L’Adriatico in ferrovia: da Ancona a Pescara

La seconda puntata di un viaggio in treno con lo sguardo puntato dritto sull’Adriatico. Proseguiamo l’esplorazione di un mare che, negli anni ’60 dell’800, ritornò ad essere, grazie a strade ferrate, i grandi trafori alpini e l’apertura del Canale di Suez al centro degli interessi commerciali internazionali

12/01/2021, Fabio Fiori -

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Porto Recanati in periodo estivo (© poludziber/Shutterstock)

(Vai alla prima puntata)

La Freccia riparte da Ancona, immediatamente in galleria. Buio completo anche nel vagone. Luce musicale dei Radiodervish nelle cuffie. “Mi incammino per Itaca / Nelle mani i coralli dipinti / Da un Sole che non può finire / Senti il vento che scivola / Sulle rughe sapienti di eroi / Naviganti che sanno morire”. Ogni viaggio ha bisogno di un libro o di un album. Per paradosso, più oggi di ieri. Perché un libro o un album chiedono quell’attenzione che è indispensabile per ampliare l’orizzonte. Questo mio viaggio ferroviario adriatico ha per colonna sonora “Il sangre e il sal”, un tuffo nelle musicalità di questo mare, nelle culture di un Adriatico che ha sempre collegato Europa, Asia e Africa. La galleria è brevissima, i binari sono di nuovo stretti dalla città. Il collegamento ferroviario tra Ancona e Pescara è stato inaugurato nel maggio del 1863, due anni dopo l’arrivo del treno da Bologna. Un altro fondamentale tassello, di quella “Valigia delle Indie” che nel 1866 si completa, permettendo al viaggiatore di andare da Londra a Brindisi in 47 ore, per poi imbarcarsi per Porto Said e di lì raggiungere Bombay. Le strade ferrate, i grandi trafori alpini, l’apertura del Canale di Suez, riportarono negli anni 60 dell’Ottocento l’Adriatico al centro degli interessi commerciali internazionali. Economie, genti e culture in movimento.

Un diluvio s’abbatte sul nostro convoglio, invisibile la campagna urbana che precede un’altra più lunga galleria, prima della piccola stazione di Varano. Ritorna il buio, ritorno a sognare Itaca, quella di Kavafis cantata dai Radiodervish, quella di Savinio: “Andiamo prima che annotti. Dobbiamo navigare il mare libero”.

Passiamo velocemente Osimo Stazione; guardo fuori, dai finestrini di destra. Appare in alto l’imponente profilo della Basilica di Loreto, un’icona adriatica, un’arca marmorea contenente la Sacra Casa della Madonna Nera di Nazareth. Secondo la leggenda trasvolata dalla Palestina a Tersatto, vicino a Fiume, e poi a Loreto “Sui ripiani di una ridente collina fa bella mostra di sé la città di Loreto e il suo famoso santuario colla grandiosa cupola del Bramante e l’elevato campanile del Vanvitelli”, scriveva Carcani, viaggiatore ferroviario ottocentesco.

Il treno non si ferma, accelera subito dopo la stazione. La pioggia s’interrompe, è un orizzonte metafisico quello che adesso incornicia il finestrino. Un quadro metafisico, dominato da una rovina industriale. Una strettissima spiaggia di ciottoli bianchi, un mare torbido e burrascoso, un cielo bicolore. Filiforme, ceruleo l’orizzonte; uniforme, plumbea la volta. Un’unica cattedrale al centro della scena, lo scheletro di una balena in cemento armato, arenatasi nella metà del secolo scorso. E’ un paraboloide, usando la lingua poetica dell’ingegneria. Un paraboloide di quel gran artista che è stato Pier Luigi Nervi, capace di fare meraviglie con il cemento armato. Ma il treno impone al paesaggio una poetica dell’attimo; le visioni ferroviarie hanno le dinamicità del futurismo e regalano le suggestioni dell’ermetismo. Porto Recanati. Recanati, Recanati, Recanati ripeto come un mantra; chiudo gli occhi e penso all’infinito oltre la siepe … edile! Un minuto dopo li riapro e ritrovo l’infinito adriatico, trìcromo: piombo il cielo, pavone il largo, sabbia la riva. Qui la ferrovia corre a pochi metri dalla battigia; sono sette, otto chilometri di libertà pelagica, differente ogni giorno, imprevedibile e verginea com’è sempre quella del mare. “La banda di sabbia [e di scoglio aggiorno io], che divide la linea ferrata dal mare è stretta: e, se non mi sporgo dal finestrino [e sui treni veloci di oggi non ci si può sporgere, purtroppo, aggiungo sempre io] essa sparisce: in questo modo mi offro l’illusione di navigare – rigidamente!”, scriveva cent’anni fa Alberto Savinio, metafisico argonauta ferroviario, in viaggio da Ferrara a Taranto.

