tutta la sua nuda forza ancestrale. Sono i luoghi dannunziani de “La figlia di Iorio”, il cui atto secondo è ambientato proprio in una “caverna montana”, nella Grotta del Cavallone che si apre a quasi 1500 metri, raggiungibile da un sentiero, due chilometri dopo Lama. Proseguo verso Palena, che meriterebbe una sosta; ma anche il pedalatore più ondivago deve fare delle scelte, saper rinunciare a qualcuna delle tante curiosità che offre la strada. Perché devo raggiungere non troppo tardi il Valico della Forchetta a 1276 metri, per poi proseguire verso Campo di Giove. Appena svalico, festeggio l’agognata discesa sgranocchiando qualche mandorla, soddisfatto come Sant’Antonio di aver beffato “lu satanasse” delle salite. “Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu demonie / Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu demonie”.

(CONTINUA)

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