Fra traumi e memorie

La violenza, i traumi, il post-guerra. All’Università di Bologna il centro di ricerca Trame indaga i linguaggi della memoria collettiva. E le ragioni per cui certi ricordi non si tramandano, mentre altri ritornano ossessivi. Nostra intervista a Federico Montanari, tra i fondatori del Centro

19/11/2010, Mauro Cereghini -

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Mostar (foto I. Telebak)

Federico Montanari è ricercatore in semiotica all’Università di Bologna. Ha pubblicato nel 2004 “Linguaggi della guerra”, per Meltemi editore. E’ tra i fondatori del Centro di ricerca Trame ed è reduce da un’indagine sul campo condotta in Kosovo. Lo abbiamo incontrato per parlare del Centro e del suo lavoro di analisi sui temi della memoria e dei traumi.

Che cos’è Trame?

Trame è un centro di ricerca nato lo scorso anno al Dipartimento di scienze della comunicazione dell’Università di Bologna, da interessi convergenti di alcuni docenti, ricercatori e dottorandi. I temi su cui opera sono la memoria, in particolare la memoria del trauma, il conflitto e il post-conflitto. Post per dire che le forme della guerra si sono trasformate, ad esempio non si sa più quando inizia e quando finisce, basti pensare ai casi recenti in Afghanistan, Iraq o nei Balcani. Perciò più che di dopoguerra occorre parlare di post-guerra, perché le forme della guerra si dilungano oltre il tempo tradizionale anche per via dell’intervento internazionale. La scommessa di Trame è usare strumenti di tipo etno-semiotico per un’analisi linguistica sui segni della memoria, del trauma e del post-conflitto.

Normalmente l’approccio al trauma è diverso, più psicologico e individuale…

L’idea iniziale di trauma, elaborata da Freud dopo la Prima guerra mondiale, è in effetti psichica o addirittura psichiatrica. Noi cerchiamo invece di indagare la dimensione collettiva e la sua rappresentazione pubblica, come nel caso dei monumenti e della costruzione di spazi della memoria . Ma ci interessa uno sguardo antropologico anche alle forme di rappresentazione collettiva che restano nel privato o viaggiano sottotraccia, generando fenomeni diversi dal risentimento alla rimozione. Ciò che in alcune parti del mondo, pensiamo al Sudafrica, si è cercato di affrontare con veri e propri riti collettivi di pacificazione, come i tribunali per la riconciliazione. I rituali possono essere ripetizione di stereotipi vuoti, ma in certi casi hanno una funzione importante per sciogliere i traumi del passato.

Sei reduce da un viaggio in Kosovo: quali dati e impressioni hai raccolto?

Sono stati quindici giorni intensi. L’impressione più forte è quella delle due memorie diametralmente divise, di due narrazioni sulla guerra e sul post-guerra del tutto inconciliabili. Questo anche perché nello scontro è stata richiamata la mitologia del passato, come la battaglia di Kosovo Polje usata per mobilizzare l’opinione pubblica serba. E significativamente lì ci ha portato subito la nostra guida serba. La battuta di Churchill sui Balcani che producono più storia di quanta ne consumino è certamente razzista. Però è vero, e non solo nei Balcani, che quando si riattiva la storia antica ad uso delle ragioni politiche dell’oggi, occorre anche consumare quella storia, superarla.

Storia e memoria sono un tema chiave anche per chi vuole intervenire dall’esterno. La guerra nei Balcani è stata letta erroneamente con la chiave etnicista e questo ha creato molti problemi nell’approccio internazionale. Come favorire narrazioni alternative e contrastare la potenza di rappresentazioni permeanti come quelle identitarie?

Il rapporto tra oblio e rimemorazione è un altro nostro campo di ricerca, anche se poi passare dall’analisi all’intervento sul campo è difficile. Già, però, darsi una valida capacità di analisi è importante: un grave problema della diplomazia internazionale è stato proprio la mancata comprensione dei Balcani. Oggi forse ci sarebbero gli strumenti per fare analisi critiche preventive sull’escalation dei conflitti, con cui smontare le letture fuorvianti e lanciare una sorta di early warning. Questo a partire dalle competenze dei gruppi e delle reti locali di società civile, che sappiano cogliere i rischi di aggravamento delle crisi sul loro territorio.

Dopo la loro esplosione invece, una volta contenuto militarmente il conflitto, occorre attivare da subito spazi di confronto. E in questo la semiotica potrebbe aiutare a costruire un profilo composito degli attori collettivi, perché spesso li si immagina come dei monoliti. Al contrario sono soggetti complessi e frastagliati, che andrebbero indagati sul campo con gli strumenti etnografici e antropologici: descrivendo le città, gli spazi, la disposizione delle persone e dei gruppi, i rapporti di forza e le narrazioni che usano.

Comprendere le narrazioni in atto è indispensabile anche per chi interviene dall’esterno. C’è un filtro culturale che seleziona la memoria da tramandare ed è importante cercare di cogliere i dispositivi culturali per cui di alcune cose si parla e di altre no. Ad esempio abbiamo condotto una ricerca su eventi della memoria italiana come Ustica e la strage di Bologna. Abbiamo rilevato che i giovani di oggi quasi non sanno di cosa si tratti, nonostante le molte forme di narrazione anche non convenzionali attivate, quali film, libri o rappresentazioni teatrali. Si potrebbe liquidare la cosa dicendo che i giovani sono tutti ignoranti, mentre per noi è importante capire perché il trauma non sempre passa nella memoria collettiva, quali filtri culturali agiscano. Altre volte l’evento traumatico viene riattivato a distanza di decenni o di secoli per fini del tutto diversi, come in parte è accaduto nei Balcani.

Oltre alla narrazione della guerra c’è la narrazione della pace e dei pacifisti, o umanitari. Cosa si può dire al riguardo?

E’ interessante analizzare la rappresentazione dell’intervento umanitario, ad esempio le fotografie o i video usati per comunicare il lavoro delle diverse organizzazioni sul campo. Una decina d’anni fa è uscito un bel libro del sociologo Luc Boltansky su “Lo spettacolo del dolore”. Non si tratta solo di criticare le ong o le agenzie umanitarie, ma certo è un campo delicato dove occorrerebbe ragionare con ciascuna di loro sulle strategie comunicative che adotta. In secondo luogo è necessario un lavoro di analisi critica più ampia sull’uso e l’effetto complessivo di questa retorica comunicativa. Certe fotografie di dolore trasformate in banner pubblicitari sui siti internet diventano icone del contemporaneo. Si costruiscono così gli stereotipi, come il bambino con la mosca sulla bocca o la donna piangente. Non sono necessariamente manipolazioni, ma creano delle iconologie ripetitive per tutte le catastrofi umane. Possiamo risalire già ad alcuni lavori fotografici sulla grande depressione negli Stati Uniti degli anni trenta e tracciare un filo che arriva fino ai reportage sul terremoto in Abruzzo. Non vuol dire che l’informazione fatta con questi stereotipi sia necessariamente cattiva, ma essa crea comunicazione, costruisce un’immagine dei fatti. Gli stereotipi, anche se è difficile, andrebbero smontati, non per ragioni estetiche ma perché è questo stesso un modo di intervenire sulla realtà. Per me non è solo un lavoro accademico, si tratta di vera e propria critica sociale.

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