Da Civitanova a Porto San Giorgio, l’Adriatico è invisibile al finestrino, per riapparire vicinissimo e smisurato, poco a nord di Pedaso. Cupra Marittima, Grottamare, San Benedetto, rive importuose un tempo, quando le paranze prendevano terra direttamente e con gran pericolo sulle spiagge. Rive picene, abitate dal mito della Cupra; montagne picene, abitate dal mito della Sibilla.

Alzo gli occhi dal taccuino e incrocio quelli di una moira punk appena salita a San Benedetto che sta sistemando la valigia. Ha occhi di ghiaccio, volto cereo, capelli e abiti corvini. Sorrido, lei ricambia solo con una smorfia. Rimango muto, non oso chiedergli di chi era o dove ha trovato quella vecchia valigia in pelle. Ha le fibbie strette, sembra esplodere. Chissà quante storie contiene?

Il treno riparte, attraversa la foce del Tronto, per entrare nelle terre abruzzesi settentrionali. Abruzzo Ulteriore Primo si chiamava in età pre-unitaria. Giulianova e Roseto sono tagliate in due dalla ferrovia, mentre dopo la foce del torrente Tordino la costa ritrova un’antica selvatichezza. E’ la Riserva del Borsacchio, una sottile striscia di sabbia, un piccolo regno incantato, popolato da una relitta vegetazione psammofila, la chiamano i botanici. Voglio tornarci in primavera per annusare i profumi resinosi del pino d’Aleppo mescolati al salso adriatico, per vedere il magico spuntare dalla sabbia del giglio, della soldanella, del poligono, del verbasco, dell’iris. Una piccola oasi, prima di ritornare nel novecentesco suk balneare. Siamo a Pineto e dal finestrino s’ammira il più classico dei quadri marini ottocenteschi. La pineta voluta dalla famiglia Filiani di Atri è un gioiellino, un diadema a ricordo anche di una rotta etimologica tracciata da Paolo Diacono che unisce l’Adriatico ad Atri, l’antica Hadria. Poco più a sud la ferrovia ritorna ad essere una meravigliosa barriera tra l’incanto del mare a oriente e l’intrico dell’uomo a occidente. La Torre del Cerrano è un emblema, non solo paesaggistico. Costruita per proteggere la costa dai corsari saraceni è da anni a protezione dai corsari speculatori, altrettanto famelici. La torre con la sua preziosa macchia e la sua libera spiaggia sono un patrimonio d’inestimabile valore. Un piccolo grande miracolo panteistico s’avvera, ogni volta che ci andiamo da soli per leggere un libro, per una nuotata aurorale, per sedersi sulla riva a respirare il salmastro o in due per abbracciarsi guardando l’orizzonte. Ma la Freccia è feroce, non concede pensierose lungaggini romantiche, accelera per rituffarsi nel bailamme balneare di Silvi e subito dopo in quello di Pescara. Castellamare-Adriatico la chiama Alberto Savinio, raccontando che giunto in stazione il suo “treno neglige la tettoia e il marciapiedi e prosegue verso i depositi, andando a fermarsi accanto alle giogaie del carbone”. Segue la cronaca del suo amore intimo per la “casa rotabile”, per le vicissitudini della sostituzione della locomotiva e del macchinista, un giovane debuttante con la “spavalda petulanza di un torero illustre. … Egli cura la giumenta nera con amore infinito. Le accarezza i lombi e va a frugarla nelle parti più intime”, un idillio antropo-meccanico.

Di fronte a me, la moira s’alza frettolosamente. Mi pesta un piede nel prendere la valigia. Non chiede scusa e se ne va senza salutare. Continuo a inseguirla alle spalle con lo sguardo, mentre va nel corridoio verso l’uscita, con passo androgino. Mi riecheggiano in testa, lontane voci di sirene. Pericolose seduzioni, d’argonauti ferroviari.

 

PS

Come avete letto, ho inaspettatamente incontrato Alberto Savinio che, oltre a essere insieme al fratello De Chirico i dioscuri della pittura metafisica, è anche gran narratore del “cuore delle città”, parafrasando il titolo di un suo libro e più in generale di quello degli ambienti umani. L’ho incontrato sul treno, grazie all’utile e piacevole lavoro di Dario Di Donfrancesco, “La vela, la ruota, il vapore. Percorsi letterari dell’Adriatico e mezzi di trasporto ” (2017, Mimeis, pp 267, € 24), a cui va la mia gratitudine. Il racconto ferroviario di Savinio ha inevitabilmente stravolto anche il mio piano narrativo, allungando il viaggio.

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