In volo sopra la città

Quando emigrare resta l’ultima sofferta possibilità. Un racconto di Mihai Mircea Butcovan, pubblicato nella raccolta Italia Underground, Sandro Teti Editore

19/05/2009, Redazione -

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Di Mihai Mircea Butcovan

Mio marito è partito un giorno di primavera di due anni fa… Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?

Quando mi ha detto «Io parto» ho pensato che avesse ragione. Era meglio così. Da quando avevano chiuso la fabbrica lui non dormiva più. Si girava e rigirava nel letto, poi si svegliava alle cinque del mattino, faceva le sue ricerche e mandava curricula alle multinazionali.

La fabbrica aveva chiuso da un giorno all’altro e mio marito, ingegnere inutile, era rimasto a spasso. Aveva sempre detto, vedendo gli altri che andavano all’estero a cercare fortuna: «Servono ingegneri anche qui. Se tutti andassimo via nessuno più costruirà ‘sto Paese».

Ma ora non servivano più, nemmeno gli ingegneri… non nella nostra città. Quattro anni fa abbiamo visto Radu, l’ex collega di mio marito, rientrare dall’Italia, dopo sei mesi, con una bella macchina. E al bar del centro Radu pagava da bere a tutti. In effetti si vedeva che Radu aveva fatto fortuna. Sua moglie ha cambiato in fretta guardaroba e parrucchiera. Però era strano, Radu diceva di lavorare duro in un cantiere ma non aveva calli sulle mani,
gliele ho viste bene io le mani.

Allora mio marito ha detto un giorno di primavera di due anni fa: «Parto anch’io. Che futuro vuoi dare qui ai nostri figli? Non sono buono a fare il disonesto». Molti dicevano che in Italia c’era lavoro, si guadagnava bene, e qualcosa portavi a casa comunque. Raccontavano che lì potevi guadagnare cinque volte di più, abbiamo fatto i conti, nostro figlio avrebbe fatto l’università…

E nella primavera di due anni fa mio marito è partito. È partito con un prestito, ci siamo indebitati, servivano i soldi per il viaggio e per le prime due settimane. Ma avevamo fatto i conti: in due mesi avrebbe recuperato tutto. Dopo due giorni in Italia, mi ha telefonato, voleva tornare a casa, diceva che le cose non stavano così come le aveva raccontate Radu. Ma poi ha trovato lavoro nei cantieri, ha cominciato a mandare a casa qualche soldino. I primi quattro mesi di stipendio sono serviti per saldare il debito con Radu. A Natale mio marito è tornato col treno. «La macchina» ha detto «la compro più avanti, per ora non ci serve, né lì né qui».

Mio marito è partito un giorno di primavera di due anni fa… Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli? Mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… Mia madre è ora lì, con la lettera di papà in mano, come a dire «la leggo o non la leggo ai miei figli?»

Mio padre è partito un giorno di maggio. Pochi giorni prima aveva festeggiato la… Festa dei lavoratori. Come sempre tutti al picnic, birra, polpette grigliate e partite di bocce. Ma quell’anno papà era senza lavoro, avevano chiuso la fabbrica. Io prima volevo studiare da ingegnere, come lui, ma poi se devi fare il disoccupato e non dormire di notte… Birre e polpette, cosa c’era da festeggiare?

«Le conquiste della classe operaia» dicevano alla radio… Mia madre è lì, con la lettera in mano, ha lo sguardo perso, come se mio padre l’avesse lasciata… Forse si è messo con un’altra più giovane… Succede, ne abbiamo sentite di storie raccontate da quelli che tornano dall’Italia… Mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… M’aveva detto che era per il nostro bene, per il nostro futuro. «Vuoi studiare da grande?» mi chiedeva mettendomi la mano sulla testa.

«Se vuoi diventare ingegnere devi andare all’università. Allora dobbiamo fare qualche sacrificio. Qui ormai non c’è molto da sperare, io non vedo altra strada…» È lì, mia madre, con la lettera di papà in mano, come a dire «la leggo o non la leggo ai miei figli?» e io ho visto una lacrima anche se per togliersela si è voltata verso la finestra fingendo di sistemare la tenda. La mamma è rimasta con gli occhi incollati alle tende bianche, quel sipario aperto su una finestra spalancata sulla strada. In fondo a quella strada, sporgendoti, non vedi niente, perché non c’è niente da vedere… Per questo mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa. Ricordo la mamma allegra quando papà, in Italia, ha trovato un lavoro e ha mandato dei soldi a casa. Ero felice quando lui è tornato per Natale, pieno di regali. Quest’anno dovrebbe tornare per le vacanze estive e portarci al mare. La prima vacanza vera, con tutta la famiglia, sul Mar Nero. Me la sono meritata, la scuola va bene e non certo per il bel diario che papà mi ha portato a Natale.

