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Europa: la via della pace passa dai Balcani
”Guerre finite, ma le ferite dell’ex Jugoslavia sono ancora aperte”, ”Russia, Turchia, Medio Oriente: il futuro del Vecchio Continente adesso si gioca ad Est”. Un’intervista a Rada Ivekovic pubblicata su l’Eco di Bergamo
Di Piero Vailati
Le ferite dell’ex Jugoslavia sono ancora aperte, e l’Europa (che a suo tempo ebbe pesanti responsabilità) ha tutto l’interesse a sanarle, anche attraverso l’integrazione di un’area che altrimenti rischia di rappresentare una pericolosa fonte di instabilità proprio alle porte dell’Unione. "L’Italia, che è terra di frontiera, questo l’ha capito meglio e prima degli altri Paesi Ue" spiega Rada Ivekovic, saggista e analista di origine ex-jugoslava (oggi docente universitaria in Francia) profonda conoscitrice delle realtà balcaniche e studiosa di tutte le tematiche legate alle identità politiche e culturali. L’Italia dunque, aggiunge Rada Ivekovic (nei giorni scorsi a Bergamo per una conferenza
sul tema «La trasformazione in-politica» organizzata dall’associazione Antigone, dalla Fondazione Serughetti-La Porta, dall’associazione Millepiani e dall’Ufficio Pace del Comune di Bergamo) proprio per questa sua posizione particolarmente delicata dal punto di vista geopolitico "è la prima ad avere interesse al mantenimento della pace nei Balcani, e questo le ha dato una sensibilità particolare, portandola a fare sforzi ad ogni livello (da quello politico a quello della società civile) che altri Paesi, anche più ricchi, non hanno fatto".
Prof. Ivekovic, temi come memoria condivisa e identità comune (che lei ha spesso trattato anche nei suoi libri) rappresentano, sia pure con aspetti diversi, un problema sia per l’ex Jugoslavia, sia per l’Europa. E questo proprio nel momento in cui i Paesi balcanici e l’Unione si guardano con reciproco interesse in vista di una possibile integrazione ed estensione della grande costruzione europea.
L’ex Jugoslavia, in realtà, sarebbe già stata quasi pronta (mancava poco) entrare in Europa poco prima della serie di guerre degli anni Novanta. Che furono al tempo stesso guerre per entrare in Europa e guerre europee, anche se è vero che i primi responsabili ne furono gli ex jugoslavi, che le combatterono. Però…
Però l’Europa non fu immune da responsabilità È questo che intende dire?
Sì, l’Europa mancò praticamente in tutto. E manca ancor oggi, anche se in modo diverso. Allora, mancò perché non c’era ancora un progetto di costruzione europea, e non c’era soprattutto l’idea dell’allargamento a Est. Perché non si pensava che i blocchi contrapposti della Guerra fredda potessero dissolversi in maniera così completa.
Oggi, invece…
Oggi il problema è diverso. L’Europa, che nei secoli passati ha "esportato" soprattutto a Ovest e a Sud le sue violenze (mi riferisco al periodo coloniale) oggi esporta le "sue" guerre verso Est. Per questo credo che vicino ai confini orientali dell’Unione non siano da escludere nuovi conflitti. Magari di grandi dimensioni, come quello ceceno. O magari di piccole dimensioni, come potranno essere quelli futuri nei Balcani, dove la pressione europea non permetterà più lo scoppio di grandi guerre. Ma questo non significa che i problemi siano risolti.
Però non finiscono più sulle prime pagine dei giornali occidentali, visto che l’opinione pubblica internazionale vive di mode anche di fronte alle tragedie. Quali sono, oggi, i problemi dell’ex Jugoslavia?
Problemi di ricostruzione, in tutti i significati che questo termine può assumere. Ricostruzione materiale. Ricostruzione del tessuto sociale. Ricostruzione di economie che non funzionano. Ricostruzione della comunicazione, visto che attraversare le frontiere è ancor oggi difficile. E poi, più a lungo termine, ricostruzione di progetti politici. Qui siamo al "punto zero". Ma anche l’Europa, per tornare al discorso iniziale, sotto questo aspetto penso si trovi al "punto zero", per quanto oggi sia forse un po’ più avanti rispetto a prima delle guerre nell’ex Jugoslavia. Perché, a mio avviso, proprio quelle guerre sono state fondamentali, se non addirittura costitutive, per un un vero
progetto europeo.
Un progetto europeo che negli ultimi anni ha subìto una fortissima accelerazione verso Est, basata essenzialmente su motivazioni economiche di reciproca convenienza per vecchi e nuovi membri. Non c’è il rischio che in nome di questi comuni interessi la costruzione europea finisca per inglobare troppo frettolosamente popoli così diversi tra loro dal punto di vista storico, politico e culturale?
Questo tutto sommato credo sia una fortuna. Più diverse sono, meglio sarà. Il problema non è la diversità, ma sono altri.
