I Balcani di Alexander Langer
Quindici anni fa, il 3 luglio 1995, se ne andava Alexander Langer. Attivista, politico, pensatore eco-pacifista, a lungo impegnato anche nelle vicende dei Balcani. Una figura non sempre compresa, tra le più originali nell’Europa degli anni novanta che cercava di aprirsi all’est. Cosa resta oggi dei suoi contributi?
Alexander Langer, nato a Vipiteno nel 1946 e morto suicida a Firenze nel 1995, aveva alcune caratteristiche che gli permettevano di comprendere meglio di molti altri i turbolenti eventi di inizio anni novanta nei Balcani. Dalle guerre in ex-Jugoslavia alla transizione albanese, fino al riemergere delle tensioni lungo il confine orientale d’Italia, i suoi scritti e discorsi offrivano infatti chiavi di lettura originali e non scontate. Spesso diverse dai ritornelli sull’etnicità, la democrazia liberale o i torti del passato, di cui invece si riempivano al tempo paginate di commenti.
La prima caratteristica era il suo essere altoatesino-sudtirolese di lingua tedesca, per di più con padre di origine ebraica. I temi dell’identità, dell’appartenenza, della lingua, delle minoranze sono perciò quelli stessi della sua formazione, in una provincia che dopo l’italianizzazione forzata subita dal fascismo trascorre il dopoguerra in continuo scontro etnico. “Leggo nella situazione sudtirolese – scriverà più tardi Langer – una quantità di insegnamenti ed esperienze generalizzabili ben oltre un piccolo ‘caso’ provinciale”.
Altra caratteristica era quella di avere avviato già dalla fine degli anni ottanta vari contatti con l’est Europa, specie con i nascenti gruppi della società civile alternativi ai regimi al potere. All’interno dei movimenti pacifisti e verdi si andavano formando reti e alleanze – come l’East-West Dialogue Network o la Helsinki Citizens Assembly – che torneranno poi utili a Langer per leggere ed affrontare la crisi jugoslava e le altre vicende degli anni novanta. A ciò egli univa la curiosità e l’interesse per visitare di persona i luoghi di crisi, raccogliendo sul campo e dal vivo elementi e notizie senza limitarsi alle cronache dei giornali. Così lo troviamo nel dicembre 1990 a Tirana, a vivere in presa diretta la fine del regime totalitario e l’avvento del multipartitismo; in primavera del 1991 in un primo viaggio promosso dai verdi tra Belgrado e Pristina; nel settembre 1991 con la carovana di pace che attraversa la (ancora unita) Jugoslavia; e poi più volte in Bosnia Erzegovina, con un legame particolare per Tuzla e il sindaco Selim Beslagic; fino all’ultimo viaggio previsto di nuovo in Kosovo pochi giorni prima di farla finita, saltato solo per uno sciopero aereo dell’ultimo minuto.
Tanto attivismo a Langer veniva anche – ed è l’ultima caratteristica da richiamare – dal suo ruolo istituzionale di parlamentare europeo dal 1989, dal 1991 presidente della Delegazione per i rapporti con l’Albania, la Bulgaria e la Romania nonché presidente dell’Intergruppo lingue e culture minoritarie. Un impegno dentro e fuori le istituzioni, dunque, emblema della sua vita da traghettatore di idee e conoscenze.
Ma quali sono stati i contributi principali di Langer nel dibattito italiano ed europeo sui Balcani? Anzitutto la comprensione della complessità. La sua lettura dell’implosione jugoslava ha rifuggito da subito le semplificazioni unicausali. “Da quelle – scriveva già nel 1991 – che leggono il confitto come scontro tra dittatura e democrazia o tra nazioni ‘europee’ e ‘retaggi balcanici’, a quelle che parlano di mera guerra di aggressione imperialista o di conquista, o di ‘guerra civile’, o di scontro tra centralismo e ribellione autonomista (a vari livelli: di Zagabria e Lubiana contro Belgrado, ma anche della Slavonia contro Zagabria), o tra unità nazionale e separatismo… La verità è che concorrono molti e complessi elementi, non esclusa una pesante eredità storica e socio-economica, che finisce per sommare le disgrazie balcaniche a quelle del dopo-comunismo”.