«Non è quello che fa la differenza» diceva lui. «Io lavoro con una tuta di stracci, e il lavoro lo faccio bene». Il suo lavoro papà lo fa bene.

Mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… Mia madre è ora lì, con la lettera di papà in mano, come a dire «la leggo o non la leggo ai miei figli?». Sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è là con una mia lettera in mano e si chiede: «Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?».

Sono partito un giorno di maggio. La Festa dei lavoratori l’avevamo appena fatta, da disoccupati. Solite birre e polpette grigliate. E bocce. Dovevo partire. Volevo dare un futuro alla mia famiglia. Un varco per partire. Non vedevo altro in fondo alla strada. E sapevo che nella vita c’era ancora molto da vedere. L’hai mai vista tu Milano da cento metri d’altezza? Le punte, le guglie e i piccioni… I piccioni, mai sazi, che si spingono ancor più su per poi planare sui tetti, frenare sui cornicioni e da lì lasciarsi cadere nel vuoto fino all’atterraggio sul cemento orizzontale della città, per raccogliere le briciole di gente che guarda la città dal basso…

A volte sogno, mentre incollo i mattoni uno sopra l’altro e mi sento colpevole perché collaboro alla cementificazione di questa città. Ho visto cime verdi sparire da un giorno all’altro, punte di alberi scomparse nella foresta di palazzi. Ho visto foreste di gru crescere nella notte. Forse quei passanti indaffarati, con le valigette in pelle, non si sono accorti di niente. Io sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è là con una mia lettera in mano e si chiede: «Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?» Ci sono giorni in cui, da quassù, il mondo ti sembra un altro, ci sono giorni in cui il mondo da quassù è meglio non vederlo… Ci sono giorni in cui nemmeno puoi vederlo, tanto è il grigiore di nuvole che chiamano smog, la nebbia di fumo. E poi ci sono giorni di maggio in cui la città è bella così, piena di colori, come la vedo io da qui, dalle impalcature… Milano, con i suoi tetti rossi, grigi e con le punte verdi degli alberi. E le nuove cime di grattacieli, le vele come le chiamano qui. Le vele in un mare di cemento. Le vele di cemento. E più in là, in fondo, la fiera… La fiera l’abbiamo costruita un po’ anche noi… gli immigrati… sono arrivati in tanti, come me, a lavorare nei cantieri della penisola.

Ma non la contano mica giusta a casa, non tutti… «Non gli vedi i calli alle mani, non vedi che mente, non ha mai lavorato in cantiere», diceva mia moglie quando Radu ci raccontava la sua vita in Italia. In effetti, io non c’avevo fatto caso ai calli delle mani di Radu, lo immaginavo sulle impalcature, perché lui raccontava le punte della città e quelle se non le vedi non le puoi raccontare…

Io avevo fatto anche il caporale al militare e avevo in mente un solo significato per questa parola. Poi ho scoperto la struttura dei cantieri: appalto, subappalto, imprenditore, caporale, manovale e magut. E Radu era un caporale che procurava manovali e magut per subappalti e lavorava con imprenditori che avevano appalti…

Sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è là con una mia lettera in mano e si chiede: «Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?».

Quest’anno alla Festa dei lavoratori abbiamo fatto un corteo, con cartelli e bandiere, con slogan e comizio finale. Qui è bello vedere che la gente lotta per i propri diritti perché ci crede ancora. Abbiamo festeggiato, qui è giorno festivo e quest’anno me lo pagano anche, per contratto. L’anno scorso il contratto non ce l’avevo, mi sembrava di perdere tempo, una giornata senza paga.
Poi mi sono detto che il corteo devi farlo proprio per quello, per avere il contratto. E quest’anno, in corteo, c’erano amici che gli sembrava di perdere una giornata di paga.