Quali?
Direi almeno tre. Primo: l’Europa deve capire come può passare dal progetto economico al progetto politico. Secondo: deve anche capire che in questo suo progetto entrano inevitabilmente le conseguenze e le responsabilità della storia coloniale e post-coloniale, della fine della Guerra fredda, della fine del socialismo reale e, ancora, della fine del socialismo autogestito jugoslavo, che fu diverso rispetto a quello degli altri Paesi dell’Est. E poi c’è, appunto, un terzo elemento, geograficamente esterno ai confini europei, eppure terribilmente legato all’Europa e alla sua realtà: il conflitto israelo-palestinese.
È il problema dell’«esportazione dei nostri conflitti» cui accennava?
Sicuramente. Questo è un conflitto europeo, che va risolto nel modo migliore. Ebrei e palestinesi devono indiscutibilmente vivere lì, e in pace. Il sogno è uno Stato comune, condiviso e democratico, ma ne siamo davvero lontani. Più realizzabile è forse il progetto dei due Stati. Ma
anche da questo, purtroppo, siamo in questo momento molto lontani.
Una delle reazioni a catena generate dalla questione israelo-palestinese è quella dell’integralismo islamico, con le sue derive t[]istiche. Esiste per l’Europa il rischio di infiltrazioni t[]istiche attraverso i Paesi dell’ex Jugoslavia, dove il dominio ottomano ha lasciato in eredità una consistente componente islamica, e dove negli anni Novanta si registrò per la prima volta il fenomeno dell’«internazionalismo islamico», ossia della confluenza di combattenti stranieri addestrati provenienti da tutto il mondo musulmano?
Non credo. Primo perché l’"internazionalismo islamico" è in fondo sempre stato una risposta, per quanto brutale, all’arroganza occidentale, che si voglia chiamare neocolonialismo, imperialismo, o con qualsiasi altro termine. Secondo, perché il fondamentalismo non è di casa nelle comunità islamiche dell’ex Jugoslavia dove non ci fu colonialismo. È stato importato, come risultato dei conflitti degli anni Novanta, ma siamo comunque su un piano completamente diverso da quello
che è poi successo con l’impiego di combattenti stranieri in Iraq e in Afghanistan.
Eppure la paura dell’integralismo è molto forte in Europa, come dimostra il dibattito sull’ingresso della Turchia…
Al di là delle esagerazioni occidentali, credo che il vero problema della Turchia non sia né l’"internazionale islamica", né il fondamentalismo, ma piuttosto l’esercito, l’esercito laico. E’ appunto l’esercito che è lontano dall’Europa, e i cosiddetti fondamentalisti moderati sono quelli che si vogliono adeguare e incorporare all’Europa. È un problema di democrazia e diritti umani, non di integralismo.
Un altro ostacolo con cui deve fare i conti l’allargamento a Est dell’Europa è il neoespansionismo russo (soprattutto a livello di gestione delle materie prime) nei confronti di quei Paesi che fecero parte dell’impero zarista prima e sovietico poi.
La Russia vuole restare a tutti i costi una grande potenza, anche se non lo sarà come lo fu l’Urss, perché il bipolarismo è finito, e il mondo è cambiato. Molto dipende da come l’Occidente permetterà alla Russia di coltivare questi suoi appetiti, che credo riguardino comunque soprattutto l’Asia centrale, dove le repubbliche ex sovietiche sono comunque rimaste molto legate a Mosca, dopo settant’anni di storia comune.
A Ovest, invece, i Paesi che fecero parte dell’impero sovietico e del Patto di Varsavia sono in perenne tensione (all’esterno come all’interno) fra le spinte filo-russe e quelle europeiste.
Il problema nei confronti della Russia è tutto legato al progetto europeo: dove vuole arrivare? A Est l’Europa non ha confini naturali, in fondo non è neppure un continente vero e proprio. È una "virgola", una piccola penisola dell’Asia. Questo rende del tutto indecifrabile il futuro del progetto europeo, soprattutto a lungo termine. Si vuole arrivare a Vladivostok? Se sì (pero questo non è stato il progetto di nessuno ; è un’immagine che utilizzo), sarà la globalizzazione compiuta. Ma il processo è molto lungo e difficoltoso. E non è un problema che riguarda solo l’Est. L’Europa deve riflettere di fronte al mondo intero sulle conseguenze del suo allargamento e sulle sue responsabilità storiche. Lo deve fare nei confronti dell’Asia come dell’Africa, come di tutti i continenti colonizzati in passato. Ma ancora non riesce a pensare alle sue responsabilità su quello che succede al di fuori dei suoi orizzonti. Quello che è difficile da digerire, per noi europei, è che il futuro del mondo non è il livello di vita di Bergamo, o di Parigi, ma è quello di Calcutta. La ricchezza dell’Occidente, prima o poi, andrà redistribuita.