Di conseguenza le sue posizioni pubbliche hanno evitato semplificazioni, come al contrario avvenuto per una parte del movimento verde-pacifista, schieratosi acriticamente a favore dell’indipendenza slovena e croata. Langer ha invocato e praticato il dialogo con tutte le componenti ex-jugoslave, richiamando l’attenzione – ed ecco un secondo contributo – su gruppi, movimenti e singoli intellettuali emarginati dai nazionalismi imperanti ma anche dalla colpevole pigrizia delle cancellerie internazionali. Uno sforzo, come lo definiva lui stesso, per “dare voce e appoggio e credito all’altra Serbia, all’altra Croazia, all’altra Bosnia Erzegovina, a partire dalle quali ricostruire democrazia, diritto, convivenza e integrazione con il resto d’Europa”. E’ stato questo l’impegno del Verona Forum per la pace e la riconciliazione in ex Jugoslavia, rete di cui è co-fondatore insieme a Marijana Grandits. Ed è lo stesso interesse che ha mostrato nell’affrontare il caso albanese, tanto che nel dicembre 1990 sarà tra i primi in assoluto ad incontrare i rappresentanti del nascente Partito Democratico ancora clandestino. Comprendendone anche i limiti, come dimostra il diario di quelle giornate: “La nostra impressione è che la guida del movimento sia passata molto velocemente dalle mani degli studenti a quelle di intellettuali. Il cardiologo Salih Berishi (sic) e l’economista Gramoz Paschko occupano il palcoscenico […]. Siamo piuttosto preoccupati […] la nuova opposizione sembra ancora ben lontana dall’essere all’altezza dei compiti che la storia sembrerebbe volerle assegnare”.
Dai contatti con questi movimenti sono venuti altri contributi di Langer al dibattito parlamentare europeo. Sua ad esempio la mozione per il sostegno ai disertori di guerra nella ex Jugoslavia, compresa la richiesta di dar loro asilo all’estero come poi avvenuto in Italia. Suo anche il progetto di corpi europei civili di pace, da affiancare allo strumento militare nella gestione delle crisi internazionali e su cui tutt’oggi l’Unione Europea dibatte. Ed è stato, coraggiosamente, suo l’invito a considerare anche un intervento armato, limitato e sotto mandato Onu, per interrompere la guerra in Bosnia Erzegovina.
Già dal 1993 ragionava a voce alta di questa opzione, consapevole dei suoi rischi ma anche deciso a non farsi rinchiudere in un pacifismo che definiva dogmatico. Ha ricevuto molte critiche per questa sua posizione, ma l’ha anche difesa e rinsaldata col proseguire delle pulizie etniche, fino al noto appello del giugno 1995 “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”. Indirizzato al Consiglio Europeo previsto a Cannes, spinge perché siano rafforzati il mandato ed i compiti dei caschi blu e presa una posizione netta dentro al conflitto dichiarando come aggressore l’esercito serbo-bosniaco. Fa sorridere la risposta di Jacques Chirac. “Risponde che sì, liberare Sarajevo dall’assedio è una priorità, ma che non esistono buoni e cattivi, e che non bisogna fare la guerra. Ci guardiamo, la deputata verde belga Magda Aelvoet e io, entrambi pacifisti di vecchia data: che strano sentirsi praticamente tacciare di essere guerrafondai dal presidente neogollista che pochi giorni prima aveva annunciato la ripresa degli esperimenti nucleari francesi nel Pacifico!”.
E però quello stesso appello conteneva un altro contributo langeriano, presente nei suoi scritti già da tempo anche se molto meno discusso. La richiesta di immediata integrazione dei paesi ex jugoslavi nell’Unione Europea. Le ragioni andavano oltre l’esigenza di breve periodo di contenere le spinte belliciste, e riguardavano il progetto stesso di una forte Europa politica contro il predominio di una mera integrazione economica, già presente all’epoca. “Ecco perché – scriveva nel 1991 – occorre superare l’attuale dimensione della maggior parte degli ‘stati nazionali’ (o pretesi tali) contemporaneamente in due direzioni: verso il basso (con nuove e ricche autonomie) e verso l’alto, con ordinamenti federalisti sovranazionali”. Oltre quindici anni dopo, anche questo ci resta di Alexander Langer.