La sera abbiamo poi festeggiato con birre e salamelle. Ma sono andato a letto presto perché noi ci alziamo alle cinque per andare in cantiere. Non riuscivo a prendere sonno, pensavo alla famiglia, ero contento, le cose stanno andando meglio, fra tre mesi andrò in ferie e li porterò al mare, quest’anno c’è una sorpresa per ognuno di loro. Non riuscivo a dormire, poi sono crollato. Ho fatto un sogno… Volavo sopra la città, tra le guglie del Duomo, e nella selva di pinnacoli e sculture mi sono avvicinato in volo alla scritta "Madunina", proprio come la chiama Giovanni, il geometra. Ho fatto ciao con la mano alla Madonnina dorata, m’è parso facesse anche lei ciao con la mano… Poi ho pensato che il prete non sarebbe mica d’accordo col dire ciao alla Madonna, allora nel dubbio ho detto anche ave… Poi non ho più pensato, perché nel volo sopra la città non hai bisogno di pensieri.
All’improvviso migliaia di statue, a una a una, hanno incominciato a staccarsi dal tetto del Duomo, dal tiburio, dalla facciata e dalla falconatura. Cadevano a testa in giù e si sfracellavano sul cemento. Anche gli angioletti e i puttini si frantumavano in caduta libera, nonostante le ali. La Madunina rimaneva sola e io dicevo spaventato ciao e pensavo che il sacerdote avrebbe disapprovato e poi non ho più pensato perché nel volo sopra la città non hai bisogno di pensieri.

I pensieri da lassù vedevo che ce li avevano altri: c’era un’ambulanza che arrivava con le sirene spiegate, tirando su la polvere del cantiere. Sentivo gridare gli operai: dicevano che il ritardo c’era sempre quando alcune delle statue da soccorrere erano senza documenti. Poi c’era un signore in doppiopetto, con la cravatta verde, che si agitava al telefono, parlava con un capocantiere esagitato e gli urlava cazzo, geometra, non doveva succedere, non ora che c’è la torta della fiera… O la fiera della torta… Non ho capito bene e dal punto in cui volavo li vedevo entrambi sudati che agitavano le mani. Dall’alto mi sembrava una danza di dervisci ma loro erano scomposti, sudati e con gli occhi strabuzzati e paralizzati abbinavano la Madunina a qualche porco. Poi il doppiopetto ha messo giù, ha guardato il cellulare come fosse la pagina di un libro mai letto da cui prendi le distanze per distinguere le righe quando vuoi leggere la quarta di copertina. Ha chiamato qualcun altro, che poi era al bar del centro e dal punto in cui mi trovavo li ho visti entrambi, e gli diceva al caporale-imprenditore che prendeva un grappino alle dieci del mattino, guarda che il caporale sei tu, sei nei guai e quello rispondeva "siamo" nei guai, mica solo io…

E il capocantiere ha chiamato un caposquadra e gli ha dato indicazioni sbatacchiando le mani e dicendo stiamo calmi, non è successo niente, dobbiamo rimanere calmi… Il doppiopetto col fazzoletto verde ha ripreso ad agitarsi, ha chiamato col cellulare uno che si chiamava funzionario sindacale che leggeva un giornale al bar alle dieci del mattino. E questi gli ha detto, stai calmo, domani usciranno i comunicati, morti bianche, quote rosa, fiori di pesco, ribadiamo la sicurezza dei lavoratori… no, non ci sarò settimana prossima, sono a un congresso in Toscana.

E la danza del cantiere continuava nel roteare di uomini agitati che parlavano al telefonino. Allora è partito in volo un corteo e migliaia di statue, a una a una, hanno incominciato a staccarsi dal tetto del duomo, dal tiburio, dalla facciata e dalla falconatura.

Marciavano in silenzio, senza cartelli, slogan e comizio finale. Marciavano in silenzio sulle punte della città, un corteo volante che sfiorava i tetti rossi e grigi. Sotto, sui marciapiedi, la gente indifferente continuava a fare foto alla Madunina rimasta sola.

Le statue avevano nomi di italiani e albanesi, romeni e marocchini, egiziani e senegalesi, algerini e peruviani, e pure di rom e di sinti. Statue invadenti e senza documenti, sagome anonime da fotografare per il ricordo di una storia che non vuole cambiare e di un destino preventivato e chiamato effetto collaterale delle conquiste dell’uomo. La città cresceva e invocava il vento del progresso nelle vele di cemento. E sotto, sui marciapiedi, la gente indifferente continuava a fare foto a una Madunina rimasta sola.

Sono partito un giorno di primavera, come due anni fa. Sono partito in volo dietro ai piccioni, il volo che ho sempre sognato, giù dall’impalcatura per cento metri e tanti piani… Planavo fra tetti, punte, vele e guglie della città… Ho fatto ciao alla Madunina, non c’era tempo per altro. Non sono volato giù dall’impalcatura, come diranno e scriveranno sui giornali. Sono volato su dall’impalcatura, come nei miei sogni. Ma io non freno sull’asfalto, nemmeno sul cemento, e nemmeno sulla polvere…

Domani, da qualche parte, usciranno comunicati e dichiarazioni di indignazione. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è là con una mia lettera in mano e si chiede: «Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?».

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