Quando le strade non finiscono a Roma
Tutte le strade, si dice, portano a Roma. Anche quella di Mussa Khan e di migliaia di muhajirin afghani per cui l’Italia è soltanto una tappa della tormentata ricerca di una vita migliore. Qui, tra i cantieri che costeggiano la Stazione Ostiense, si interrompe il racconto di un viaggio che non ha fine
L’autobus 60 percorre rumorosamente il selciato sconnesso, mentre filari di platani oscillano sotto le spinte della brezza serale. Roma è in apparenza la stessa da cui sono partito due mesi fa. Uno dopo l’altro, sfilano oltre i vetri i monumenti della città eterna: le Terme di Diocleziano, Piazza Venezia, il Milite ignoto. Via dei Fori Imperiali va a schiantarsi contro la maestosa mole del Colosseo.
L’autobus percorre tre quarti della sua circonferenza, mostrandone finalmente il lato illuminato dal sole al tramonto. Soltanto due giorni fa, in Grecia, in una notte ventosa passata all’aperto, Mussa Khan mi ha chiesto: “com’è il Colosseo, visto da vicino?”. Ed io, “lo vedrai presto, coi tuoi occhi”.
Piazzale Partigiani, capolinea. Oltre la stazza marmorea della Stazione Ostiense sorge il campo dei muhajirin afghani. Mi sposto sul viale che, costeggiando l’Air Terminal, porta ai piedi di un enorme cantiere edile. Inaspettatamente, un cancello sbarra il passo. “Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori.” Scavalco. Lo spettacolo che si presenta ai miei occhi, oltre la rete di sbarramento, mi disorienta. Dove sorgevano dozzine di tende, baracche e bivacchi, resta solo un’olente lingua d’asfalto fresco. Mucchi di abiti abbandonati oltre un muretto di cemento sono l’unica traccia del passaggio di centinaia di esseri umani.
Mi siedo sul ciglio del marciapiede a contemplare il silenzio. Ubi desertum, pacem appellant. Penso a Mussa: come farò ad aiutarlo, adesso? I muhajirin di Ostiense erano le uniche persone a cui potevo rivolgermi per avere informazioni ed aiuto.
Dal cantiere giungono rumori sordi. Scavalcata un’altra recinzione, mi trovo alla base di un palazzo in costruzione. “Salam u aleikum.” Un muhajir si lava da un tubo di gomma, dopo averlo scollegato dal beccuccio di una betoniera. “U aleikum salam” Il suo sorriso mi rincuora. Zahir parla perfettamente italiano. “Se vuoi lavarti, sbrigati. Qui è pieno di zanzare.” Quando abbiamo finito, ricollega il tubo alla betoniera. “Andiamo”.
“Sono arrivati all’alba, sbucavano da tutte le parti. Erano venuti per sgomberare il viale.” Seduti su vecchi materassi, Zahir e i pochi muhajirin rimasti a Ostiense raccontano quanto successo al campo alcune settimane prima. “Hanno portato via tutti quelli che hanno accettato di entrare nel centro di accoglienza. Ma io”, aggiunge Zahir, “preferisco restare qui. Non ho più una tenda, ma sono libero di muovermi come voglio. Sono in Italia da tre anni, non credo più ai poliziotti.” Il piccolo campo preparato dai muhajirin è incastrato alla convergenza tra due linee ferroviarie. Una quindicina di materassi sono l’unico segno tangibile della presenza di una comunità umana tra questi binari.
Col passare delle ore altri migranti si uniscono a noi. Il più giovane ha quattordici anni. Yousif, arrivato in Italia da tre giorni, è scappato dalla casa paterna di Herat un mese fa. “Secondo te è meglio il Belgio o la Norvegia?” Parla inglese fluentemente. “In Norvegia”, rispondo, “ci sono buone possibilità per i rifugiati. E se trovi lavoro, puoi guadagnare bene.” Mi guarda assorto. “Già, dicono tutti così. Sono convinto, appena mio cugino porta i soldi, compro un biglietto per Oslo.” Si calcola che solo nel 2009 circa seimila minori afghani non accompagnati abbiano richiesto asilo in Europa. “E quando arriva tuo cugino?” Alza le spalle: “appena trova il camion giusto. E’ a Patrasso.”
Il campo di Roma Ostiense rappresenta il principale snodo italiano lungo il tragitto dei migranti afghani diretti in Europa. Passato l’Adriatico i muhajirin approdano qui, guidati dai trafficanti o dal passaparola. Seduti attorno a me vedo solo uomini. “E’ troppo pericoloso per una donna, per un vecchio o per un bambino infilarsi sotto un camion per imbarcarsi sul traghetto dalla Grecia all’Italia.”
Zahir mi spiega che la maggior parte di loro considera l’Italia come un paese di transito, alla stregua della Turchia o della Grecia. “Io sono dovuto restare qui perché appena sbarcato a Venezia, tre anni fa, sono stato catturato dalla polizia e costretto a depositare le impronte digitali. Gli accordi di Dublino”, continua Zahir, “non mi hanno permesso di proseguire oltre. Ho provato a stabilirmi altrove: in Norvegia, in Svezia, in Belgio. Lì i richiedenti asilo non sono costretti a dormire in strada come a Ostiense. Ma ogni volta mi hanno rispedito in Italia.” Mentre Zahir racconta, di tanto in tanto un treno sferraglia rumorosamente a pochi centimetri dalle nostre schiene, ma nessuno dei muhajirin sembra farci caso.
La notte porta con sé un velo di brina. Uno dopo l’altro, i ragazzi affondano le braccia in un cumulo di stracci, tirandone fuori coperte impolverate. Ne prendo una anche io. “Ma tu non hai una casa?” Sistemo il mio materasso accanto a quello di Zahir. “Si, ma non è ancora il momento di tornarci. Devo parlare con te.”
