Ferrovia adriatica: da Pescara a Termoli e l’imperizia giovanile

Prosegue il nostro viaggio lungo la ferrovia adriatica. Accompagnati dalle poesie di Giacomo Scotti si attraversano le terre natali di Gabriele D’Annunzio. Dai finestrini quel mare, l’Adriatico, che per amarlo occorre avere – scrive Fiori – sensibilità wabi-sabi. La terza di cinque puntate

26/02/2021, Fabio Fiori -

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Uno scorcio del centro storico di Ortona, Abruzzo (© underworld/Shutterstock)

Quando il treno riparte, lo squillo dello smartphone mi distoglie da fantasie odissiache, da incantesimi afrodisiaci. È la notifica di un messaggio di Giacomo Scotti , amico d’oltremare, indomito novantenne, da trent’anni il mio Virgilio nei labirintici meandri delle terre e delle lingue slave. Gli avevo scritto prima di partire, per chiedergli un ricordo dei suoi viaggi ferroviari adriatici.

“Caro Fabio, grazie per l’email e per il ricordo dei nostri passati incontri per le strade di Fiume, della luminosa passeggiata sul molo longo. Anch’io ho viaggiato in ferrovia, lungo la costa italiana da Trieste fino a Lecce e più sotto. L’ultima volta insieme a Predrag Matvejević per un convegno a Bari nel 2016. Purtroppo non scrissi, non conservo diari, non ho annotazioni… o sono nascoste sotto quintali di carte che riempiono gli scaffali della mia biblioteca ed altri angoli della mia casa… Ti mando però un paio di poesie che rievocano i ponti esistenti tra le due sponde adriatiche”. Saranno i miei “avvisi ai naviganti”, da leggere e rileggere nelle prossime ore di viaggio, alternandoli alle fugaci, libertarie visioni marine.

La Freccia attraversa lentamente il ponte sul fiume Pescara. Un portocanale che oggi ribolle minaccioso, per niente soddisfatto della camicia di forza in cemento armato che lo stringe. Era il ribelle Aternus dei latini, il bel fiume che due comuni divide, parafrasando Gabriele D’Annunzio che nel vecchio borgo è nato, che dell’ottocentesco ponte ferroviario ha raccontato la guerra tra le due conflittuali cittadine, di levante e ponente. Dopo una decina di chilometri, superata Francavilla, il treno ritrova il mare. Una stretta vicinanza, un altro tuffo ferroviario nel mare dell’intimità, riprendendo una felice definizione di Matvejević. E proprio ripensando a lui, alla nostra feconda triangolazione tra le opposte rive, trascrivo sul taccuino i versi di Giacomo: “È scomparso il confine / che il cielo quieto scinde / da suo fratello mare. / Sembra svanire ogni ombra / e soltanto chiarore irrompe in questo spazio. Tutto avvolge / me per primo, col mio lieto stupore. / O forse è lo stupore che traduce / in leggerezza e luce / l’incanto di un mattino mediterraneo / sulla riva di Trieste”.

C’è un incanto che si rinnova ad ogni viaggio, un incanto cinematografico, guardando l’Adriatico dal finestrino del treno.

Anche quando è rigato dalla pioggia come adesso, anche quando è sporco di sabbia e di sale. Nel controluce dell’alba o nelle lunghe ombre del tramonto. L’Adriatico non è sempre limpido e luminoso, è anche torbido e nebbioso, è un mare d’oriente. Per amare l’Adriatico bisogna avere sensibilità wabi-sabi, è necessario amare l’imperfetto. L’Adriatico è paesaggio wabi-sabi, perché imperfetto, temporaneo e incompiuto. L’Adriatico è maestro wabi-sabi, perché costringe all’attenzione per, forse, vederlo davvero.

Ritorniamo in galleria, il nuovo traforo che sostituisce il percorso ottocentesco, dismesso qualche decennio fa. Ho vividi ricordi, di quando ancora il treno correva sulla strettissima riva, con gallerie finestrate che erano una vera e propria wunderkammer ferroviaria. Quella strada ferrata è oggi in parte riadattata a ciclabile. Lì dove sfrecciava il treno oggi corrono le bici; un ideale connubio di passata e futura sostenibilità.

Stazione di Ortona, con visioni portuali. Il finestrino incornicia un quadro marinaro con barche e pescherecci, gru e trave-lift, capannoni e silos. Invisibile il Castello Aragonese e il borgo di Terravecchia. Ortona antico scalo frentano, punto di sbarco di genti pelasgiche e illiriche che da qui risalirono le montagne sacre a Maja. Anche il treno, nel necessario adeguamento tecnologico, ha abbandonato la luce delle rive per tuffarsi nel buio del sottosuolo, sacrificando i piaceri della visione alle ebrezze della velocità.

Ma le mie fantasie s’accendono comunque grazie a visioni altrui, al racconto che fa Savinio dell’incontro a Ortona a Mare con una “frazione dell’India viaggiatrice”. Un’arca di Noè in cui trovano posto cavalli e uomini: guerrieri, saltimbanchi, nobili, operai, donne fatali e bambini agghindati, originari del Punjab, Assam, Curg, Birmania. Una compagnia estemporanea e festosa, che canta: “la strada per Tipperary è breve e lunga …”. Non resisto alla curiosità d’interrogare il G-oracolo, per scoprire che Tipperary è una cittadina irlandese e che il motivetto è una traduzione incerta dell’allora famosa: “It’s a Long, Long Way to Tipperary”. Del resto è lo stesso Savinio a dirci della sua incapacità a “penetrare il senso del verso barbaro”.

Il nuovo tracciato è quasi tutto in galleria o trincea; il mare lo puoi solo immaginare guardando sprazzi di cielo dove oggi veleggiano cumuli minacciosi spinti dallo Scirocco. Poi, improvvisamente, all’orizzonte appare il segaligno faro di Punta Penna, in un fluttuante orizzonte d’uliveti. Dopo Marina di Montenero le tre strade adriatiche ritornano a correre parallele sulla riva del mare: la ferrovia, la SS16 e l’A14. La Freccia ferma a Termoli, anonima stazione che purtroppo niente riesce a raccontare delle magnifiche vedute marine offerte dai suoi balconi, da cui nei giorni sereni si vedono le isole calcaree di Diomede e le terre boscose di San Michele. Termoli, la Thermon, città di confine fondata da genti greche, che secondo la leggenda diede ospitalità a Platone. M’appisolo ripensando a un mio fortuito ingresso in porto, fatto tanti anni fa. In un tardo pomeriggio d’ottobre un allegro Scirocco favorevole riempiva le mie vele, portando la mia barca dall’isola di San Nicola a Termoli su un mare colore del vino. Un buio precoce e un’imperizia giovanile rischiarono di farmi naufragare sulla diga portuale, di cui non riuscivo a riconoscere le luci d’ingresso. Mi salvarono due delfini che si misero al mascone destro. Lo stupore dell’incontro inaspettato, così vicino a riva, mi destò. I due m’impedirono di proseguire sulla stessa rotta, dovetti stringere il vento e dopo poco vidi la luce verde d’ingresso. Strinsi ancor di più il vento, mettendo la prua sulla giusta rotta. Solo allora i due delfini mi lasciarono, ritornando del profondo. Anch’io come Arione sono stato salvato dai delfini, non li ho cavalcati ma li ho seguiti, in un’illune notte d’autunno, approdando felice a Termoli. Festeggiai in osteria con u’ bredette e qualche bicchiere di Tintilia.

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