Zahir fuma tabacco sfuso mentre ascolta la storia di Mussa Khan. Il tempo è scandito dal transito dei vagoni sui binari. Finalmente, quando tutti i muhajirin si sono addormentati, mi faccio coraggio: “Mussa ha bisogno di una carta d’identità italiana. Tu sai dove posso trovarla?” Sdraiato con le braccia incrociate sotto la nuca, Zahir non si volta neppure. “Se hai i soldi, non ci sono problemi. Domani mattina ti farò parlare con una persona che ti può aiutare.”
Le traverse di Viale Ostiense pullulano di Internet point. Ci fermiamo sulla soglia di un piccolo negozio con dentro sette o otto postazioni. Scritte in inglese, arabo e farsi riportano le tariffe per la connessione. Zahir fa un cenno con la mano al signore dietro la cassa, che lentamente esce fuori. “E’ una brava persona, mi ha aiutato molte volte.” L’uomo mi guarda a lungo. Poi i due si scambiano ampi gesti di saluto parlando in farsi, prima di sparire dentro il locale. Non mi resta che aspettare fuori.
Mi guardo intorno. So che la mia presenza non passa inosservata: Ostiense abbonda di trafficanti, intermediari e contrabbandieri proprio come Basmane e Omonia. Finalmente Zahir torna fuori, con una espressione soddisfatta. “Sarà pronta in meno di una settimana. Devi tornare lunedì prossimo e chiedere direttamente a lui.” L’uomo è tornato ad occupare la sua sedia dietro la cassa. Niente numeri di telefono, niente nomi: questo tipo ti affari si sbrigano sul momento e di persona.
Saluto Zahir ringraziandolo di cuore. Vado in stazione, salgo sul treno che mi porterà a casa. Appena usciti da Termini, faccio partire la chiamata. “Mussa? Ce l’ho fatta. Dovrai solo aspettare qualche giorno prima che possa spedirti il documento per posta.” Ad Omonia, nel centro di Atene, non gli sarà difficile trovare falsari che sostituiscano la fototessera.
Mussa non dovrà più strisciare sotto un camion per entrare in Europa. Non rischierà la vita per avere qualcosa che gli spetta, l’asilo. Al contrario, una volta entrato nel porto di Patrasso si metterà in fila come qualsiasi altro essere umano, passando a testa alta attraverso il controllo doganale. Durante la navigazione butterà la carta d’identità in mare, gustandosi le mille acrobazie aeree che il documento compirà prima di sparire tra le onde.
Quando sarà sul molo di Ancona, davanti al poliziotto che gli chiederà cosa sia venuto a fare in Italia, Mussa si dichiarerà richiedente asilo, come è suo diritto. L’autorità greca non ha rilevato le sue impronte digitali, perciò non rischia di essere rispedito indietro. Vecchio afghano ribelle, ce l’hai fatta: potrai finalmente vedere il Colosseo con i tuoi occhi.
Sono a casa. Svuoto lo zaino sul pavimento della mia stanza. Uno dopo l’altro, osservo gli oggetti che ho accumulato in due mesi di vita insieme ai muhajirin, immaginandone una possibile collocazione tra le mie cose.
Guardo la collana che Muhammad mi donò a Van, pregandomi di portarla con me, affinché almeno uno dei suoi oggetti arrivasse in Europa. Sfoglio il quaderno su cui Naqeeb scrisse, dedicandomeli, antichi versi pashtun, spiegando che solo un altro pasthtun avrebbe potuto tradurli.
Apro la carta geografica dell’Afghanistan, mappa sulla quale decine di muhajirn hanno rintracciato i nomi delle città da cui erano fuggiti, commuovendosi. Sfoglio gli incartamenti che i richiedenti asilo di Gaziantep mi avevano affidato, con la preghiera di consegnarli a qualcuno che potesse risolvere i loro casi. Anche se sono rientrato a casa, sento che il flusso di tutte quelle esistenze sospese continua a scorrere in me. Finalmente mi sdraio sul mio letto, cullato dal pensiero che presto Mussa Khan sarà tra di noi.
E’ notte fonda. Un rumore penetrante mi sveglia di colpo. Fatico a capirne la provenienza. Guardo il cellulare ai piedi del letto. Un messaggio. Ingoio l’aria due, tre volte. “Man bad news for me I’m on my way to jail.” Lo rileggo. “Amico, brutte notizie, mi stanno portando in prigione.” Chiamo immediatamente, ma è già spento.
Da quella notte Mussa Khan non ha più dato notizie di sé.
Nota dell’autore
Il bene più prezioso di persone che hanno perso tutto a causa della fuga e della migrazione è l’identità: per questo motivo il reportage “Mussa Khan” è scritto rispettando l’anonimato dei rifugiati, richiedenti asilo e migranti, attraverso l’uso di pseudonimi. Nelle fotografie e nei video, inoltre, non compaiono mai volti, segni particolare o elementi di altro genere che possano portare all’identificazione delle persone ritratte.
Invito il lettore, infine, a notare che nonostante le quattordici puntate del reportage trattino quasi esclusivamente di migranti irregolari, non compare mai il termine “clandestino”, con l’auspicio che questa parola torni presto al suo uso originale: quella di aggettivo, non di sostantivo.
Ringraziamenti
Grazie a Anita e Dario, che mi hanno aperto la porta del viaggio. Grazie a Vico e Ermanno, che mi hanno insegnato a percorrerlo. Grazie a Sara e Francesco, che mi mostrano la strada. Grazie a Giulia, la meta.